Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

  • Home
  • Articoli
  • Articoli
  • LEGISLAZIONE COMUNITARIA: I PRIMI 10 ANNI DEL REGOLAMENTO EUROPEO SULL’INSOLVENZA

LEGISLAZIONE COMUNITARIA: I PRIMI 10 ANNI DEL REGOLAMENTO EUROPEO SULL’INSOLVENZA

di Lucio Ghia

Alla fine di aprile di quest’anno ad Amsterdam si è svolta una riunione di esperti europei per fare il punto, a 10 anni dalla sua adozione in quasi tutti i Paesi europei, sul regolamento n. 1346 del 2000 relativo all’insolvenza ed esaminare, in occasione del necessario aggiornamento di questa normativa, quali fossero i profili critici che negli anni di operatività fossero emersi. Il regolamento fu salutato, all’epoca della sua emanazione, come l’intervento più importante realizzato in ambito comunitario per disciplinare e coordinare i casi di insolvenza transfrontaliera che riguardassero debitori con sedi legali e secondarie all’interno degli Stati membri. I principi che ispirarono il legislatore comunitario erano volti a garantire la creazione di un’area di libertà economica, di sicurezza e di giustizia nell’ambito dell’Unione europea, capace di garantire una tutela pressoché omogenea dei diritti dei creditori e del debitore, in modo da evitare, per quanto possibile, discrasie tra le discipline adottate nei vari Stati.
I principi basilari del regolamento furono salutati con generale entusiasmo. Bisognava far sì che i mercati dei singoli Stati membri non fossero turbati da procedure concorsuali inappropriate; andava evitato che i beni del debitore fossero trasferiti e sottratti ai creditori; che il trattamento riservato ai creditori europei fosse difforme nello stesso fallimento; ed ancora, che a causa dell’apertura di una procedura di fallimento in uno dei Paesi comunitari, le procedure già pendenti in altri Paesi subissero interruzioni o sospensioni con conseguente disparità di trattamento dei creditori. Andavano inoltre evitati conflitti tra i vari tribunali e i vari curatori situati nei vari Paesi in relazione alla liquidazione del patrimonio del debitore. Solo garantendo la diffusione delle migliori soluzioni giudiziali e stragiudiziali per il soddisfacimento dei creditori, le cosiddette best practice, si sarebbe infatti rafforzata la fiducia tra i cittadini degli Stati membri.
Dal punto di vista più tecnico, il regolamento applicava principi praticamente condivisi da tutti i Paesi basati sull’«universalità», riferita alla procedura che deve essere estesa a tutti i beni del debitore e della quale possono giovarsi tutti i creditori, indipendentemente dal fatto che si trovino in un Paese o nell’altro e dal Paese comunitario ove si trovino gli «asset» del debitore. Il regolamento ha rappresentato il risultato di un’operazione di assemblaggio giuridico, resa particolarmente difficile dalla diversità della ratio, o della filosofia alla base dei due grandi sistemi che si confrontavano e che dovevano risultare normativamente bilanciati.
Si tratta, quindi, di un punto di equilibrio avanzato tra il sistema anglosassone e il nostro sistema cosiddetto di «civil law», il primo basato soprattutto sul negoziato, coerentemente con la grande storia commerciale della Gran Bretagna: se i problemi che riguardano il debitore, sia esso imprenditore industriale o commerciale, persona fisica o giuridica, e i suoi creditori, vengono trattati in un ambito prevalentemente stragiudiziale, il confronto diretto converge verso un accordo. Il rinomato «London approach», che rappresenta la bandiera di questo tipo di soluzioni offerta dal sistema anglosassone, in realtà individua un contenitore nel quale debitore e creditori si incontrano, accompagnati da alcuni esperti, per trovare la soluzione ai loro problemi derivanti dall’insolvenza del primo, o comunque dalla sua situazione critica.
