Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

GIORGIO SANTACROCE, AL VIA LA GIUSTIZIA DEI VALORI SMARRITI

di LUCIO GHIA

Spenti da tempo i riflettori puntati sulle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario che si sono susseguite nei vari distretti delle Corti d’Appello italiane, sulle sfilate degli ermellini, delle toghe rosse e nere, sugli «scettri» emblema del potere giudiziario, portati in parata su cuscini di velluto rosso bordati d’oro, secondo le più antiche tradizioni monarchiche. Ma considerata l’importanza del tema Giustizia e l’attualità dello stesso, è utile riflettere su quanto sia rimasto dei discorsi inaugurali di quest’anno, delle voci di consenso e delle dissonanze che li hanno accompagnati.
Tolti i tappeti rossi, gli orpelli propri delle sale addobbate per le grandi cerimonie, resta, senz’altro, lo sconforto dei numeri che ogni anno investono l’opinione pubblica con l’onda d’urto di un’avanzata inarrestabile e, ahimé, in perenne peggioramento in termini di efficacia della risposta giudiziaria, che resta inadeguata e lenta. Riferendomi, più in particolare, alla situazione romana, la cui Corte d’Appello comprende un distretto immenso, sicuramente il più grande d’Europa per numero di magistrati, di cause pendenti e di decisioni annuali depositate, emerge un triste primato sulle dimensioni dell’arretrato giudiziario che non accenna a diminuire.
Il discorso inaugurale del suo presidente Giorgio Santacroce, tenuto il 28 gennaio scorso, a distanza di qualche mese dopo un’adeguata sedimentazione merita di essere ripreso per l’importanza dei valori che hanno costituito il tessuto connettivo nel quale i numeri del bilancio dell’anno trascorso sono stati inseriti e l’indirizzo e le attese per l’anno appena avviato collocati. Non si è trattato, infatti, del consueto, ripetitivo «cahier de doléances» basato su inefficienze, mancate risposte, disfunzioni, carenze che l’organico giudiziario incessantemente propone. Un quadro di insieme abitualmente enunciato come ineluttabile, sul quale i responsabili degli uffici «lanciano la spugna», quasi si trattasse di battaglie perse in partenza per l’insufficienza delle risorse a disposizione.
Il discorso ha manifestato un taglio nuovo, dovuto senz’altro al clima sociale e politico del Paese che, con l’avvento del Governo tecnico, è profondamente mutato. Non c’è più il «nemico» dell’organizzazione giudiziaria, della magistratura, che aleggia sullo sfondo, che va battuto, contro il quale va combattuta, con ogni mezzo legittimo, una battaglia senza tregua. Questa volta in un contesto più coeso, senza le proteste di magistrati che agitino la nostra carta costituzionale, viene posto con forza il problema essenziale: rendere la magistratura capace di dare le risposte istituzionali che il cittadino si attende.
Al centro dell’attenzione ritroviamo un valore smarrito: il servizio giudiziario come obiettivo da assicurare in una democrazia matura, come valore da considerare prioritario. Di fronte al raggiungimento di questo obiettivo, quest’anno, tutto può passare in secondo piano. È in fondo lo stesso messaggio molto pragmatico, molto sereno, che è stato rivolto all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Corte di Cassazione da parte del ministro della Giustizia Paola Severino: una giustizia al di fuori del tempo, senza tempo; una giustizia lenta, non è giustizia, perde qualsiasi credibilità, qualsiasi utilità, diventa un esercizio sterile, forse scientificamente meritevole di qualche considerazione, ma al di fuori da qualsiasi logica che deve alimentare, quali l’adempimento di un dovere e la realizzazione di un servizio pubblico.
Questo metodo si basa sulla necessità di usare le risorse esistenti, e già ci siamo intrattenuti su queste colonne a proposito dei mezzi disponibili per raggiungere il risultato «più risparmio, più efficienza». Il Governo pensa a misure strutturali, in primis a ridisegnare la geografia giudiziaria dei tribunali italiani, recuperando risorse, magistrati e cancellieri. Quindi, tagli e accorpamenti di piccoli tribunali, di procure, di sezioni staccate, di uffici del giudice di pace non circoscrizionali, con conseguente recupero di magistrati e di personale amministrativo da destinare a sedi bisognose di rinforzi.
Naturalmente, avverte il presidente Santacroce, il Consiglio Superiore della Magistratura dovrà evitare impostazioni esclusivamente ragionieristiche, e sono problemi questi che non si risolvono certamente con il bilancino. Certo è che così come sono ubicati e strutturati, oggi non sono efficienti né i tribunali grandi, né quelli piccoli. A questa considerazione aggiungo il mio personale e sincero auspicio, vale a dire che questa marcia verso l’efficienza strutturale non venga fermata, com’è stato nel passato, dal campanilismo politico locale.
