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Presentato il forum Ambrosetti sull’agroalimentare italiano: i dati food & beverage

Valtellina forum food European House Ambrosetti

Dedicato a dedicato ai tre pilastri di alimentazione, sport e salute, si terrà il 4 e 5 giugno a Bormio (Sondrio) il forum The European House – Ambrosetti sul settore agroalimentare italiano, in occasione del quale verrà presentato il rapporto “La roadmap del futuro per il food & beverage” per poi chiudersi domenica 6 con una giornata di sport insieme a Ivan Basso e Alberto Contador ai laghi del Cancano e sullo Stelvio.

Il managing partner e ceo Valerio De Molli ha presentato il Forum Food 2021 durante una conferenza stampa: secondo l’elaborazione di The European House – Ambrosetti su dati Eurostat, Federalimentare e Istat, nel 2019 sono 208 i miliardi di fatturato consolidato aggregato (di cui 146 di food & beverage e 62 del comparto agricolo), con un export persino nell’anno pandemico 2020 che arriva a 46,1 miliardi (di cui 39,1 di f&b e 7 miliardi nell’agricolo); 1,4 milioni di occupati 2020 (473.500 nel f&b e 940.100 nell’agricolo) e 1,2 milioni di imprese (nel 2018, 54.866 nel f&b e 1,1 milioni di aziende agricole) e infine nel 2020 64,1 miliardi di valore aggiunto agrifood, dei quali 31,2 di food&beverage e 32,9 del comparto agricolo, cifra che nel totale è tre volte il valore automotive delle nostre vicine Francia e Spagna insieme. Stiamo parlando infatti della prima destinazione enogastronomica al mondo, meta preferita di cinesi, americani e tedeschi pre-Covid; primo paese al mondo per produzione di vino, che è stata del 19,4% del totale e secondo per esportazione con 6,4 miliardi dopo i 9,8 della Francia (2019); secondo Paese in Europa per quota (3,8%) del settore agroalimentare sul pil dopo la Spagna (4%) e per fatturato, che nel 2019 come anticipato è stato di 62 miliardi contro i 75,7 francesi; quinto Paese europeo per superficie destinata all’agricoltura biologica (15%) dopo Austria (25%), Estonia, Svezia, Repubblica Ceca.

Giusto per confrontare le grandezze, i comparti del design-arredo e del fashion sono tre volte più piccoli; quello farmaceutico è addirittura sette volte più piccolo in quanto a potere economico di valore aggiunto. Il tasso medio annuo di crescita nell’export è del 5,2%, con un dato di partenza di oltre 27 miliardi nel 2010 ma oltrepassando i 46 miliardi di euro dieci anni dopo (+1,8 nel 2020), con ampi margini di crescita in quanto rispetto ad altri Paesi europei l’export (che è per più della metà verso Germania, Francia, Stati Uniti, Regno Unito, Giappone) in termini assoluti è molto minore, quindi sarebbe il caso di colmare questo gap erodendo quote a Germania, Francia e Spagna che in quanto a esportazioni si danno ben più da fare di noi, soprattutto verso la Cina per la quale rientrano tra i primi dieci Paesi partner mentre l’Italia è solo -ahimé -ventesima, con circa l’equivalente di 40 centesimi pro capite nel beverage, cosa che farebbe ridere se non facesse piangere (la Svizzera, che è la prima destinazione del nostro export, vale 157 euro per abitante). E altro aspetto critico è la Brexit, essendo l’Inghilterra il quarto paese di destinazione, anno dopo anno sempre in crescita, per i nostri prodotti con quasi 4 miliardi (12% delle esportazioni italiane in Unione Europea). Le bevande rappresentano il primo prodotto agroalimentare esportato all’estero, pari al 21% del totale di cui il vino incide al 13,7% del totale agrifood e 6,3 miliardi di euro.

