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BANCHE. COMMISSIONE DI MASSIMO SCOPERTO E RINNOVO UNILATERALE DEL CONTRATTO: LE REGOLE

di FABIO PICCIOLINI
segretario nazionale ADICONSUM

Nella prassi bancaria la commissione di massimo scoperto (CMS) è stata definita come quella percentuale che la banca applica al massimo saldo negativo registrato durante un trimestre, solitamente applicata per l’intero trimestre, anche se in tale arco temporale il cliente affidato fosse andato in rosso anche per un solo giorno. Nella pratica, dunque, il cliente, divenuto debitore della banca, si trovava a corrispondere oltre agli interessi passivi intesi quali frutti civili che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia ex art. 820 del Codice civile, anche una commissione che veniva a volte calcolata una sola volta sul massimo scoperto cioè sulla massima esposizione debitoria del periodo, in una determinata unità di tempo, il trimestre.
C’è altresì da premettere come la CMS usualmente era applicata solo a determinati contratti bancari, riconducibili alla nozione dell’apertura di credito, per lo più in conto corrente, nonché ai fidi di fatto, le cosiddette scoperture e sconfinamenti. In particolare, da quasi costante giurisprudenza di merito e in assenza di una norma precisa che ne prevedesse le modalità applicative, essa era fatta consistere in un onere aggiuntivo alla somma già dovuta dal cliente per interessi passivi, in base ad unilaterali modalità di calcolo. Da molti istituti bancari dunque, essa era intesa come un accessorio dell’interesse passivo.
I problemi di trasparenza contrattuale e di liceità della CMS hanno dunque indotto il legislatore a introdurre nel nostro ordinamento l’art. 2 bis della legge n. 2 del 2009. Orbene, sebbene debbano, e dovessero anche prima della citata riforma, essere redatti in forma scritta, i contratti bancari di solito non contemplavano una clausola normativa che definiva la nozione e i criteri di applicazione della Commissione di Massimo Scoperto, limitandosi piuttosto a indicarne il mero valore, espresso in termini percentuali, nella sezione contrattuale dedicata alle condizioni economiche.
La natura della CMS è stata a lungo dibattuta, essendo difficile trovarne un fondamento chiaro e univoco, essendo rimasto senza risposta per lungo tempo il problema della sua corretta qualificazione giuridica e della conseguente funzione economico-sociale. Secondo la dottrina tradizionale, nell’apertura di credito l’accreditato è innanzi tutto obbligato a corrispondere alla banca la cosiddetta «provvigione di conto» che rappresenterebbe essenzialmente il corrispettivo dell’obbligo della banca di tenere a disposizione dell’accreditato una determinata somma per un certo tempo, indipendentemente dall’utilizzazione che egli faccia del credito.
L’ambiguità stessa della natura della provvigione di conto ha contribuito in modo decisivo a rendere difficile la qualificazione di una delle sue manifestazioni d’uso, in altre parole la CMS. Tali problemi interpretativi sono stati oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali: così, la potenziale ambivalenza della CMS è stata colta dalla Suprema Corte di Cassazione, con sentenza 11.772 del 2002, secondo cui essa può essere assimilata, per un verso «ad un accessorio che si aggiunge agli interessi passivi». Può tuttavia assumere, per altro verso, anche una diversa funzione, «remunerativa dell’obbligo della banca di tenere a disposizione dell’accreditato una somma per un determinato periodo di tempo, indipendentemente dal suo utilizzo».
In sintesi, sino alla pubblicazione della legge n. 2 del 2009, alla CMS, secondo il criterio con cui è stata applicata, è stata attribuita una natura assimilabile a quella degli interessi passivi, oppure è stata considerata un corrispettivo autonomo dagli interessi stessi. Nella prassi bancaria, infatti, la CMS si è progressivamente discostata dall’ampia e generica nozione di provvigione per la messa a disposizione delle somme, assumendo di fatto le caratteristiche proprie di una remunerazione aggiuntiva al tasso di interesse.
Questo processo evolutivo si è potuto evincere anche dalle Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia, secondo cui «tale commissione nella tecnica bancaria viene definita come il corrispettivo pagato dal cliente per compensare l’intermediario dell’onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell’utilizzo dello scoperto di conto; tale compenso, che di norma viene applicato allorché il saldo del cliente risulti a debito per oltre un determinato numero di giorni, viene calcolato in misura percentuale sullo scoperto massimo verificato nel periodo di riferimento».