Per la giustizia civile ordinaria il problema di fondo è senz’altro determinato dall’incapacità, che si è consolidata progressivamente nel tempo, di prendere atto dell’aumento della domanda giudiziaria, e quindi di strutturare diversamente uffici che invece sono rimasti cristallizzati in una visione antica della risposta giudiziaria, oggi non più adeguata ai tempi. I milioni di cause che restano in attesa di essere decise costituiscono il risultato di una politica giudiziaria senz’altro miope e incapace di darsi regole nuove e di dedicarsi realmente al servizio del cittadino. Dall’altra parte, anche la classe forense, che è esplosa fino ad arrivare ai 220 mila iscritti che popolano gli albi di tutta Italia, ai 26 mila avvocati che sono iscritti al Consiglio dell’Ordine di Roma con buona pace di ulteriori liberalizzazioni, ha le proprie non lievi responsabilità.
Infatti, l’incapacità ad individuare altre forme di definizione delle liti al di fuori dei tribunali, malgrado il loro esponenziale aumento, ha contribuito alla crisi profonda della giustizia togata. L’incapacità di trovare alternative ha finito per provocarne l’asfissia. D’altronde ancora oggi gli studi universitari si basano, per ciò che attiene al diritto processuale, sulla cultura del processo come unica soluzione al contenzioso tipico di un Paese industrialmente evoluto. Mentre in altri Paesi solo il 7-8 per cento delle vicende contenziose approda alle aule giudiziarie.
Noi siamo ancora legati alla visione, per quei tempi modernissima, di Cicerone che affidava al processo togato il compito «ne cives ad arma veniant». Oggi emerge la necessità di avere strumenti alternativi. Ma anche il costo complessivo del giudizio gioca la propria parte. In termini globali, il ricorso ai tribunali, con le sue lungaggini, finisce per essere preferibile - per chi ha torto - al pagamento di somme di danaro: la giustizia civile normalmente si occupa di problemi economici, infatti, fa leva su un evidente elemento di potenziamento, esterno all’organizzazione giudiziaria, che si chiama «tasso di interesse legale», ovvero quelle somme che si aggiungono alla sorte dovuta al vincitore nel giudizio, per effetto del decorso del tempo.
Questo elemento resta lo «sponsor» essenziale della scelta giudiziaria, la componente finanziaria che incentiva la moltiplicazione delle cause, perché oggi colui che «perde» una causa dopo 5 o 6 anni si vede condannato a pagare l’importo che avrebbe dovuto pagare anni prima, maggiorato degli interessi dell’1,5 per cento l’anno. Malgrado tutto, colui che ha torto in giudizio vince la causa. Basta, infatti, investire quella somma in bot o cct per ottenere un vantaggio non lieve. La direttiva europea n. 7 del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, aumentando il tasso di legge applicabile agli interessi di mora ad almeno 8 punti percentuali al disopra di quello di riferimento della Banca centrale europea, ha tentato di porre un rimedio a simili problemi, ma limitatamente a tale specifica categoria di creditori; per gli altri, i maggiori danni, non compensati dal tasso d’interesse legale, devono essere provati, con ulteriori lungaggini, costi e incertezze processuali.
Ecco un fiero nemico dei numerosi interventi che si sono succeduti nella ricerca dell’efficienza giudiziaria smarrita. Ed è anche il grande nemico che ostacola la diffusione e la pratica di una profonda innovazione procedimentale, alternativa al giudizio, realizzata nell’attuale legislatura e che viene considerata, a ragione, di prioritaria attuazione. L’avvento degli organismi di conciliazione, mediazione o arbitrato, di cui al decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28, fiore all’occhiello del ministro Alfano, rappresenta la soluzione affinché non affluiscano più nei tribunali italiani circa un milione di cause nuove all’anno, di modo che i nostri giudici possano dedicarsi all’arretrato.
In effetti sono stati realizzati in tutta Italia corsi per mediatori, conciliatori ed arbitri, sono state attivate le camere di conciliazione e gli organismi di conciliazione ormai esistono in molte città italiane; è facile accedervi ovunque, ma il loro decollo non è ancora avvenuto in termini soddisfacenti. Vi sono timidi passi avanti in questa direzione. È vero, la cultura ha bisogno dei propri tempi per cambiare, e senz’altro quella dominante è orientata tradizionalmente ed esclusivamente verso il giudice come unico elemento terzo che, al di fuori della vicenda processuale ed al di sopra delle parti, deve emettere la propria sentenza di verità.