Avviata la tavola rotonda, Francesco Mutti, amministratore delegato dell’omonima azienda di conserve alimentari, non può che osservare come si stia parlando di un settore lasciato in balia di sé stesso che solo ultimamente ha assunto più importanza, anche se con considerevole ritardo; sono però presenti delle ombre, e lo attesta il fatto che il made in Germany o in Spain sia più rilevante che il made in Italy. Riconosciamo tutti il valore della Germania nel know how tecnologico e in tempi di pandemia abbiamo avuto modo di vedere quanto sia importante l’alimentazione, la cui filiera peraltro ha retto bene proprio perché italiana e, anche se non siamo abituati all’idea di poter intervenire sulle nostre esportazioni, è evidente l’importanza che assume avere un presidio interno soprattutto se pensiamo ora a mascherine o i vaccini. Cosa manca all’italianità per scalare il food? Senz’altro la dimensione aziendale: solo lo 0,5 delle aziende valgono il 60% delle esportazioni perché la maggior parte di esse ha un fatturato sotto i 10 milioni di euro e meno di 9 addetti: ciò non consente di affrontare i mercati esteri e diventa rilevante anche nella modalità di approccio a Paesi come la Cina. Vanno sviluppate politiche che nel tempo permettano una maggior concentrazione. Inoltre, il settore alimentare è classicamente resistente all’innovazione ma da parte soprattutto USA si sta verificando un’accelerazione tecnologica e non è solo un tema di “free from” ma di fondare un’alimentazione diversa - si veda cosa avviene con carne e latte: hamburger senza carne e latte che non lo è - oltre che impostare una diversa piramide alimentare insieme a salute e sostenibilità ambientale, temi che fanno rivedere dei paradigmi. E una dimensione minore non consente investimenti in ricerca e sviluppo.

Ben radicato all’estero con radici italiane il business dell’amministratore delegato di Sanpellegrino (Gruppo Nestlé) Stefano Marini: “La quota di export dell’azienda è il 60% del fatturato in oltre 150 Paesi nel mondo: S. Pellegrino e Panna sono le nostre acque internazionali mentre Levissima e Sanbittèr sono marchi con una distribuzione italiana. L’export nel 2019 era cresciuto dell’11% ma ha affrontato decrescite spaventose senza il settore horeca; però conserviamo l’ottimismo e durante le riaperture si è immediatamente registrata una ripresa, sintomo della qualità del made in Italy e della voglia dei consumatori di tornare a una vita normale”. Con questi marchi Sanpellegrino opera in 5 stabilimenti, tutti in Italia, di cui i due più grandi a San Pellegrino Terme in Val Brembana e a Cepina Val di Sotto per Levissima, territorio quest’ultimo in Valtellina, che ospiterà il forum. “La salute per noi è collegata al concetto di idratazione, corretta alimentazione e stile di vita associato allo sport e la mission di Sanpellegrino è quindi garantire un’acqua di qualità: come per il vino e l’olio, cui viene abitualmente accostato il concetto di terroir, anche l’acqua minerale prende le sue caratteristiche dal territorio. L’acqua che infatti beviamo oggi è la pioggia caduta trenta anni fa, perché tanto impiega ad arrivare attraverso le falde e le rocce alla sorgente da cui viene captata: motivo per cui non si può delocalizzare l’acqua minerale che è prodotta là dove sgorga. Ecco l’importanza delle tutela e sostenibilità del territorio, che ci fa questo dono che noi non lavoriamo ma semplicemente imbottigliamo”.

