FEDERALISMO FISCALE: UNA GRANDE OCCASIONE PER RIDURRE LE LEGGI, INCENTIVARE LE IMPRESE, FAVORIRE LE FAMIGLIE
Le elezioni regionali dovevano essere, a due anni dell’inizio della nuova legislatura, il momento della verifica del lavoro fatto dall’Esecutivo per impostare la politica delle riforme misurandosi sulle loro priorità e sui loro contenuti. Ora c’è il rischio che ciò non avvenga, per le turbinose vicende che coinvolgono gli schieramenti politici di Governo e di opposizione. È invece attuale la necessità di semplificare il nostro sistema, di dare certezza ai diritti e ai doveri dei cittadini, di decidere in termini chiari, in modo rapido e definitivo.
Le leggi e i regolamenti appaiono ora come delle gigantesche ragnatele: lacci e lacciuoli paralizzano ogni spinta al cambiamento. Le leggi sono troppe (Tacito ricordava «corruptissima repubblica plurimae legis», cioè troppe leggi significano corruzione), e quelle inutili indeboliscono quelle necessarie. Troppi i gradi di giudizio, troppe le invasioni di campo tra giurisdizione civile e giurisdizione amministrativa, troppo debole l’intervento sanzionatorio delle Autorità di vigilanza, troppo forte il potere della burocrazia.
Giuseppe Giusti esagerava quando definiva i burocrati «dicasterica peste che ci rode; ci guasta; ci tormenta; ci dà della polvere negli occhi grazie a governi degli scarabocchi». Ma un fondo di verità c’era e c’è in quelle affermazioni. Chi vuole intraprendere, chi vuole lavorare si muove in una giungla ove la discrezionalità dell’interlocutore («La legge si interpreta per gli amici, si applica ai nemici») finisce per bloccare ogni tentativo, anche il più lodevole, per realizzare le riforme.
Il ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti si è posto l’obiettivo di passare, nella legislazione fiscale, dal «complesso al semplice»; il ministro Roberto Calderoli vuole sopprimere migliaia di leggi; giacciono in Parlamento proposte per riordinare, ridurre ed armonizzare il ruolo delle diverse Authority, per riportarle alla loro funzione originaria (assicurare la trasparenza, la correttezza, la competenza nel funzionamento delle istituzioni per renderle efficienti e tempestive nei loro interventi).
Si è perso molto tempo: occorre ora speditamente arrivare ad una svolta. Dai veti incrociati dei «causidici» occorre passare al fare. Filippo Turati nel proprio intervento in Parlamento per illustrare la proposta dei socialisti riformisti nel primo dopoguerra disse: «Giudicare un po’ meglio e… giudicare un po’ meno (che è forse la suprema saggezza) per fare e far fare». Lo scenario macroeconomico del nostro Paese è costituito da 5.600.000 imprese e titolari di partite Iva, da 40.500.000 persone fisiche e da 2 milioni di società.
Sono poco più di 32 milioni le dichiarazioni dei redditi, 65 milioni gli atti di accatastamento di terreni e di fabbricati, 10 milioni le dichiarazioni doganali per le operazioni di import-export; indefinibili, infine, gli innumerevoli atti di interesse economico e fiscale. La normativa e la modulistica fiscale hanno il loro fondamento nella riforma realizzata agli inizi degli anni Settanta dai Governi di centro-sinistra della prima Repubblica.
I cambiamenti che in questi 40 anni si sono determinati sono profondi dal punto di vista istituzionale (la realizzazione delle Regioni con un rafforzamento del loro ruolo, unitamente a quello degli altri enti decentrati: Circoscrizioni, Comuni, Comunità montane, Province), economico (è molto aumentato il lavoro autonomo, si sono rarefatte le grandi imprese, si è notevolmente ampliato il numero delle piccole e medie aziende) e internazionale (la globalizzazione ha indebolito l’autonomia decisionale dei singoli Stati e ha rafforzato la spinta alla finanziarizzazione). In questo contesto il sistema fiscale, perno fondamentale ed essenziale della politica economica, richiede da tempo una vera riforma capace in modo intelligente di favorire la crescita del Paese e di realizzare corrette politiche redistributive.