Dal lato della civil law abbiamo invece un sistema caratterizzato profondamente dall’intervento pubblico: fino al 2005, anno nel quale è cominciata una profonda riforma della legge fallimentare, l’insolvenza dell’impresa si consumava nelle aule dei Tribunali fallimentari. Questa impostazione derivava dalla cospicua presenza dello Stato nella vita dell’impresa, della grande ma anche della media, del nostro Paese. Di conseguenza anche la procedura fallimentare presentava connotati fortemente pubblicistici sia nella procedura fallimentare che nelle altre cosiddette minori. Sintomatici erano il ruolo e la costante presenza del giudice che, sin dalla nomina del curatore del fallimento o del commissario nelle procedure cosiddette minori, dei liquidatori, dei consulenti tecnici, degli avvocati, governava la procedura autorizzando in realtà ogni atto dispositivo ancorché legato alla gestione provvisoria dell’impresa.
Oggi il baricentro di questa procedura, in Italia, si è spostato dal tandem curatore-giudice a quello curatore-comitato dei creditori. Ma l’impronta di carattere pubblicistico e quindi processuale permane ancorché risulti oggi attenuata e determini conseguenze apprezzabili nell’ambito comunitario. Il regolamento europeo ha fissato il proprio perno operativo nella cosiddetta «procedura principale»: ovvero, allorquando un’impresa abbia più rami in vari Paesi europei, sarà considerato primario il fallimento che viene dichiarato per primo. Il curatore di questo fallimento potrà far aprire procedure fallimentari secondarie nei vari Paesi ove sono state situate le altre sedi, o branch dell’impresa. Il noto principio romano «prius in tempore, potior in iure», ovvero chi agisce per primo ha un trattamento anche giuridico migliore, è stato chiamato a regolare il fallimento transfrontaliero.
Ciò vuol dire che, nel momento in cui si apre una procedura concorsuale in uno dei Paesi della comunità, questo fatto, o meglio il suo connotato temporale ha un effetto automatico in tutti gli altri Paesi ove esistano beni del fallito, poiché qui possono essere aperte solo procedure secondarie, subordinate rispetto alla procedura principale. Il curatore dell’impresa insolvente, infatti, il cui fallimento è stato dichiarato per primo, può chiedere l’apertura della procedura secondaria la quale, però, può avere solo natura liquidatoria e non risanatoria, risultando perciò asservita alle necessità della procedura principale. Nella pratica questa scelta di campo ha provocato talune conseguenze sfavorevoli che sono state oggetto di analisi nell’incontro di Amsterdam. In realtà, si tratta della punta dell’iceberg.
I Paesi a maggiore connotazione processuale e giudiziaria, come l’Italia, difficilmente potranno battere in velocità giurisdizioni ove non vigono le stesse scansioni processuali, ovvero le stesse regole garantistiche a tutela dei diritti di difesa del debitore e dei suoi creditori. Inoltre anche il criterio prescelto in sede comunitaria e adottato nel regolamento, per individuare la sede principale dell’impresa, il cosiddetto COMI (center of main interest), privilegia il luogo ove risulta registrata l’impresa debitrice, indipendentemente, per esempio, dall’esistenza di ulteriori luoghi ovvero collocazioni dell’impresa particolarmente rilevanti, ancorché situati in Paesi diversi rispetto al luogo di registrazione della stessa. Si pensi, per esempio, a stabilimenti e uffici nei quali si attui la direzione strategica dell’impresa, ove risieda la sua governance.
Nei casi di imprese con succursali in vari Paesi, non è infrequente che molti dipendenti lavorino in fabbriche situate in questi mentre la direzione dell’impresa si trova altrove e i rapporti di carattere bancario in luoghi ancora diversi. In questi casi, allorquando lo stesso debitore richieda per primo il proprio fallimento e venga adito il giudice del luogo ove ha sede la tesoreria, tutti i (creditori) dipendenti si troverebbero in un Paese mentre i beni sarebbero concentrati in un altro.
Un ulteriore problema discusso ad Amsterdam ha riguardato il cosiddetto Gruppo di Imprese. Infatti, in molti ordinamenti manca una definizione del Gruppo di imprese collegate strategicamente e con una direzione unitaria. Anche la mancata individuazione giuridica, in sede comunitaria, del Gruppo di imprese accresce il numero dei problemi irrisolti. Si pensi ad una holding che possiede le azioni di altre società situate in distinti Paesi europei. Dal punto di vista strettamente legale, ogni società ha una propria autonomia patrimoniale e giuridica, quindi si può assistere a numerose e distinte dichiarazioni di fallimento che colpiscano le singole società al di fuori di qualsiasi collegamento di gruppo.
