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LE ICONS DI STEVE MCCURRY DA DICEMBRE IN MOSTRA A PALAZZO SARCINELLI DI CONEGLIANO

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Dal 23 dicembre al 2 maggio visibile la mostra “Fotografare a rischio della vita” a cura di Biba Giacchetti, organizzata da Artika in collaborazione con Sudest57 e Città di Conegliano.

Steve McCurry non ha bisogno di presentazioni. La curiosità è il motore della sua ricerca, capace di spingerlo, fin da adolescente, ad attraversare ogni confine, fosse esso fisico, linguistico e culturale. In ogni sua foto Steve McCurry ci racconta una storia che, una volta svelata, è in grado di comunicare la complessità di un intero contesto. Queste le parole di McCurry: “La maggior parte delle mie foto è radicata nella gente. Cerco il momento in cui si affaccia l’anima più genuina, in cui l’esperienza s’imprime sul volto di una persona. Cerco di trasmettere ciò che può essere una persona colta in un contesto più ampio che potremmo chiamare la condizione umana. Voglio trasmettere il senso viscerale della bellezza e della meraviglia che ho trovato di fronte a me, durante i miei viaggi, quando la sorpresa dell’essere estraneo si mescola alla gioia della familiarità”. Attraverso il suo particolare stile fotografico, Steve McCurry pone la propria attenzione sull’umanità del soggetto. Con i suoi scatti ci trasmette il volto umano che si cela in ogni angolo della terra, anche nei più drammatici. Se Henri Cartier-Bresson è stato l’occhio del suo secolo, il Novecento, McCurry è probabilmente il fotografo contemporaneo più incline a raccoglierne l’eredità. Grazie alla sua spiccata sensibilità, è capace infatti di penetrare in profondità dei soggetti scelti, svelando la profonda somiglianza di tutti gli individui sulla terra, al di là delle difficoltà socio-culturali. Il fotografo cerca sempre di attribuire un volto alle situazioni in cui si trova immerso da reporter, soprattutto se tali circostanze si presentano estremamente tragiche.

Quale la storia quindi di queste foto?

Nel 1979 le truppe sovietiche invadono l’Afghanistan per soccorrere il governo nel tentativo di spezzare la resistenza dei mujaheddin, a loro volta sostenuti dagli Stati Uniti. Nel maggio dello stesso anno Steve McCurry, travestito da afghano, entra nel paese con un gruppo di ribelli. L’allora giovanissimo fotografo si presenta privo di documenti e accompagnato esclusivamente dalla macchina fotografica e da un coltellino svizzero. Il viaggio comincia dall’India centrale, dove McCurry si trovava da quasi due anni, per continuare in Pakistan, a ovest dell’Himalaya. Nella piccola cittadina di Chitral, il fotografo entra in contatto con alcuni rifugiati, i quali gli fanno indossare un logoro shalwar kameez e lo conducono al confine: “Mi sentivo allo stesso tempo spaventato ed eccitato nel partire dal Pakistan in quegli abiti per entrare clandestinamente in un altro paese, senza alcuna possibilità di comunicare con il resto del mondo”.

Steve McCurry si trova così nel mezzo della guerra fredda, testimone esclusivo e segreto di un conflitto manovrato da Stati Uniti e Unione Sovietica. Il fotografo aveva all’epoca ventinove anni e, nonostante le inevitabili tensioni ed il rischio costante di perdere la propria vita, vive una delle esperienze più esaltanti della propria carriera. Situazione che gli permette, in primo luogo, di incontrare amici e di sperimentare quel senso di umanità e di solidarietà internazionale che è capace di perdurare anche nelle situazioni geo-politiche più complesse del pianeta. Nel giugno di quell’anno il fotografo trascorre tre settimane con i compagni afghani, comunicando con un linguaggio fatto di segni e gesti.

Dell’Afghanistan McCurry porta con sé il senso di semplicità, l’essenzialità connaturata alla vita di stenti che accompagna i protagonisti di una guerra. Nel suo primo viaggio il fotografo americano realizza esclusivamente immagini in bianco e nero, impiegando una pellicola Kodak Tri-X ad alta velocità. Nella messa in posa dei soggetti e nell’intensità che trapela da molti sguardi si intuisce già lo stile futuro del McCurry “a colori” capace, come pochi altri, di stabilire un profondo e unico legame tra il fotografo e il suo soggetto.

McCurry torna in Afghanistan innumerevoli volte, spesso al servizio di riviste internazionali: ogni viaggio rischia di compromettere la sua vita ma egli dimostra sempre di accettarlo senza compromessi.

