Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

SUBPRIME. DERIVATI, MUTUI, DEBITI, BANCHE: È ORA DI TORNARE ALL’ETICA

La crisi finanziaria che ha sconvolto in questi ultimi due anni tutto il mondo industrializzato ha avuto l’andamento di un vero e proprio uragano. È sorta con un apparente epicentro a New York e da Wall Street si è propalata con la velocità tipica di questi fenomeni atmosferici praticamente dal Far West al Far East, diffondendo ovunque povertà, disoccupazione, abbassamento della qualità della vita, inducendo i Governi dei Paesi Ocse a profonde quanto coraggiose riflessioni - speriamo - sul modello di sviluppo da porre al centro delle loro attenzioni.

Le dimensioni di questa devastante esperienza sono enormi, si è calcolato da parte di organismi quali il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, che l’emissione dissennata di finanza di carta, ovvero di strumenti di ingegneria finanziaria ancora in gran parte in circolazione nel mondo, sarebbe superiore a cinque volte il prodotto mondiale lordo. Occorrerebbero quindi, alcune generazioni di risparmiatori, con regole di vita estremamente austere, per eliminare questo tremendo buco nero che rischia di trascinare nel proprio interno le speranze di benessere e il futuro produttivo nostro, dei nostri figli e nipoti.

Dal punto di vista fenomenologico, il tentativo in parte riuscito dei «sostenitori della finanza» si è concentrato su spiegazioni di taglio fatalistico, basate sull’andamento imprevedibile dei mercati, sull’aumento della qualità della vita che i tanti anni di espansione finanziaria avevano assicurato, sulla continua ricerca della felicità ecc. In realtà le componenti di questo straordinario disastro per molti, ma fortunato evento per pochi, sono numerose, rappresentate in primis da un collante potente, la fiducia, o meglio la «fede» nel mercato. Un mercato senza regole, ovvero con regole inadeguate rispetto all’incontrollata libertà di emettere obbligazioni basate sul debito e di collocarle sui mercati internazionali.

Regole, inoltre, troppo differenziate da Paese a Paese hanno dimostrato l’incapacità di autoregolamentazione di un mercato alimentato dalla fideistica convinzione di un aumento permanente dei consumi e del valore dei beni reali, specie degli immobili, assunti come simbolo di questi consumi. In realtà l’origine della crisi e il suo percorso appaiono oggi chiaramente. Sullo sfondo abbiamo un sistema economico, quello americano, basato sulla spinta al consumo, quindi sul debito. Le banche normalmente, per giustificare la concessione di mutui, hanno bisogno di garanzie, ovvero di «collateral». Gli immobili, non solo in Usa, costituiscono il «collateral» per eccellenza.

Con l’andar del tempo, non riuscendo i debitori a pagare le rate dei mutui, il sistema finanziario americano, naturalmente con il sostegno dei Governi, degli economisti, dei banchieri, degli istituti finanziari, in sintesi con decisioni corali, ha consentito e sostenuto negli anni l’espansione del debito. Tra le poche voci dissonanti ricordo l’economista Raghuram Rajan che nel 2005 preconizzò, in totale controtendenza, che le dimensioni delle perdite causate da un’imminente catastrofe finanziaria avrebbero colpito anche le generazioni future. Ma la sua voce rimase inascoltata.

La bolla immobiliare stava per scoppiare, ma i suoi protagonisti continuarono a far credere che la crescita del prodotto interno lordo, dei consumi, del valore delle case, sarebbe andata avanti. Nel nostro Paese questa possibilità di indebitarsi ben oltre il valore commerciale delle garanzie offerte dal debitore è scongiurata grazie alle regole che le nostre banche si sono date e che impongono all’ammontare dei mutui un tetto massimo medio pari al 50 per cento rispetto al valore dell’immobile concesso in garanzia; regole che pongono al centro della concessione del mutuo la capacità del debitore di pagare il debito, ovvero la sufficienza dei suoi introiti rispetto all’ammontare delle rate di mutuo. Abbiamo scoperto in questa occasione che queste regole di normale prudenza bancaria, non sono condivise in gran parte del mondo e soprattutto negli Stati Uniti, che ci impongono un modello di sviluppo come parametro al quale adeguarsi.