Gli effetti negativi dei fallimenti plurimi e separati sono notevoli perché normalmente nel Gruppo di imprese le singole componenti perseguono finalità e compiti distinti, ma protesi verso l’obiettivo comune. Una società avrà scopo commerciale, un’altra realizzerà il coordinamento finanziario di tutte le società del Gruppo, risultando destinataria di tutti i pagamenti. Da questa strategia comune tutte le società del Gruppo derivano un valore aggiunto, che viene distrutto dai fallimenti plurimi e non collegati. Naturalmente anche la soddisfazione in modo uguale e paritetico dei vari creditori risulta sacrificata dalla mancanza di coordinamento e di direzione unitaria tra le varie procedure. Ma non solo di questi problemi e delle loro cause, si è discusso ad Amsterdam; in realtà l’analisi ha riguardato anche altri profili critici. Il contributo italiano è consistito nell’affermazione della necessità di rivedere la definizione comunitaria della sede dell’impresa.
Il caso Eurofood, che ha opposto la giustizia italiana a quella irlandese e che si è concluso con una statuizione dell’Alta Corte di Giustizia europea contraria alla posizione italiana, ha finito per far prevalere la forma sulla sostanza. All’epoca posseduta interamente dalla Parmalat, la società Eurofood aveva la propria sede legale in Irlanda ed era registrata nei registri delle imprese irlandesi; ancorché non avesse patrimonio autonomo in Irlanda, era conoscibile dai terzi per l’insegna apposta sulla porta di uno studio professionale. Questi elementi sono stati giudicati sufficienti per considerare legittima la dichiarazione di fallimento dell’Eurofood in Irlanda, respingendo la richiesta del commissario Enrico Bondi, amministratore straordinario della Parmalat, di aprire una procedura secondaria per essere l’Eurofood interamente posseduta e governata dalla Parmalat.
L’autonomia delle procedure ha fatto sì che venissero sottratti alla conoscenza dell’autorità giudiziaria italiana molti documenti relativi alla vicenda dei conti all’estero della Parmalat e delle sue controllate. La frattura tra le procedure non ha certo giovato alla conoscenza di questa complessa insolvenza e, quindi, non ha raggiunto l’obiettivo di aumentare l’interesse dei creditori, quantomeno nell’ambito comunitario. Anche nel caso Alitalia questa difficoltà di coordinamento e di dialogo tra le diverse procedure concorsuali, ancorché riguardanti società appartenenti alla stessa area comunitaria, ha fatto sì che la pronuncia del giudice italiano sull’insolvenza della compagnia aerea non sia stata ritenuta efficace, o meglio non sia stata riconosciuta dal giudice anglosassone. Questi problemi, che coinvolgono aspetti patrimoniali e diritti dei creditori di non poco conto e che creano una visione distorta da parte dei fruitori di questa normativa, non trovano ancora risposte appaganti.
L’incertezza del trattamento giuridico, infatti, genera sfiducia e premia il più furbo che spesso non è il più meritevole. Relativamente alla sede principale dell’impresa, la posizione italiana è stata quella di raccomandare una definizione flessibile, tale da privilegiare quelle situazioni per le quali la «buca delle lettere», coincidente con il luogo in cui l’impresa debitrice risulti registrata, non costituisse l’unico criterio per decidere sulla competenza di quel giudice e sull’applicazione di quella giurisdizione; ma risultassero applicabili anche altri criteri basati, ad esempio, sul luogo ove fosse situata la maggior parte del patrimonio. Su questo punto la discussione è aperta.
Merita di essere ricordata l’adesione italiana alla proposta francese concernente la possibilità di dare alla procedura secondaria un indirizzo diverso da quello esclusivamente liquidatorio; quindi di consentire anche la riorganizzazione dell’impresa assoggettata a procedura secondaria. Ma la proposta che ha riscosso senz’altro più consensi riguarda la necessità di condividere informazioni, di cooperare affinché le varie giurisdizioni interessate non restino autonome e separate nella conduzione delle singole procedure. Allorquando si gestiscono procedure transazionali, le risposte giudiziarie migliori nascono dalla possibilità concreta di cooperare tra le diverse giurisdizioni interessate.