Proprio dall’Afghanistan proviene Sharbat Gula, la ragazza resa celebre dalla prima pagina del National Geographic e conosciuta dal fotografo nel campo profughi di Peshawar in Pakistan. La fotografia più celebre di Steve McCurry rappresenta l’immortale immagine della ragazza afgana. L’istantanea è stata scattata in Pakistan, vicino Peshawar, precisamente dentro un campo profughi. Pubblicata nel giugno del 1985, la fotografia è diventata simbolo della tragedia dell’Afghanistan e della dignità con cui il suo popolo ha affrontato la guerra e l’esilio, essendo stata scattata in uno dei luoghi più inospitali della terra, uno spazio per i rifugiati. Rappresentando questo luogo di dolore, McCurry ha inteso sensibilizzare i lettori nei confronti delle atrocità che vi si commettono e delle condizioni precarie in cui versa una parte dell’umanità.
La fotografia ha una genesi quasi casuale: un giorno, passeggiando per il campo Nasir Bagh, McCurry sentì delle giovani voci provenire da una tenda adibita a scuola e si avvicinò chiedendo all’insegnante il permesso di immortalare con la sua macchina fotografica la lezione in corso. Ottenuto il permesso, il fotografo venne subito colpito dagli occhi magnetici di un’allieva che rimaneva un po’ defilata. “Mi accorsi subito di quella ragazzina. Aveva un’espressione intensa, tormentata e uno sguardo incredibilmente penetrante – eppure aveva solo dodici anni. Siccome era molto timida, pensai che se avessi fotografato prima le sue compagne avrebbe acconsentito più facilmente a farsi riprendere, per non sentirsi meno importante delle altre”. L’immagine, seppur concepita e realizzata in pochi secondi, risulta perfetta e rivela immediatamente la capacità di McCurry di stabilire un intenso, seppur effimero, rapporto con i propri soggetti.

Dopo la pubblicazione della foto sulla copertina del National Geographic, McCurry ci racconta di come successe il finimondo in redazione. “Sono stati sommersi dalle lettere. Tutti volevano sapere chi era, aiutarla, mandare soldi, adottarla, uno la voleva persino sposare”: però la ragazza, di nome Sharbat Gula, rimase sconosciuta per oltre 15 anni dalla pubblicazione dello scatto sulla rivista, finché il fotografo non riuscì a ritrovarla.

Partito per una spedizione con una squadra del National Geographic, nel 2002 giunse in Pakistan. Il campo profughi di Peshawar stava per essere demolito, McCurry aveva un’ultima possibilità di rivedere la ragazza. Iniziò la ricerca mostrando la sua foto ad alcuni anziani del campo e, una volta sparsa la voce, diverse donne arrivarono affermando di essere la bambina del ritratto. Dopo alcuni giorni andati a vuoto la spedizione stava per prendere la via del ritorno finché l’arrivo di uomo stravolse i piani. Quest’ultimo assicurava che Sharbat era viva, si era sposata ma era tornata da diversi anni in Afghanistan. Così, dopo un lungo e pericoloso viaggio, McCurry tornò nel paese ancora in guerra e rivide la ragazza con la stessa carica emotiva con cui l’aveva lasciata. “La sua pelle è segnata, ora ci sono le rughe, ma lei è esattamente così straordinaria come lo era tanti anni fa” disse in un’intervista al The Guardian. “Le spiegai che la sua immagine aveva commosso moltissime persone ma non sono sicuro che la fotografia o il potere della sua immagine significassero davvero qualcosa per lei o che fosse in grado di capirli fino in fondo”.
Nonostante l’aspetto di Sharbat fosse completamente mutato, anche a causa delle dure prove che la vita in guerra le aveva riservato, i suoi occhi continuavano a trasmettere tutta la forza interiore del soggetto.
Steve McCurry fu molto riconoscente alla donna che gli aveva donato fama internazionale. Egli infatti contribuì ad aiutarla in molti modi, ad esempio fornendo a lei e al marito i mezzi per effettuare il pellegrinaggio alla Mecca. “Era il sogno più importante della loro vita e senza quella foto non si sarebbe mai realizzato. È stato bello poterle rendere almeno in parte ciò che le dovevo”.

Uomini con maschere d’argilla-Papua New Guinea 2017 ©Steve McCurry

Sharbat Gula-Peshawar, Pakistan-1984 ©Steve McCurry

Tags: arte pakistan afghanistan fotografi fotografia Novembre 2020

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