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DIRITTO FALLIMENTARE: ACCETTARE I CAMBIAMENTI? LA CONCORRENZA AVANZA, NON SI DEVE PERDERE IL PASSO

di LUCIO GHIA

Il campione del basket internazionale Michael Jordan ha pubblicamente dichiarato: «Ho segnato undici volte canestri vincenti sulla sirena, altre diciassette volte ho segnato a meno di dieci secondi dalla fine, ma nella mia carriera ho sbagliato più di novemila tiri, perso quasi trecento partite, sbagliato trentasei volte il tiro decisivo affidatomi dai miei compagni di squadra. Ho fallito molte volte nella vita, ma alla fine, soprattutto grazie a questo, ho vinto tutto». Infatti i suoi compagni di squadra ricordano che, dopo ogni sconfitta, Michael si chiudeva in albergo e rivedeva i filmati della partita; quindi tornava ai propri massacranti allenamenti e a vincere.
Nell’economia, come nello sport, l’esperienza e in particolar modo quella negativa, la riflessione sugli errori commessi, il confronto con il «team», con il pubblico ovvero con i clienti, rappresentano, o almeno dovrebbero rappresentare la chiave di volta, il punto da cui ripartire, la base sulla quale costruire un nuovo successo, con un know how impreziosito dagli errori commessi in passato, così da evitarli in futuro. In questa maturazione si nasconde il segreto della «seconda chance» che, nella concezione tradizionale sia sociale che giuridica del nostro Paese e sino alla recente riforma del diritto fallimentare - intervenuta con il decreto legislativo n. 5 del 2006 e arricchita dalla normativa del decreto correttivo n. 169 del 2007 -, era sconosciuta se non da ripudiare, così come lo era il fallito il quale, avendo tradito la fiducia concessagli e avendo attentato alla stabilità dei rapporti economici, doveva essere espulso dal mercato e andare incontro alla cosiddetta «morte civile».
Per fortuna i tempi cambiano e il carattere punitivo del fallimento ha assunto, negli ultimi anni, sulla base anche delle esperienze maturate nei Paesi d’oltreoceano, connotazioni più moderne, che tengono conto della possibilità, per il fallito meritevole, di ritornare all’attività produttiva attraverso l’istituto dell’«esdebitazione», introdotto nel nostro sistema delle norme concorsuali nel 2006. Il fulcro delle novità legislative è rappresentato dalla nuova consapevolezza del «valore tempo». Al fine di evitare la liquidazione fallimentare favorendo il risanamento dell’impresa in crisi, è stata infatti finalmente regolamentata dal Legislatore la necessità di intervenire tempestivamente sull’impresa in crisi attraverso strumenti a carattere prevalentemente negoziale previsti dalla legge fallimentare: il piano attestato ex articolo 67, comma terzo, lettera d; il piano di ristrutturazione ex articolo 182 bis; il concordato preventivo ex articoli 160 e seguenti.
Alla luce di tali novità normative e dei risultati ottenuti, in realtà non così brillanti come si sperava, l’interrogativo da porsi è se e in quale misura tali esperienze, tali istituti, possono trovare concreta applicazione nel nostro sistema, che offre segnali contraddittori. Da un lato dimostra di guardare avanti, dall’altro rimane ancorato a concezioni superate della materia concorsuale. La domanda che sorge, ad esempio, è se in Italia possa mai essere considerata positivamente l’esperienza del debitore «esdebitato», ovvero dichiarato fallito e liberato ope legis dai debiti non pagati con la liquidazione fallimentare; ovvero se tale know how potrà mai essere posto al servizio di strutture imprenditoriali complesse, seguendo l’esempio di Bill Gates che nei consigli di amministrazione delle proprie società voleva al proprio fianco, tra i suoi consiglieri, anche chi fosse uscito da una procedura fallimentare.
Al Legislatore italiano, d’altronde, va riconosciuto il merito di aver tracciato un sistema realistico non privo di contenuto premiale, che mira a far sì che la crisi possa essere curata in tempo utile consentendo, nei casi in cui ciò non sia possibile, la liberazione dai debiti residui del fallito, che potrà tornare ad operare sul mercato. Ma non basta una buona legge a cambiare il sistema, tanto più se gli attori delle procedure concorsuali, e in particolare i professionisti del settore, dimostrano di non essere pronti ad accettare i cambiamenti e a mettere in discussione le antiche prassi. L’analisi delle disfunzioni non può prescindere, però, da una breve premessa relativa alle tappe fondamentali che conducono ai giorni nostri.
Oggi, il diritto fallimentare italiano ha spostato il proprio baricentro dalle aule giudiziarie ai tavoli stragiudiziali nei quali il metodo «out of Court» favorisce la promozione del negoziato tra debitore e creditori, con la progressiva privatizzazione della procedura fallimentare. L’introduzione dell’istituto dell’esdebitazione, alla quale, come accennato, è seguita l’applicazione di nuovi strumenti negoziali di composizione della crisi d’impresa, ha fatto sì che il debitore fallito fosse liberato dalla «gabbia pubblicistica del fallimento» secondo l’impostazione colpevolista e punitiva della legge fallimentare del 1942.