Ma la bolla immobiliare, ovvero dei cosiddetti «sub prime», si è trasformata in una crisi finanziaria epocale per il massiccio quanto incontrollato innesto, in questo contesto, di strumenti finanziari «creativi», dei quali è difficile se non impossibile stimare il valore reale. Mi riferisco ai «derivati», figli e nipoti delle obbligazioni emesse dalle banche e collegate ai mutui sub prime, vendute dagli emittenti in blocco ad altri protagonisti dei mercati finanziari internazionali che provvedevano poi a «tagliarle» o «mixarle» con altre partite di debito e a dar vita a ulteriori obbligazioni derivate. Queste ultime nella maggior parte dei casi rappresentavano delle vere e proprie scommesse, perse in partenza, sulla possibilità di pagamento dei crediti ai quali avrebbero dovuto riferirsi.

Interi quartieri, oggi abbandonati perché riconsegnati dai mutuatari alle banche creditrici, in città come Los Angeles, San Francisco ma anche a Pittsburgh o in cittadine dell’Ohio o del Delaware, testimoniano la tragica fine dell’economia dell’illusione ma anche, il trionfo dell’ingordigia e del cinismo degli inventori di questi «bond avvelenati» i quali, emettendoli o acquistandoli per poi trasferirli ai propri clienti, hanno guadagnato cifre notevoli.

Il collocamento nei mercati internazionali è stato incentivato, certamente, dal fascino del modello americano, dall’alto «standing» delle sue istituzioni finanziarie, dall’«appeal» di un sistema vincente e ricco. Elementi questi che alimentavano la fede in un trend positivo senza fine, e facevano breccia sull’ingenuità dei destinatari finali delle obbligazioni che, immemori della favola di Cappuccetto rosso, hanno ritenuto di poter credere a talune «care nonnine», anche se indossanti gessati blu e scarpe fatte a mano, e alla guida di Porsche fiammanti.

Ma al di là delle fattezze e del ruolo degli intermediari finanziari o dei promotori, di fronte a un «regalo» così attraente e redditizio visti i tassi di remunerazione promessi, anche i nostri pensionati, i nostri risparmiatori, avrebbero dovuto riflettere sul vecchio adagio: «Timeo danaos et dona ferentes», e immaginare che quella torta poteva essere avvelenata, che quei tassi di interesse così appetitosi potevano celare la perdita del capitale. Una semplice constatazione, basata sul rendimento medio delle altre obbligazioni emesse da primarie società note nel proprio Paese, avrebbe potuto consigliare l’investitore, specie se fragile, a rinunciare all’apparente «affare».

Analoghe considerazioni possono riguardare anche le nostre banche che sono rimaste invischiate nell’allocazione di queste «pozioni avvelenate»; in realtà, laddove agivano come intermediari, le stesse banche si sono assicurate laute commissioni. È vero che le grandi banche devono essere presenti nei mercati internazionali, e avere contezza dei prodotti di ingegneria finanziaria più avanzati. Le banche italiane, però, hanno regole che limitano l’emissione di obbligazioni, ma non vietano di collocare presso i propri clienti quelle emesse da altri istituti anche esteri; pertanto hanno giocato un ruolo essenziale anche a casa nostra i compensi estremamente appetibili che il collocamento di questi bond assicurava, giustificando ricchi bonus ai manager che avevano effettuato operazioni così redditizie per la banca e per loro stessi.

Un’ulteriore notazione negativa al riguardo va effettuata: la finanza impegnata dalla singola banca in operazioni che perdono qualsiasi contatto con il territorio di provenienza, sottrae quella liquidità alla possibilità di investimenti locali. L’essere globalizzati non può significare che, specie nel contesto delle difficoltà economiche e finanziarie attuali, proprio la finanza locale rifiuti di generare quel circuito virtuoso, vicino alle necessità dell’impresa, che spesso costituisce la soluzione per problemi di rinnovamento di macchinari, di ricambio generazionale, di cambio di platea azionaria, di presenza sui mercati.

Il concedere «credito virtuoso» significa inoltre, per la banca, poter controllare, poter accompagnare meglio l’investimento, nella realizzazione di interessi più vasti nel territorio di appartenenza. Si pensi alle comunità familiari e locali che traggono benefici dal miglioramento delle entrate di quell’impresa, dal pagamento di quegli stipendi, dalla possibilità di spesa maggiore che si concentra in quel territorio e che deriva da quel determinato investimento. Tutto ciò evidentemente è incompatibile ed è escluso dal circuito dei «derivati» esteri.

