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LARGHE INTESE IN GERMANIA E IN ITALIA

di Giorgio Benvenuto

Il presidente del Consiglio dei ministri Matteo Renzi sta modificando profondamente il modo di governare il nostro Paese. Spariglia le carte. Le proposte si rincorrono le une dopo le altre. La sfida è lanciata per smuovere il Paese dalla sua apatia, dalla sua rassegnazione, dal suo immobilismo. Per anni siamo stati abituati a Governi che di fatto spiegavano perché non era possibile cambiare; per anni siamo stati chiamati a sostenere sacrifici sempre più pesanti; per anni sono state promesse riforme che non hanno mai visto la luce; per anni si è parlato senza costrutto di equità, di lavoro, di sviluppo.
Ora Renzi si propone per farci uscire da questa palude. Lancia la sfida del cambiamento. Ha chiara l’insofferenza degli italiani per la politica. Indica con efficacia i punti di crisi. Annuncia con coraggio le soluzioni indicando i tempi del cambiamento. Rivoluziona la comunicazione. Colpisce l’immaginazione. Stupisce. Vuole una rivoluzione in un rapporto diretto con i cittadini. Al pessimismo cosmico del centrosinistra e dei Governi dei tecnici contrappone un’energia quasi frenetica nel fare, nel superare gli steccati, con una tecnica comunicativa che richiama e perfeziona quella di Silvio Berlusconi all’inizio della sua avventura politica: portare le pensioni minime ad un milione di lire e realizzare un milione di nuovi posti di lavoro.
Il cambiamento è radicale. Si è rovesciato il rapporto. Il Governo fa discutere sulle proprie proposte, non si piega di fronte agli ostacoli, dimostra grinta, coraggio ed ambizione. È uno scenario nuovo che presenta opportunità, costi e rischi. Approfondiamo alcuni aspetti. Innanzi tutto l’Europa. Renzi vuole innovare profondamente. Non va dal Cancelliere tedesco Angela Merkel con il cappello in mano. Illustra il proprio piano. Indica i tempi. Spiega le coperture delle riforme. Vuole un accordo. «Non andremo a fare i ragionieri in Europa», ha detto efficacemente il suo sottosegretario Sandro Gozi. «È interesse dell’Europa–afferma–prendere sul serio gli impegni stabiliti sulle riforme strutturali».
Sono quattro le questioni chiave del Progetto per l’Italia che Renzi comunicherà ai partner europei: revisione della spesa pubblica, contratto di lavoro, riduzione dell’Irpef, taglio dell’Irap. Insomma Renzi vuole riuscire dove Mario Monti ed Enrico Letta hanno fallito. Le risorse aggiuntive per finanziare gli sgravi fiscali si possono trovare nello spazio tra il deficit previsto per il nostro Paese, pari al 2,6 per cento, e il tetto del 3 per cento. Si tratta di convincere la Merkel a stabilire che l’Unione Europea in presenza delle riforme intraprese, rinegozi con l’Italia l’OMT, ovvero l’obiettivo di medio termine, il saldo da raggiungere ogni anno per tendere al pareggio di bilancio.
Renzi vuole anche la rinegoziazione del Fiscal Compact: dal 2015 ogni anno l’Italia dovrà ridurre il debito pubblico che supera la soglia del 60 per cento - siamo ora oltre il 130 per cento - al ritmo di un ventesimo. Circa il 5 per cento l’anno. Renzi vuol far scendere la soglia dal 5 al 3 per cento. Insomma gli accordi presi con l’Europa non si toccano ma, per mostrare credibilità, vanno reinterpretati. Il nuovo Governo sta sfoderando in Europa l’appeal del riformatore; non ha bisogno come Letta e Monti di cercare quella legittimazione che difettava in patria. Per concludere sull’Europa, non si può non condividere quanto ha detto in una recente intervista Francesco Giavazzi, economista ed editorialista del Corriere della Sera: «Rinegoziare i vincoli europei, come quelli del 3 per cento, è inevitabile se si vuol far ripartire la crescita, ma solo dopo che le riforme strutturali e i tagli di spesa saranno usciti dalle slide in Power Point e saranno stati approvati come leggi in Parlamento».
Nel DEF, ossia Documento di Economia e Finanza, in questo mese Renzi dovrà chiarire se intende confermare l’obiettivo del pareggio di bilancio in termini strutturali a partire dal 2015, come aveva previsto Letta. Ed è proprio questo appuntamento che dovrà rendere coerente il DEF con il Piano Nazionale di Riforma per determinare un’apertura della Commissione Europea alle esigenze italiane.     Vediamo ora nei particolari la proposta di Renzi, con uno spirito costruttivo, senza cioè accettare la legge di Murphy («Non affannarti a contraddire i politici, prima o poi lo faranno da soli») e senza iscriverci tra i benaltristi, quelli che ad ogni proposta di cambiamento indicano altri obiettivi e altre priorità.