Ma ancora nella giurisprudenza è stato sostenuto che la CMS, enunciata quale corrispettivo per il mantenimento dell’apertura di credito indipendente dall’utilizzazione dell’apertura stessa, possa essere considerata nulla per mancanza di causa, atteso che si sostanzia in un ulteriore e non pattuito addebito di interessi corrispettivi rispetto a quelli convenzionalmente previsti per l’utilizzo dell’apertura di credito; così almeno il Tribunale di Milano con sentenza del 4 luglio 2002. Più di recente, in particolare nel 2006, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 870, dava una corretta definizione di CMS, intesa come la remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione dei fondi a favore del correntista indipendentemente dall’effettivo prelevamento della somma. Sulla base di questa definizione essa doveva essere calcolata o sull’intera somma messa a disposizione della banca, in altre parole sulla somma rimasta disponibile in quel dato momento e non utilizzata dal cliente, ad esempio 2 mila euro, se il cliente ne ha utilizzato 3 mila euro, sui 5 mila totali affidati.
La banca infatti nel momento in cui assume l’obbligo di tenere a disposizione del cliente una determinata somma di denaro, ad esempio 5 mila euro, per un tempo determinato, in teoria e solo in teoria destina quella determinata somma a quell’utente per la durata dell’affidamento a prescindere della sua effettiva utilizzazione, poiché deve tenerla a disposizione di quel cliente che può utilizzarla totalmente ma anche parzialmente, in qualsiasi momento lo decida.
D’altra parte però la banca spesso si riservava di revocare in tutto o in parte il fido concesso, in maniera unilaterale: tale circostanza va solo a dimostrare il ridimensionamento, quantitativo e qualitativo del servizio di pronta disponibilità dei fondi. E allora una corretta identificazione della natura della CMS, come storicamente e originariamente disegnata, avrebbe dovuto indurre la banca a percepire una commissione sull’intera somma affidata, ad esempio 5 mila euro, anche nel caso in cui il cliente non avesse utilizzato alcuna delle somme messe a sua disposizione dall’istituto di credito. Nell’ipotesi in cui il cliente invece avesse utilizzato solo in parte 3 mila euro della somma affidata (5 mila euro), la banca avrebbe dovuto percepire un interesse corrispettivo per la somma utilizzata (3 mila euro) e una commissione per la residua somma tenuta a disposizione (2 mila euro).
Tuttavia sino ad oggi, contrariamente alla natura e alla definizione che ne fa la Suprema Corte, la CMS non è stata calcolata sulla somma affidata o rimasta disponibile bensì, al contrario sulla somma massima utilizzata nel periodo, solitamente il trimestre, e per tutti i giorni del periodo di riferimento. Nel corso degli ultimi anni dunque abbiamo assistito a una incolmabile contraddizione tra metodo di calcolo e funzione tradizionale della CMS: contraddizione che ha portato spesso la giurisprudenza di merito e di legittimità a dichiarare la nullità di quell’addebito, non trovando una giustificazione causale.
Per tali motivi sinteticamente illustrati il problema della CMS si è posto, almeno sino alla novella, sul piano della validità negoziale: tale commissione, è stato affermato, per essere valida, o meglio esistente dovrebbe essere determinata contrattualmente o comunque determinabile, nel suo ammontare e nella modalità di computo. Dunque, un primo punto fondamentale è che la CMS non può essere considerata come un «naturalia negotii», ma deve essere convenuta ad hoc in una ben precisa clausola contrattuale.
A causa di tali problemi interpretativi e applicativi la CMS è stata disciplinata, in sede di conversione del decreto legge n. 185 del 2008, dall’art. 2 bis della legge n. 2 del 2009, rubricato «Ulteriori disposizioni concernenti contratti bancari», frutto di una scelta volta ad eliminare ogni problema di legittimità della citata commissione, andando così legislativamente a superare il precedente orientamento, propenso all’abrogazione della CMS e comunque tendente a revocarne in dubbio la legittimità.