La sostituzione della sua funzione con diversi strumenti di definizione della lite - basati sulla capacità di trovare punti di incontro tra le opposte tesi delle parti, sul compromesso e, quindi, sulla mediazione tra i contrapposti interessi per pervenire a una soluzione comunemente accettata dalle parti stesse -, presuppone un cambio rivoluzionario di mentalità, che poggia su differenti sistemi formativi dei giuristi di domani. Questi ultimi dovranno essere particolarmente esperti nello svolgere analisi di carattere psicologico per individuare gli effettivi ostacoli da superare nel negoziato tra le parti, ma anche di carattere economico per individuare il punto di convergenza delle opposte richieste, il valore aggiunto della definizione della lite per le parti, rappresentato anche dalla possibilità di preservare le loro relazioni economiche e sociali.
Oltre agli strumenti, agli interventi tecnici, va sottolineato il forte richiamo che il presidente Santacroce ha rivolto al recupero dei valori fondanti il ruolo, le funzioni e il servizio affidati ai magistrati. L’ulteriore proposta che si sta facendo strada è quella relativa all’eliminazione del grado di appello. Il sistema delle impugnazioni prevede oggi due gradi di giudizio di merito per qualsiasi controversia, indipendentemente dalla sua natura, dalla complessità dei problemi di diritto che si discutono, dal valore e dalla delicatezza della questione giuridica, dalla rilevanza sociale.
Orbene, ammonisce il presidente Santacroce, questo è un lusso che non possiamo più permetterci. Infatti la riduzione a un solo grado di giudizio di merito, fermo restando il grado di legittimità innanzi alla Corte di Cassazione, certamente rimetterebbe a disposizione di un loro più funzionale impiego risorse particolarmente qualificate, anche in termini numerici. È stata questa la parte più alta del discorso, ripresa, poi, anche dal procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, Luigi Ciampoli la cui relazione ha riguardato l’etica della professionalità che significa anche etica della responsabilità.
E qualsiasi professionista - e ciò vale non solo per i giudici, ma anche per gli avvocati - deve recuperare una maggiore consapevolezza del servizio che a lui si chiede di rendere nell’interesse più generale della collettività e del Paese. Quindi il senso della misura, il riserbo, la ripulsa di indebiti protagonismi, la condotta equilibrata nell’uso dei poteri, il rifuggire dall’«apparire», sono elementi fondanti la missione del giudice. Riflettere su questi temi è estremamente rilevante in una società della comunicazione qual’è la nostra. Quindi, anche per il magistrato viene sottolineata la necessità di rispettare le regole di sobrietà e di stile di vita, anche e soprattutto fuori dalle aule del tribunale, da privato, evitando il pericolo di considerare lecito e innocuo ciò che è invece inopportuno o addirittura sconveniente per chi svolge funzioni giudiziarie.
Il magistrato deve manifestare ogni giorno la propria indipendenza, accettando anche una serie di limitazioni alla vita privata. Non c’è potere senza responsabilità: l’ha affermato, con parole molto semplici ma estremamente calzanti, la Corte Costituzionale nella sentenza del 6 settembre 1996 n. 385, spiegando che l’indipendenza della magistratura non comporta un’irresponsabilità assoluta dei giudici, nemmeno quando si tratta di esercitare le funzioni riconducibili alla più rigorosa e stretta nozione di giurisdizione.
È opportuno riflettere sulle parole conclusive della relazione del presidente Santacroce: questa idea di magistrato, avulso da frequentazioni inopportune, dalla ricerca di vetrine di visibilità e da coinvolgimenti esterni, può sembrare anacronistica e fuori dal tempo, ma rimane l’unica via praticabile per evitare che il giudice abdichi alla propria fondamentale funzione di garanzia e di controllo della legalità, che costituisce il fondamento del suo ruolo istituzionale, venendo meno al dovere di essere soggetto anche alla legge. L’impegno è dunque di preservare la magistratura alta, che custodisca le proprie ragioni nobili e avverta la responsabilità e l’autorevolezza del proprio ruolo. Il Paese saprà apprezzarlo. Su questo monito non si può che convenire, augurando che il 2012 scorra all’insegna di questo modello di magistrato.

Tags: Lucio Ghia giustizia magistratura marzo 2012 Giorgio Santacroce

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa