Farmaci. Un’industria malata di marketing
del prof. SILVIO GARATTINI, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri
Alla domanda «Dove va la medicina agli inizi del 2006» si dovrebbe rispondere «Va dove vuole» o, meglio, «Va dove vi sono interessi economici». Si sta infatti sempre più allargando il divario fra i bisogni non ancora soddisfatti degli ammalati rispetto agli interventi medici e alla ricerca biomedica. Per dare un esempio, abbiamo in circolazione circa 360 confezioni di una sola classe (ve ne sono altre quattro) per il trattamento della ipertensione, mentre in un periodo di cinque anni sono stati messi a disposizione solo 20 nuovi farmaci per la terapia delle malattie rare, i cosiddetti farmaci orfani. È vero che gli ammalati con la pressione alta sono molti, ma è altrettanto vero che le malattie rare sono 5 mila.
Chi si occuperà di dare speranza a questi ammalati che sono portatori di circa il 10 per cento delle patologie gravi, e che già hanno grandi difficoltà a ottenere una diagnosi? Non certo l’industria farmaceutica che, ovviamente, non può investire in settori che non diano adeguati ritorni economici, anche se potrebbe devolvere una piccola parte dei propri cospicui profitti per incrementare la ricerca sui farmaci orfani. Sarebbe indubbiamente una forma di promozione di immagine alla lunga più efficace di tanti spot pubblicitari.
Se coloro che hanno malattie rare hanno problemi, ne hanno forse di più coloro che soffrono di malattie in parte già curabili, ma che purtroppo sono in miseria e non hanno denaro neppure per comperare i farmaci più elementari ma essenziali. Anche in questo caso intere popolazioni sono flagellate dalla malaria, dalla lebbra, dalla tubercolosi, dalle malattie tropicali e più recentemente dall’Aids. Non solo non hanno a disposizione i farmaci già esistenti, ma manca completamente una seria ricerca per ottenere rapidamente vaccini e medicinali che siano meno tossici e più efficaci.
Può darsi che le cose cambino - ma non se ne vedono ancora i segni -, se ci si renderà conto che la globalizzazione può esporre anche i ricchi Paesi occidentali e industrializzati alle stesse malattie. Forse molte delle attuali preoccupazioni per la pandemia da influenza aviaria non esisterebbero se avessimo provveduto a creare in alcuni Paesi asiatici condizioni di vita più igieniche, non solo con interventi farmacologici ma innanzitutto rimuovendo povertà e ignoranza. Ma la medicina tende ad occuparsi prevalentemente dei problemi dei Paesi ricchi, dove si spende il 90 per cento delle risorse per una piccola parte della popolazione mondiale.
Si può aggiungere che anche nei Paesi ricchi la medicina rispetta poco le conoscenze scientifiche perché è tutta tesa ad aumentare, a qualsiasi costo, i consumi. Si dice che ciò serve a sostenere la ricerca, ma le cifre prodotte dalla stessa industria farmaceutica contraddicono questa affermazione. Infatti di fronte a spese per la ricerca che rappresentano meno del 10 per cento del fatturato, si spende più del 30 per cento per la promozione che viene chiamata informazione scientifica.
Tutta l’industria che ha a che fare con la salute, non solo quella farmaceutica, è ormai dominata dal marketing, mentre fino a qualche tempo fa era orientata dalle direzioni mediche. Vendere di più è un imperativo che porta alla medicalizzazione della società e trasforma i farmaci da «strumenti di salute» in «beni di consumo». Se si abbassano i livelli di normalità per la colesterolemia, per la pressione sanguigna o per la densità ossea, si aumenteranno notevolmente i consumi e, continuando su questa strada, non esisteranno più soggetti sani ma tutti avremo bisogno di qualche pillola.
È vero che, ad esempio, le statine sono farmaci efficaci, ma pochi sanno che almeno il 90 per cento di coloro che li assumono non ne ricavano alcun beneficio. Non sarebbe importante realizzare ricerche per sapere a priori chi trarrà vantaggio dal trattamento? Se ciò accadesse, diminuirebbe in modo consistente il mercato di questi farmaci, e perciò è assai improbabile che queste ricerche trovino chi le finanzi. Siamo una società farmacocentrica, e non sorprende perciò che molti dei farmaci più diffusi siano inutili.
La moda degli integratori alimentari, degli epatoprotettori, dei farmaci per la vecchiaia o per la memoria, dei farmaci dimagranti o dei farmaci antiossidanti è priva di ogni evidenza scientifica e non è molto diversa dai prodotti della medicina alternativa: dai rimedi omeopatici alle miscele erboristiche. La medicina, presa da alcuni indubbi successi terapeutici, si è completamente dimenticata della prevenzione, e cioè della promozione e della ricerca dei fattori di rischio delle malattie. Non tutte le malattie piovono dal cielo, molte ce le procuriamo con le nostre cattive abitudini di vita.
Se i 13 milioni di fumatori italiani smettessero questa abitudine e se non venissero rimpiazzati dai più giovani, avremmo una diminuzione di tumori del polmone, nonché di gravi malattie cardiovascolari, cerebrovascolari e polmonari di una tale entità da orientare la ricerca e l’impegno delle strutture e degli operatori sanitari a obiettivi diversi e più utili. È necessario, quindi, colmare un divario fra i bisogni degli ammalati e la direzione in cui va la medicina. Chi se ne occuperà?
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