Come rilevato, il testo dell’art. 2 bis della legge n. 2 è soggetto a dubbie interpretazione a causa del tenore non chiaro della norma. E infatti il primo comma delinea in realtà due distinte fattispecie negoziali: esse rispecchiano diverse commissioni, non necessariamente alternative ma potenzialmente cumulative l’una rispetto all’altra. Questo è il grave problema dell’attuale regolamentazione della CMS. La prima commissione, denominata «commissione di massimo scoperto», è legittima solo se il saldo del cliente risulti a debito per un periodo continuativo pari o superiore a 30 giorni e può essere calcolata entro i limiti dell’utilizzo dell’apertura di credito concessa. La norma sancisce, per converso, la nullità di tutte le altre clausole aventi ad oggetto ulteriori e diverse nozioni di CMS, calcolate in qualunque altro modo. Anche eventuali remunerazioni su scoperti o sconfinamenti dovranno con ogni probabilità essere ricomprese entro la componente di costo tipica per la concessione - anche di fatto - del credito, vale a dire il tasso di interesse. Attenzione, che tale primo tipo di CMS, in base alla norma, sarebbe nulla in assenza di fidi.
La seconda tipologia di commissione, rintracciabile dopo un lungo inciso molte righe più sotto, è invece chiamata «corrispettivo per il servizio di messa a disposizione delle somme» (I comma, secondo alinea). Le due definizioni delle commissioni, espresse prima in negativo poi in positivo, sono tra loro collegate dall’avverbio «altresì»: da ciò se ne potrebbe dedurre una possibile convivenza nell’ambito dello stesso contratto. Dunque, per la prima volta il nostro diritto positivo menziona e definisce, sebbene con una certa approssimazione, la nozione di questa commissione.
Poiché è ragionevole immaginare che il legislatore, nel preservare la legittimità (condizionata) della CMS, abbia inteso mitigare l’effetto della preannunciata abrogazione, dovrebbe essere altrettanto ragionevole ritenere che la CMS, di cui tratta la prima parte della norma, sia quella che in concreto il sistema bancario da anni sta richiedendo alla propria clientela, e che da tempo è sottoposta al vaglio critico di dottrina, giurisprudenza e Antitrust, che recentemente ha aperto numerose procedure sanzionatorie nei confronti di altrettanto numerosi istituti bancari italiani. In sostanza la nuova legge ha svolto una mera ricognizione della realtà esistente, confermando che la CMS rappresenta una remunerazione accessoria rispetto agli interessi passivi.
È divenuto norma ciò che sino ad oggi è stato sentenza. In tal modo si superano anche molte critiche della giurisprudenza: da un lato quella dell’assenza di causa, che è ora individuata ex lege. La nuova disposizione tratteggia inoltre, sebbene con una certa approssimazione, la modalità di calcolo della CMS, lasciando intendere che essa si applichi sul picco massimo entro il periodo di riferimento, purché il cliente risulti a debito per un tempo pari o superiore a 30 giorni. Ciò va certamente a favore dei clienti che richiedano un fido temporaneo, ma va certamente a discapito di quelli che invece rientrino gradualmente e nel tempo nei margini dell’affidamento.
La seconda commissione, vale a dire il «corrispettivo per il servizio di messa a disposizione delle somme», per avere un senso deve pertanto riguardare una fattispecie diversa e non già disciplinata nella prima parte della norma. Ma in tal caso si realizza una potenziale duplicazione di commissioni, poiché il «servizio di messa a disposizione delle somme» cui è connesso questo corrispettivo altro non può essere se non il «contratto con il quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una somma di denaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato», cioè a dire l’apertura di credito bancario.
La prassi bancaria conosce innumerevoli voci diversamente denominate - provvigioni di conto, commissioni di allestimento e rinnovo pratica di fido, spese di istruttoria, oneri di revisione, diritti di segreteria ecc. -, tutte connesse al «servizio di messa a disposizione delle somme»; in sintesi remunerazioni accessorie al contratto di apertura di credito, per lo più commisurate all’ammontare dell’importo accordato. Ebbene, d’ora in poi tutte queste voci di spesa, «comunque denominate», pare, dovrebbero rispondere ai nuovi requisiti previsti dalla seconda parte del primo comma dell’art. 2 bis e non si dovrebbero cumulare con la previsione di cui al comma I.