Il Piano si struttura in tre capitoli; interventi subito in vigore; interventi in arrivo; progetti. In vigore da subito nuove regole del lavoro a tempo determinato, ossia la durata del rapporto di lavoro passa da 12 a 36 mesi senza casualità; nuove disposizioni sull’apprendistato, cioè allentati i vincoli della riforma Fornero per cui l’assunzione di nuovi apprendisti non è più condizionata al 50 per cento di conferme; nuove norme per un Pacchetto Casa, ovvero la cedolare secca sugli affitti concordati passa dal 15 al 10 per cento e il bonus per i mobili non è più legato al tetto per le ristrutturazioni.
I provvedimenti in arrivo riguardano gli ammortizzatori sociali (l’ASPI viene estesa ai collaboratori e vengono rivisti i criteri di concessione ed uso delle integrazioni salariali); i pagamenti della Pubblica Amministrazione (è previsto lo smaltimento dell’arretrato dei debiti entro luglio, con l’ipotesi di una tranche di 68 miliardi di euro); le riforme costituzionali (trasformazione del Senato nella Camera delle Autonomie; riforma del Titolo V della Costituzione).
I progetti riguardano invece l’Irap (da maggio taglio del 10 per cento dell’Irap per le imprese; per la copertura aumenta dal 20 al 26 per cento la tassazione sulle rendite finanziarie, ad esclusione dei Bot); l’Irpef (mille euro netti in più l’anno per chi guadagna meno di 1.500 euro al mese, da maggio; sono interessati i lavoratori dipendenti, sono esclusi i pensionati e i lavoratori autonomi); l’Energia (il costo dell’energia per le piccole medie imprese verrà ridotto del 10 per cento rimodulando il paniere della bolletta energetica).
Entriamo in alcuni particolari. L’intervento sul piano fiscale produce un minitaglio dell’Irap e un intervento parziale sull’Irpef. È poco. È incoerente con gli obiettivi della competitività e del rilancio dell’economia. Non favorisce l’incremento della domanda interna. E poi è soprattutto iniqua. Il riassetto dell’Irpef favorirà solamente i lavoratori dipendenti lasciando invariata la situazione dei contribuenti che hanno redditi previdenziali. La «no tax area» per i lavoratori dipendenti senza carichi di famiglia dovrebbe salire a 10.500 euro, poco più di quella attuale che è di 8.000, mentre per i pensionati resterebbe fissata a 7.500 euro.
La penalizzazione tributaria per i pensionati sarebbe particolarmente severa per le pensioni medio-basse, per attenuarsi in prossimità della soglia dei 55.000 euro lordi l’anno. In particolare, stando alle scarne e generiche indicazioni fin qui fornite, la detrazione Irpef per i lavoratori dipendenti (2.400 invece di 1.880 euro) sarebbe superiore a quella dei pensionati per un imponibile di 20.000-25.000 euro (1.200-10 mila euro);  il divario sarebbe notevole, con il lavoratore dipendente che non deve niente al fisco, e con il pensionato che, invece, verserebbe 732 euro.
Una fascia notevole della popolazione verrebbe così esclusa dalla manovra economica (incapienti e pensionati a basso reddito), aggravando le diseguaglianze e aumentando le soglie di povertà. A ciò si aggiunge il peso abnorme, sui pensionati, delle addizionali a vario titolo varate dagli enti locali, dalle imposte sulla casa, dalla disfunzione dei servizi sanitari. È inspiegabile l’accanimento sui pensionati. È stata bloccata la rivalutazione dell’Istat (in 17 anni mediamente i pensionati hanno perso il 40 per cento del loro potere di acquisto; i requisiti della pensione di vecchiaia sono stati bruscamente innalzati; i requisiti della pensione di anzianità sono esagerati); la previdenza integrativa è scoraggiata; il problema degli esodati è lungi dall’essere risolto.
Il commissario alla spending review Carlo Cottarelli è arrivato a proporre, in un’audizione al Senato, addirittura un contributo temporaneo di solidarietà per le pensioni sopra i 2.000 euro lordi (1.200 netti) per finanziare le nuove assunzioni. Francamente è incomprensibile. Ammesso e non concesso che sia necessaria una nuova tassa, chiamata pudicamente contributo di solidarietà, non si capisce perché andrebbe limitata ai soli pensionati invece di essere estesa a tutta la platea dei contribuenti. E poi il Commissario alla spending review chiude un occhio, anzi tutti e due, su episodi singoli e su comportamenti collettivi.