Oggi la politica fiscale, così com’è, rappresenta un fardello per il nostro Paese, un ostacolo alla crescita, un fattore di profonda ingiustizia a livello sociale e territoriale. C’è un consenso unanime per cambiare la politica fiscale. Il sistema non regge più. La tempesta finanziaria che sta sconvolgendo le economie più forti del mondo ha forti ripercussioni e conseguenze nel nostro Paese che risente di dieci anni di confusa, contraddittoria, improvvisata politica fiscale. Le poche luci rappresentate dall’approvazione dello Statuto del Contribuente, da una maggiore efficienza della Guardia di Finanza e dell’Amministrazione Finanziaria, da primi significativi risultati nell’azione di contrasto all’evasione fiscale, sono oscurate dalle tante ombre che gravano sulla macchina fiscale.
In sintesi va evidenziata la sperequazione del prelievo che colpisce i redditi fissi (in prevalenza lavoratori dipendenti e pensionati), perseguita le famiglie (sono irrisorie le agevolazioni per le famiglie monoreddito e per i figli), impoverisce e rende meno competitivo il sistema delle piccole e medie imprese manifatturiere (l’Irap e l’Ires tassano di più chi incrementa o mantiene l’occupazione; le agevolazioni per nuovi investimenti e per ricerca sono risibili).
Nei fatti, nonostante i buoni propositi, si sono chiusi gli occhi su quello che avveniva nella finanza, favorendo, con un allentamento dei controlli e con aliquote particolarmente favorevoli, la speculazione rispetto agli investimenti. Più allarmante è il quadro sull’andamento della spesa pubblica. A differenza del sistema delle entrate che ha registrato una tenuta e anche dei miglioramenti, la spesa pubblica non è completamente sotto controllo. Una voragine è rappresentata dai deficit di bilancio delle autonomie locali, con particolare riguardo alla spesa sanitaria delle Regioni e alle disinvolte operazioni di finanza creativa con il ricorso indiscriminato ad operazioni finanziarie speculative (i cosiddetti derivati). Si è, nei fatti, realizzato una specie di federalismo selvaggio. Per reperire risorse si è accentuato il ricorso alle addizionali sull’Irpef e sull’Irap ai vari livelli (in particolare Comuni e Regioni), aggravandone il peso con la trasformazione delle deduzioni in detrazioni e con il ricorso all’anticipo delle stesse addizionali.
Ecco perché è importante che al federalismo selvaggio si sostituisca una compiuta ed organica riforma. Il punto di partenza dovrebbe essere facile. Non ci sono infatti obiezioni di principio: in Parlamento l’unico partito che ha respinto quella ipotesi è stato l’UDC; l’opposizione si è astenuta. Il federalismo fiscale è una grande occasione per semplificare il nostro sistema legislativo (oggi esiste un contenzioso mostruoso tra Stato e Regioni sulla legislazione concorrente), per realizzare una riforma fiscale capace di incentivare l’attività imprenditoriale (artigiani, piccole e medie imprese) e di favorire le famiglie riequilibrando il carico fiscale, in pratica spostandolo dal lavoro sulle attività finanziarie. È innovativo, in particolare, ai fini della responsabilizzazione della spesa, aver previsto dei meccanismi precisi per commissariare quei Governi regionali incapaci di salvaguardare la correttezza dei bilanci.
L’attuazione del federalismo fiscale non deve arricchire l’archivio impolverato delle riforme annunciate e poi dimenticate. La spesa pubblica si alimenta anche per la gestione - salvo alcune eccezioni - poco responsabile soprattutto nel settore della sanità. Sotto traccia esiste un debito sommerso relativo alle disinvolte operazioni sui derivati, gestiti imprudentemente in molte delle strutture decentrate (Regioni, Province, Comuni). Non c’è un rifiuto in Parlamento e nel Paese a realizzare dei mutamenti, delle vere riforme nel settore dell’economia e della finanza. Il 2010 può essere l’anno della svolta. C’è un generale consenso per operare in quella direzione. Ma, come capita spesso in questo Paese, si rimane fermi, al palo, per «eccesso di consenso».
di GIORGIO BENVENUTO
presidente della Fondazione Unigioco
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