La cornice, quindi, è cambiata e almeno apparentemente, grazie anche all’opera del Legislatore, è stato scoperto il valore del tempo nella gestione della crisi. Infatti i curatori e i commissari hanno l’obbligo di operare entro termini resi stringenti dall’opportuna previsione, nel caso di mancato rispetto di tali termini oltre che in caso di «mala gestio», della loro revoca. Il curatore, ad esempio, ha l’onere di presentare al comitato dei creditori il programma di liquidazione ex articolo 143 ter della legge fallimentare entro sessanta giorni dalla redazione dell’inventario. Tale programma rappresenta un vero e proprio enunciato dell’iter liquidatorio che verrà seguito nell’interesse dei creditori, i quali l’assumeranno quale parametro sia della concreta realizzabilità dei loro diritti di credito, sia della valutazione dell’operato del curatore.
Ma quali sono allora i motivi per i quali le procedure fallimentari continuano a durare in media sette anni? Ed ancora: come mai il nostro sistema, in termini di risposte da dare ai creditori, non riesce ad essere allineato ai sistemi giuridici dei nostri diretti concorrenti internazionali? Ecco che la costatazione iniziale secondo la quale, se sono «vecchi», ovvero legati a una cultura non più attuale, coloro che attuano la «nuova» disciplina, inevitabilmente emergeranno difficoltà e risultati inappaganti. Il che, in vicende economiche come quelle debito-creditorie, significa non riuscire a restituire l’attivo esistente il più velocemente possibile al mercato; non ripartire tempestivamente tra creditori la liquidità ricavata dalle vendite o gli indennizzi ricevuti.
Spesso il «vestito» giuridico soffoca la natura economica del fallimento. Ad esempio, nel caso di vendite immobiliari, di mobili di valore, di marchi, brevetti ecc., è necessario per il curatore, prima di procedere alla vendita, munirsi di una stima sul valore del bene realizzata da un consulente tecnico. Orbene trovarsi di fronte a stime che attestano un valore degli assets da liquidare di gran lunga superiore a quello di mercato, comporta conseguenze gravemente negative in termini di rallentamento della procedura.
Infatti, poiché la base d’asta è quella determinata dal consulente, saranno necessari numerosi esperimenti al ribasso prima che il mercato determini il prezzo di vendita, ma nel frattempo può essere trascorso anche qualche anno. Nello stesso modo la pendenza di giudizi instaurati dalla curatela - quali azioni revocatorie, azioni di responsabilità contro amministratori, sindaci, direttori generali, spesso del tutto infondate o rivolte nei confronti di persone del tutto impossidenti -, mentre non dà risultati utili né apprezzabili per i creditori, non consente la chiusura di fallimenti che si trascinano per anni erodendo le attività esistenti a vantaggio dei curatori, dei difensori del fallimento in questi inutili giudizi, dei consulenti tecnici e dei periti di parte.
Possibili soluzioni possono essere rintracciate anche nell’esperienza americana, nella quale il bankruptcy trustee o curatore fallimentare, e i consulenti tecnici da nominare appartengono ad albi privati, e le nomine degli stessi avvengono in base alle specialità delle singole procedure in relazione al profilo di ciascun professionista. Tale sistema, inoltre, pone in risalto il valore del tempo, prevedendo compensi per i trustee inversamente proporzionali alla durata della procedura; e, per i tecnici, non parametrati ai valori da essi stessi attribuiti ai singoli beni, ma all’effettivo risultato delle vendite. In sostanza il «rating» dei professionisti che si occupano dei fallimenti è strettamente correlato ai risultati e alla velocità di conclusione delle procedure.
Nel cammino da compiere per allineare il nostro Paese a quelli dotati di sistemi di diritto fallimentare più evoluti, la fotografia dello stato attuale rileva, quindi una marcia a velocità differenti, nella quale chi opera nell’ingranaggio delle procedure concorsuali, cioè curatori, consulenti ecc., non riesce a tenere il passo del Legislatore, né tantomeno quello del mercato e dell’economia. I progressi ravvisabili non sono comunque da sottovalutare, posto che gli strumenti forniti dalla legge del 1942 sono stati nel tempo sostituiti o integrati, oltreché rinnovati, anche nel contesto della guerra finanziaria caratterizzante l’attualità, della quale il livello dello spread, la chiusura di molte aziende e le difficoltà di quelle ancora aperte sono i sintomi più evidenti. Su tali strumenti, consistenti come accennato nel piano attestato, nell’accordo di ristrutturazione dei debiti e nel concordato preventivo, mi soffermerò nel prossimo numero.

Tags: Lucio Ghia Luglio - Agosto 2012 fallimento

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