La crisi finanziaria internazionale inoltre, secondo Malcom Knight, general manager della Banca dei Regolamenti Internazionali, ha messo in luce la debolezza delle regole contabili, la responsabilità dei principi contabili e del modello di business adottato dalle grandi banche. La gravità degli effetti nefasti di questa finanza senza volto, senza origine e senza consistenza, al di fuori di qualsiasi collegamento con la realtà spinge a riflettere sull’uso dei mezzi finanziari, e del risparmio, più legato alle esigenze del territorio di appartenenza.

Oggi è sotto i riflettori la rivalutazione di temi fortemente etici per il recupero di determinati valori economici e finanziari che riportino nella giusta correlazione il rapporto tra l’operazione finanziaria e l’uomo, sia esso cittadino, consumatore, risparmiatore, investitore, il quale dalla migliore allocazione della finanza si attende il miglioramento della propria qualità della vita, attraverso un più equo bilanciamento tra la libertà individuale d’iniziativa economica e finanziaria e il controllo dei rischi sociali e personali che tali iniziative generano.

È questo obiettivo che le Nazioni Unite stanno tentando di perseguire sia pure con la lentezza del metodo tradizionalmente usato, basato sull’aggregazione dei consensi e non sulle imposizioni. Un metodo che ho potuto sperimentare durante l’ultra decennale attività che presto come delegato italiano, all’Uncitral, la Commissione permanente per il diritto commerciale internazionale, nelle due sezioni nelle quali opero, in particolare in quella che si dedica allo studio dei cosiddetti «secured interests». Si tratta della predisposizione di una Guida legislativa sulla concessione di credito a condizioni agevolate, erogato contro garanzie inscritte in registri elettronici a costi estremamente bassi e con modalità semplici e dirette, ovvero senza intermediazioni.

Ma soprattutto, in questi working groups, si respira il comune sentire della comunità internazionale diretto alla creazione di regole condivise da tutti i Paesi, di modo che non vi siano solo alcuni Paesi virtuosi per i quali la normativa finanziaria da un lato costituisca la possibilità di restare indenni, per quanto possibile, da determinate sciagure finanziarie come quella che stiamo vivendo e comunque di non esserne gli artefici, ma dall’altro imponga di dover essere chiamati a rimediare ai dissesti dei Paesi «cicala». E non mi riferisco solo al caso della Grecia e ai suoi bilanci inveritieri, un salvataggio che per il momento costerà ai contribuenti italiani solo 4 miliardi di euro, ma alla cultura che è a monte di questi episodi.

Un esempio emblematico l’ha fornito la Goldman Sachs e non solo per il ruolo di consulente ricoperto nel caso della Grecia. Grazie alle indagini che la Security Exchange Control Authority (SEC) americana sta svolgendo, è emerso che tale colosso finanziario operava come un moderno Giano bifronte. Una sezione confezionava e collocava bond «avvelenati» basati sui subprime, ovvero su crediti che non sarebbero mai stati soddisfatti; mentre l’altra branch acquistava a termine e allo scoperto «giocando al ribasso», ovvero faceva di tutto per abbassare le quotazioni degli stessi bond; in ogni caso agendo contro gli interessi dei propri clienti. In realtà una dicotomia funzionale all’interno della stessa Goldman, del tutto al di fuori di qualsiasi valutazione etica, finalizzata esclusivamente al maggior guadagno possibile della società e dei propri manager. Forse gli anni dell’economia degli sprechi, finanziati a credito dalle banche e culminata nel crollo dei prezzi del settore immobiliare e dei beni di consumo in genere, sono finiti; forse è giunto il tempo di regole, semplici, chiare, condivise, applicate internazionalmente.

Si fa strada il convincimento che un tavolo di incontro e di valutazione internazionale sia necessario. Le Nazioni Unite potrebbero rappresentare il luogo più opportuno perché il mondo accetti poche e chiare regole capaci di realizzare equilibri più avanzati e più duraturi sul piano dell’interesse comune. Se uno solo vince e tutti gli altri perdono, anche colui che ha vinto, in realtà alla lunga, ha perduto. «Alteri vivas oportet si vis tibi vivere», questa antica «lectio» romana è ancora attuale?

Tags: banche finanza Lucio Ghia usa mercato immobiliare mutui immobili mercato Settembre 2010 Uncitral

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa