LE VIE DI USCITA. LO SPREAD «FOTOGRAFA» I GRAVI RITARDI
Si è tanto parlato, e tuttora si parla, a volte con sufficienza, dello spread, il divario che separa i rendimenti dei nostri titoli pubblici poliennali da quelli omologhi della Germania. Si ignora però che tali differenze sono la sintesi di altri indicatori sui quali gli investitori riflettono con cura prima di stabilire a che prezzo rischiare i loro denari scommettendo sull’Italia. Tali indici riguardano i nostri ritardi in vari settori.
Un’analisi della Confartigianato, basata su rilevazioni condotte da vari organismi - tra cui Banca d’Italia, Transparency International, Banca Centrale Europea, Fmi, Ocse, Eurostat - segnala che le differenze tra noi e i tedeschi riguardano molti aspetti: lentezza della burocrazia e della giustizia, costi delle tariffe assicurative, quelli per avviare un’attività ecc. È evidente che non si può più accettare che l’Italia abbia, rispetto alla Germania, il 901,3 per cento in più di articoli contraffatti sequestrati, il 154,7 per cento in più di economia sommersa, il 514,3 per cento in più dei tempi medi di pagamento delle Amministrazioni pubbliche, il 277,9 per cento in più dei costi per ottenere una licenza di costruire, il 156 per cento in più del valore della bolletta energetica nazionale.
Il confronto con Berlino è gravoso. Abbiamo differenziali che ci umiliano sia per la densità della rete ferroviaria che per l’uso di internet, lo sviluppo delle autostrade, la spesa pensionistica, la pressione fiscale, il tasso di disoccupazione, di occupazione femminile e di abbandono scolastico, i tassi di interesse applicati alle imprese, il tempo necessario per pagare le tasse ed altro. Così tanti i divari da colmare? Sì. L’elenco potrà risultare noioso, ma equivale esattamente alla lista delle azioni da fare con urgenza per far rinascere l’Italia. Azioni che non si esauriscono con i provvedimenti del Governo, ma devono sempre più coinvolgere l’intera popolazione, poiché se rivoluzione deve esserci non se ne possono incaricare solo le classi dirigenti, per quanto rinnovate.
Si parla con insistenza dei giovani. Si ricorda, ci ha pensato l’Istat all’inizio dell’anno, che in Italia gli «scoraggiati», ossia coloro che dichiarano di non cercare lavoro perché convinti che sia impossibile trovarlo, hanno sfondato la soglia del milione e mezzo, il dato più alto dal 2004 quando si avviò tale tipo di rilevazione. E in questa popolazione le donne sono il doppio degli uomini. In un’altra descrizione statistica li hanno chiamati neet, «not in education, employment, training», e l’Istat ha scoperto che solo la Bulgaria in Europa ci batte per incapacità di inserire i giovani nel mondo produttivo. Siamo dietro a Lettonia, Estonia, Irlanda, Grecia, per citare i Paesi più disastrati che, invece, in questo specifico ambito ci sopravanzano. Come i concorrenti con cui dovremmo confrontarci.
Nessuno però sottolinea con la necessaria durezza che il nostro Paese in Europa è il fanalino di coda anche sotto il profilo delle competenze scolastiche: solo il 54 per cento della popolazione ha un diploma rispetto al 73 per cento dei Paesi aderenti all’Ocse e solo 70 giovani su 100 sono diplomati, rispetto agli 81 dell’Ocse, i 93 di Polonia e Slovenia, i 94 della Repubblica Ceca, gli 86 di Germania, Estonia e Irlanda. E allora?
Si tratta di voltare pagina velocemente. La responsabilità è dei precedenti Governi, ma anche del terreno troppo fertile che hanno trovato. La rivoluzione di cui parliamo consiste anche in questo: si percepisce la voglia di cambiamento non solo degli occupanti le poltrone di Governo, ma anche delle abitudini personali. Come avvenne nell’immediato dopoguerra. Essenziale al riguardo è la questione lavoro, lo scenario è complicato, è cominciata una grande battaglia sull’articolo 18. Il Governo ha prontamente disinnescato la miccia di una contrapposizione che non avrebbe giovato al Paese.
Perché è vero che l’Italia nella libertà di licenziare crea più restrizioni di Olanda, Irlanda, Inghilterra, ma è molto più flessibile di Francia, Spagna, Germania e Grecia. In un sondaggio tra le imprese ad essa aderenti la Confindustria ha rilevato che il 48,5 per cento degli imprenditori considerano un freno alla crescita l’insufficiente domanda, il 47,9 la mancanza di capitali, il 27,8 gli ostacoli burocratici, il 17,2 la mancanza di manodopera, il 16,8 le risorse manageriali, il 14,1 per cento la carenza di figure imprenditoriali e solo in ultimo gli ostacoli sindacali.
Il problema occupazionale in Italia va esaminato sotto un altro profilo: quello che riguarda principalmente la creazione di posti di lavoro, anzi il recupero di quelli persi con la crisi. Una perdita dovuta soprattutto al fatto che molti di quei posti non erano più collegati alla domanda di beni e servizi. Mentre in alcuni settori di nicchia l’occupazione è cresciuta perché essi rispondono alle nuove sollecitazioni del mercato. Si tratta di ripartire da lì con nuovi criteri: flessibilità, riqualificazione continua dei lavoratori, mobilità abbinata ad ammortizzatori che rendano sicura la prospettiva occupazionale. A fare scuola è il modello danese, che sposta i criteri di protezione dal posto di lavoro al lavoratore con un sussidio medio di disoccupazione fino al 90 per cento dello stipendio, dura fino a 4 anni e rende meno traumatico il cambio di azienda che in Danimarca riguarda ogni anno il 25 per cento dei lavoratori.
Seguendo quel modello l’occupazione si sposterebbe a seconda delle novità del mercato, senza blocchi né insicurezza. Evitando le angoscianti differenze che ci umiliano, il tasso di occupazione nel 2010 del 56,9 per cento rispetto al 74,7 per cento danese, o il tasso di occupazione giovanile del 20,5 per cento di fronte a un 46,2 per cento tedesco; conseguenza anche delle poche risorse destinate a politiche attive: 1,75 per cento del prodotto interno in Italia dinanzi al 3,22 della Danimarca e al 2,52 della Germania. È grave ammetterlo, ma sembra che per riemergere economicamente in Italia sia indispensabile baipassare buona parte di quella fascia di vecchi «mediatori», politici e sindacalisti, amministratori e manager che, per mantenere le posizioni di privilegio anziché gestire la crisi, finora si sono eretti a paladini di diritti, da esercitare senza corrispondenti doveri.
Molti di loro tuttora inventano battaglie utili solo a giustificare il loro ruolo di «condottieri». Sostituire tout court un’intera classe dirigente? Se è quella che ci ha ridotto così non sarebbe un peccato grave. È questo il grido di dolore che si leva ovunque in Italia: ridurre costi della politica, stipendi di assessori, numero delle Province, rendite delle varie caste raccontate da una vasta saggistica. Ma la rivoluzione in atto richiede tempo. La sensazione è che l’uscita da questa situazione si può trovare solo se gli italiani avranno fiducia nelle loro capacità, ma anche in questo Governo, che dovrà tirare dritto per la propria strada senza farsi influenzare da veti politici contrapposti o scomposte reazioni all’amara medicina che va presa per guarire dalla malattia dell’indebitamento fin troppo trascurata dai precedenti Governi. Ecco la vera Rivoluzione.
Tags: Enrico Santoro marzo 2012