Il presidente dei Consorzi del Mose, il sistema di dighe per difendere la laguna di Venezia, accusato di aver usato per sé i fondi del Consorzio, ha ottenuto una buonuscita di sette milioni di euro. I nostri manager di Stato sono i più pagati nell’Ocse. Guadagnano più di Giorgio Napolitano, più di François Hollande, più della Merkel. A Roma i dirigenti dell’Atac, una dissestata municipalizzata dei trasporti, guadagnano più dei tecnici della Nasa. E non dimentichiamo quello che accade negli enti locali. Il presidente della Provincia di Bolzano, ad esempio, guadagna più del presidente degli Usa Barack Obama.
Il piano di intervento sulla spesa pubblica è, come al solito, modesto. Si deve invece intervenire con più determinazione sulle autonomie locali, fonti di una straripante e incontrollabile spesa pubblica. Si parla di riforma del Titolo V della Costituzione. È vero. Ma le decisioni vengono sempre rinviate, come è avvenuto per il finanziamento dei partiti. Le Regioni, tranne limitate eccezioni, hanno dissestato i conti pubblici, hanno incrementato enormemente il carico fiscale, hanno moltiplicato la loro legislazione paralizzando ogni iniziativa per fare impresa e creare lavoro.
Il federalismo fiscale ha avuto e continua ad avere un effetto devastante. Si è allargata la corruzione; si è paralizzata ogni decisione; si è moltiplicato il potere della burocrazia; si sono aumentate a dismisura le tasse. Il taglio della spesa pubblica è uno dei dossier più scottanti. Renzi lo deve affrontare senza reticenze e senza timidezza. L’intervento sulla spesa pubblica deve essere accompagnato da una robusta e rinnovata azione fiscale. Va recuperato un rapporto costruttivo con i contribuenti, una compliance che si è smarrita nel dedalo di misure confuse e contraddittorie e in un eccesso di misure repressive verso i contribuenti più deboli.
Le prossime settimane saranno decisive; occorrerà fornire informazioni precise e documentate sui contenuti e i dettagli dei provvedimenti. Va meglio definito il rapporto con le parti sociali, che vanno ascoltate e, se possibile, coinvolte per vincerne le resistenze; non si può pensare di decidere in solitudine, non si va da soli molto lontani. Va contrastato il potere di veto della burocrazia, limitando il ruolo dei funzionari ministeriali; va svolta un’intelligente azione per acquisire dai dipendenti pubblici mobilità e disponibilità al cambiamento.
Il confronto con le forze sociali, l’attenzione ai soggetti intermedi, il rapporto con i gruppi parlamentari sono necessari. Il Paese non può essere messo di fronte a fatti compiuti. La qualità della squadra di Governo è modesta. Ci si sarebbe aspettato qualcosa di più. Ministri competenti e preparati capaci di definire piani dettagliati, disegni di legge innovativi, gruppi di esperti. Nelle prime settimane di attività il nuovo Governo si è mosso in maniera spesso improvvisata. Massimo Giannini ha scritto su Repubblica che molti, troppi ministri, come ai tempi di Rino Formica e di Beniamino Andreatta, parlano a vanvera come le «allegre comari di Windsor».
L’Italia è un Paese complesso, bisogna rendersene conto soprattutto se la si vuole cambiare. «Molti nemici molto onore» era un infausto slogan per giustificare le scelte azzardate. La ricerca del consenso senza farsi invischiare in interminabili discussioni, trattative, tavoli di negoziato, è fondamentale. L’ambizione di cambiare l’Italia è una battaglia che può essere vinta, come è avvenuto sempre nel nostro Paese convincendo ed avvincendo le potenzialità dei corpi intermedi.
L’obiettivo, per dirla con Alan Friedman, è di «ammazzare il gattopardo» rompendo l’incantesimo del nostro immobilismo travestito da cambiamento. Non condivido gli appelli che chiedono a Renzi di fare scelte impopolari che ricalcano la politica dei sacrifici e dei due tempi. Ci troveremmo di fronte alla riproposizione degli errori fatti dal Governo Monti. Le scelte per il cambiamento del nostro Paese, se saranno portate con la coerenza e con la forza della verità, avranno un consenso popolare. Una rivoluzione deve essere popolare. Se si fa ottiene un consenso di massa. Ecco perché è ipocrita dire «O Renzi o il caos»; è invece necessario che sia viva, vitale, vivace l’azione dei soggetti sociali per favorire con le proprie proposte e la propria esperienza la realizzazione del cambiamento.  

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