 “La Lombardia è molto rilevante in termini di produzione di Grana Padano: per il 70,7% i consorziati sono lombardi e per il 15% veneti; inoltre piacentini, qualcosa nel Piemonte e anche trentini con la variante Trentin Grana. Il 41% è di export per 1 miliardo 300 milioni di euro l’anno, un numero importante per coinvolgimento e incidenza economica sul territorio”. Al consorzio è vietata qualunque attività commerciale quindi il direttore generale del consorzio di tutela del Grana Padano Stefano Berni si riferisce ai produttori consorziati. Per lui, chiarezza e trasparenza sono alleati: “L’Italia ha una quota di prodotti di qualità ad alto valore, da cui deriva un costo maggiore per il consumatore rispetto agli altri Paesi che ci superano. Non raggiungiamo quindi volumi e quantità di risorse economiche esportate perché l’incidenza della commodity sull’esportazione italiana è più contenuta rispetto ad altri Paesi. Dobbiamo pretendere distinzione e chiarezza nel presentare il nostro formaggio: più crescerà il suo livello di consapevolezza del consumatore mondiale e più le opportunità di espanderci. Il valore al consumo è di 1 miliardo 300 milioni ma sarebbe tre volte tanto, quasi tre miliardi di euro, considerando il prodotto consumato “come se fosse” Grana Padano - e purtroppo non lo è. Chiediamo norme che ci permettano di essere più trasparenti perché molti pensano di consumare eccellenze italiane e non è così”. Il riferimento è all’italian sounding, con l’ulteriore spina nel fianco dell’etichetta a semaforo che confonde ulteriormente “poiché misurata sulla base dell’analoga quantità: 100 grammi di insalata non sono paragonabili a 100 grammi di Grana Padano per cui si arriva a condannare mediante colorazioni a semaforo e a valutare benevolmente prodotti che invece non hanno i giusti nutrienti. Eppure –continua– nella pandemia siamo stati fortunati perché siamo cresciuti in Italia e all’estero, forse meglio ha fatto solo il Parmigiano Reggiano”. Si è consumato di più in casa e ciò porta a un’altra riflessione: “nell’horeca lo share dei prodotti simili al Grana Padano è circa del 50%: il nostro è del 34% e quello del Parmigiano Reggiano è 15%. Con i ristoranti chiusi il nostro share è lievitato. Ma non vogliamo questo bensì chiarezza in etichetta”.

L’assessore regionale agli enti locali, montagna e piccoli comuni Massimo Sertori osserva come la valle sia una cassaforte, non solo di acqua, per l’intera Lombardia. “I ghiacciai in Alta Valtellina alimentano buona parte delle centrali idroelettriche, che producono energia e anche regolano le altezze del lago e a valle consentono le irrigazioni di cui beneficiano le produzioni agricole. Con 3.200 kmq e 183.000 abitanti, così estesa ma con così poca densità, la strategia della Valtellina è sopravvivere grazie alla qualità, ed ecco quindi i terrazzamenti vitati, con i 2.500 km di muretti a secco di vigne, candidati come patrimonio culturale dell’umanità Unesco, costruiti a ricavare i pianori per la coltivazione della vite e quindi produrre un vino che necessariamente non può che essere di qualità per vivere”. Ecco qui il legame con il territorio. Cosa rende la Valtellina un modello da “esportare”? Anzitutto la ricchezza e peculiarità di un territorio che produce un numero considerevole di eccellenze del made in Italy dalla bresaola della Valtellina IGP (80% di tutta la bresaola nazionale) al Casera DOP, dal Bitto DOP ai pizzoccheri IGP; territorio senza il quale non si avrebbe quel paesaggio che presto, da piccolo paese nel cuore delle Alpi, nell’ambito di Milano-Cortina 2026 sarà protagonista ospitando le gare di scialpinismo, con ulteriore flusso di visitatori che andrà ad aggiungersi alle già 3 milioni 600 mila presenze turistiche in media all’anno per la provincia di Sondrio grazie allo Stelvio, a food & beverage, sport, benessere.

La provincia di Sondrio ha un’incidenza del numero di imprese attive nel settore agroalimentare (quasi 2.500, 18,7% del totale delle imprese del territorio) di 3,3 volte superiore rispetto alla media della Lombardia e l’incidenza dell’export (96,3 mln, il 13,3% del totale della provincia) è quasi doppia se confrontata con quello della regione di appartenenza; inoltre, è la prima provincia lombarda per numero di prodotti agroalimentari tradizionali: 42 ossia il 16% della Regione.

Conclude il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana. “La Lombardia è il primo produttore agricolo dell’Italia e l’importanza dell’innovazione in campo produttivo la tocchiamo con mano quando la scarsezza idrica impone di dirigersi verso un’agricoltura di precisione che salvaguardi le risorse fondamentali a sviluppare la produzione. Perciò stiamo applicando la blockchain nel controllo della filiera delle produzioni alimentari, offrendo quindi una garanzia in tal senso. In merito all’italian sounding, sono 60 i miliardi ogni anno di danni e la garanzia che offriamo al consumatore viene bypassata per esempio quando è consentito usare il termine “parmesan”. Questo è truffare non solo il consumatore ma anche il nostro Paese, a causa dei chiaroscuri che sono però consentiti. Mi auguro che il Governo presieduto da persona di grande autorevolezza a livello europeo possa intervenire”.

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