Purtroppo successivamente all’introduzione della nuova disciplina molti intermediari bancari hanno interpretato e applicato in senso distorto, per la clientela, la CMS, mediante l’introduzione di altre voci di spesa analoghe alla CMS così come richiamata nel primo comma dell’art. 2 bis, quali ad esempio: commissioni per istruttoria urgente, corrispettivo sull’accordato, commissione per messa a disposizione di fondi, recupero spese per affidamenti, corrispettivo per disponibilità creditizia, indennità per sconfinamenti, corrispettivo per scoperto di conto. In aperta violazione della nuova disciplina, però, molti istituti bancari hanno inviato ai propri correntisti una lettera con cui, sul presupposto errato della possibile applicazione dell’art. 118 del Testo unico bancario (D.Lgs. 385/93), si è proceduto alla modifica unilaterale delle condizioni contrattuali introducendo, nel contratto di conto corrente stipulato antecedentemente all’introduzione della nuova legge, nuove commissioni prima non previste, anche a coloro i quali non avessero contrattato con la banca un’apertura di credito in contro corrente.
Si ricorda, infatti, che l’art. 2 bis della legge 28 gennaio 2009 n. 2 citato prevede come, per ammettersi la commissione di massimo scoperto nella nuova versione, occorra un «patto scritto non rinnovabile tacitamente», e cioè un’esplicita manifestazione di volontà, avente forma scritta, riguardante l’introduzione, in contratto, della clausola in questione. Se è presumibile che nuove tipologie di clausole, nei limiti ammessi dalla legge, entrino nei contratti che le banche andranno a stipulare con i nuovi clienti, non è ammissibile ammettere l’introduzione unilaterale di nuove commissioni-clausole per contratti che in precedenza non le prevedevano.
Illegittimi, infatti, debbono considerarsi i comportamenti che le banche hanno adottato nel tentativo di reintegrare a carico della clientela esistente, con voci di addebito, a nuovo e diverso titolo gli introiti forniti dall’abolita commissione di massimo scoperto, tentando ovviamente di evitare di incorrere nel divieto imposto dalla legge grazie a un’illegittima applicazione dell’art. 118 del Testo unico bancari. Questa norma, di indubbio favore per il settore bancario, realizza una deroga profonda ai principi generali del contratto che non riconoscono alcun valore al silenzio di una delle parti, prevedendo che le banche, se ricorre un giustificato motivo e in presenza di una pattuizione apposita, hanno la facoltà di modificare unilateralmente i tassi, i prezzi e le altre condizioni contenute nei contratti formali che ne regolano i rapporti con la clientela.
Il congegno adottato dalla legge consiste in una sorta di silenzio-assenso per cui la banca invia al proprio cliente una «Proposta di modifica unilaterale del contratto» con un preavviso minimo di 30 giorni; il cliente può recedere dal contratto senza spese entro 60 giorni. Se non lo fa, la modifica s’intende da lui accettata. Ma l’applicabilità dell’art.118 del Testo unico incontra il limite di non poter introdurre nuove condizioni contrattuali: ciò è stato chiaramente confermato dalle nuove disposizioni sulla trasparenza bancaria. Ciò, dunque, non consente agli istituti bancari di variare, a proprio arbitrio, il contratto fino ad introdurvi condizioni economiche, clausole o commissioni nuove, a titolo diverso. Dunque le nuove strutture commissionali, «sostitutive» dell’abolita commissione di massimo scoperto, non possono, neanche se sono valide, essere introdotte in modo unilaterale nei vecchi contratti perché occorre che, su di esse, si realizzi e si formalizzi un nuovo incontro di volontà delle parti.
Risulta quindi evidente che la norma deve essere al più presto meglio precisata, nel senso che la «commissione di massimo scoperto» e quella di «messa in disponibilità», comunque denominata, non possono essere applicate cumulativamente e che nuove commissioni, non previste nel contratto originario, per essere valide devono essere espressamente sottoscritte dal correntista. Le recenti affermazioni della Banca d’Italia in materia di commissioni applicate alla clientela - «in un numero non ridotto di casi il passaggio dalla vecchia alla nuova struttura commissionale ha prodotto un peggioramento delle condizioni per la clientela» e «Soprattutto per i conti non affidati, per i quali la legge ha sancito la nullità della commissione di massimo scoperto, la varietà di commissioni introdotte in sua sostituzione ha ridotto il grado di comparabilità del costo dello scoperto di conto» - sono, conclusivamente, la migliore dichiarazione a sostegno dei diritti dei correntisti e dell’esigenza che il sistema bancario non continui a puntare su improponibili interpretazioni delle leggi e delle norme, a danno della clientela.

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