Lo scambio di informazioni e la partecipazione a un disegno il più unitario possibile spesso comporta il rispetto del precipuo interesse di tutti i creditori coinvolti. È un fatto che oggi, a distanza di 10 anni dall’entrata in vigore di questo regolamento, non vi sia ancora la concreta possibilità autorizzata, inserita in una idonea cornice regolamentare e dotata dei necessari strumenti operativi, per far sì che un giudice nazionale nell’ambito comunitario, titolare di una procedura fallimentare relativa a un’impresa fallita che abbia succursali in altri Paesi europei, possa telefonare al proprio collega straniero per discutere i problemi comuni relativi alla migliore conduzione e al coordinamento delle due procedure, ad esempio con riferimento alle modalità di vendita di assets, alla possibilità di redigere un elenco unitario di tutti i creditori per evitare disparità di trattamento, o di tutti i beni ancorché situati in Paesi diversi, per esaminare insieme l’opportunità di un programma di liquidazione comune, o per concordare un’udienza in teleconferenza svolta contemporaneamente nei vari tribunali interessati alla liquidazione delle varie branch dell’impresa fallita, ovvero per risolvere insieme altri problemi di carattere processuale.
Ebbene tutto ciò è, ancora oggi, futuribile. In Italia abbiamo segnali di cooperazione tra vari tribunali interessati a procedure italiane che si svolgono in città diverse; in Europa questo è ancora da realizzare. Si è discussa anche la possibilità di creare un ufficio giudiziario comunitario che possa occuparsi dell’armonizzazione tra i vari fallimenti riferiti allo stesso debitore, e che possa attivare procedure di comunicazione e di scambio di informazioni. Queste necessità di coordinamento e di comunicazione non riguardano solo i giudici, ma tutti gli addetti e in particolar modo i curatori, i rappresentanti dei creditori, i consulenti tecnici, gli avvocati delle procedure. Va quindi riformato l’articolo 31 del regolamento, che impone l’obbligo di collaborazione e di informazione esclusivamente ai curatori della procedura primaria rispetto ai curatori della procedura secondaria.
Il valore aggiunto determinato dalla collaborazione è stato peraltro avvertito autonomamente dal Consiglio nazionale forense e dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili che hanno sottoscritto, lo scorso 7 maggio, un protocollo con i colleghi francesi appunto per rafforzare la collaborazione tra i rispettivi iscritti nelle procedure di insolvenza transfrontaliera pendenti. C’è molto ancora da fare, ma il lavoro realizzato ad Amsterdam, i cui risultati saranno inviati all’Unione europea perché li utilizzi nell’opera di ammodernamento della normativa del regolamento europeo sull’insolvenza, può costituire una risposta alla domanda irriverente che Henry Kissinger, quando manifestava dubbi sulla concretezza e sulla realizzabilità del grande progetto europeo, usava porre: «Mi date il numero di telefono dell’Europa?».
Oggi l’Europa ha senz’altro sufficienti telefoni e concrete possibilità di comunicazione anche tra gli Uffici giudiziari dei vari Paesi che la costituiscono, ma le attuali opportunità tecnologiche non hanno ancora realizzato un omogeneo trattamento dei creditori in termini di velocità e risultati. Tanto difforme, infatti, è il risultato delle differenti normative nazionali, da dar vita ad eclatanti casi di «forum shopping». Si pensi che circa 2.000 cittadini italiani negli ultimi due anni hanno trasferito la loro residenza a Londra per ottenere la cosiddetta «esdebitazione», recentemente introdotta anche nel nostro sistema concorsuale, in tempi notevolmente più veloci rispetto a quanto avvenga in Italia.
In Italia occorrono circa tre anni, in Gran Bretagna, compreso il periodo necessario al cambio di residenza, otto mesi. Si tratta di una differenza apprezzabilissima per chi, una volta dichiarato fallito, attende di essere restituito al normale corso dei suoi nuovi affari. Questa rapida celebrazione di un’importante ricorrenza per il regolamento europeo sull’insolvenza (numero 1.346 del 2000), si conclude, come di rito, con un augurio: che le modifiche richieste ad Amsterdam al legislatore comunitario spingano il nostro legislatore ad anticiparle, nel segno dell’efficienza e della competitività tra sistemi giuridici avanzati.

Tags: eurofood Unione Europea imprese Lucio Ghia credito Giugno 2011

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa