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fiat, sindacati, globalizzazione, cogestione

di GIORGIO BENVENUTO  presidente della fondazione  Bruno Buozzi

La Fiat che abbiamo conosciuto sino a qualche tempo fa, quella che ho conosciuto anche io, prima da segretario dei metalmeccanici e poi da segretario della Uil, era una fabbrica italiana, anzi era una fabbrica piemontese. Al vertice c’era la Famiglia, identificabile in Gianni e Umberto Agnelli, la gestione era affidata a Cesare Romiti e a un gruppo di manager che avvertivano in maniera forte l’orgoglio di essere un pezzo fondamentale, il più riconoscibile e antico, del Made in Italy.
Un’azienda che considerava centrale la produzione di automobili nella propria strategia. Un’azienda che si identificava con la storia d’Italia. E, d’altro canto, Giovanni Agnelli senior è stato senatore a vita così come lo è diventato Vittorio Valletta. Umberto e Susanna Agnelli sono stati deputati, il presidente Francesco Cossiga nominò a sua volta l’avvocato Gianni Agnelli senatore a vita. La Fiat non solo si sentiva profondamente italiana, ma si sentiva un pezzo decisivo dell’Italia. Ci sono stati momenti in cui Gianni Agnelli si è preoccupato di difendere questa identità.
L’azienda, oggi amministrata da Sergio Marchionne, non ha nulla a che vedere con quella che ho conosciuto io, non è più in mano al vecchio imprenditore, al Patriarca, è nelle mani degli eredi, peraltro molto numerosi e non sempre in completa sintonia, che non hanno ancora la medesima sensibilità ed autorevolezza di Gianni e Umberto Agnelli. Non si sentono legAati né alle vicende italiane né all’automobile. E poi c’è Marchionne che, pur essendo nato in Italia, non si identifica con il nostro Paese. Vive in Svizzera, trascorre gran parte della propria esistenza in volo tra i continenti, il suo habitat naturale è il mondo. Lavora e si muove a livelli diversi.
Ha negoziato in America direttamente con il presidente Barack Obama. Ha rapporti diretti con i capi di Stato in diverse parti del mondo. La Fiat per lui deve avere convenienza a fare auto in Italia. L’italianità che era scritta sul biglietto da visita dell’avvocato Agnelli, che pure aveva portato l’inglese in una fabbrica che parlava piemontese, non lo riguarda. La sua analisi è semplice: che senso ha avere delle fabbriche che producono auto per il grande pubblico in un Paese in cui l’auto non tira più? Di qui la decisione di puntare su altri mercati, il Brasile, la Cina, l’India, i Paesi dell’Est. L’italianità non è più un valore, semmai un impaccio, soprattutto quando si devono gestire complicati rapporti con i sindacati e con i lavoratori, quando si fa fatica a confrontarsi con il mondo politico.
Si può fare un paragone ardito. Sergio Marchionne si trova ad operare nelle stesse condizioni in cui si trovò Valletta alla fine della seconda guerra mondiale. La Fiat era distrutta, occorreva ricostruirla, occorreva creare le condizioni in Italia per una domanda crescente di auto popolari. Valletta andò per le spicce. Cercò un accordo con la CGIL. Ebbe difficoltà crescenti. Assunse una linea di rottura con la FIOM, che poté ritornare al tavolo delle trattative solo nel 1962, dopo gli incidenti di Piazza Statuto. Sergio Marchionne si muove sulla stessa linea. Ha cercato l’accordo con tutto il sindacato. Non c’è riuscito. Ha rotto con la FIOM. È nata una guerra senza esclusione di colpi. La Fiat è uscita anche dalla Confindustria. È presto per dare un giudizio sul suo operato e sulla sua strategia.
Cesare Romiti ha scritto di recente: «Con l’autoritarismo instauri un regime aziendale che alla prima occasione ti si rivolta contro. Ma se non sei un manager autorevole, non riesci a trasmettere principi e azioni che ritieni importanti per il successo dell’azienda». Ed ancora: «Il manager che guarda molto al proprio tornaconto è figlio di un sistema che ha perduto certi valori e affievolito gli anticorpi che lo preservano dalla degenerazione». Marchionne, insomma, ha sparigliato le carte; è diverso dai propri predecessori, ha come prima priorità l’esigenza di avere un’azienda competitiva capace di remunerare bene i propri azionisti. Costi quello che costi. Come ci si deve muovere in questa nuova realtà? Non servono le demonizzazioni o le contrapposizioni ideologiche. I sindacati non possono continuare a pensare che la Fiat sia l’espressione per eccellenza del capitalismo italiano. Molte cose sono cambiate. Si dovrebbe cominciare a fare come si è fatto alla Chrysler, o come da tempo si fa in Germania. Ci si deve convincere che nel mondo della globalizzazione per competere, per innovare, per creare posti di lavoro, si devono aprire spazi di collaborazione tra lavoratori e imprese.
Alla Volkswagen nel 2010 è stata firmata un’intesa per garantire il posto di lavoro a tutti sino al 2014. Il presidente della Daimler Benz, Dieter Zetsche, ha dichiarato: «In Germania non si licenzia». E in effetti si licenzia così poco che nel 2012, mentre nel nostro Paese la disoccupazione saliva all’11,1 per cento, da quelle parti si registrava il tasso di disoccupazione più basso dal 1991: 6,8 per cento, con 79 mila senza lavoro in meno rispetto al 2011. La domanda a questo punto sorge spontanea: tutto questo si raggiunge con gli scioperi? Sinceramente non lo penso. Al contrario sono convinto che si possa ottenere con la collaborazione, chiaramente non a senso unico. Sono convinto che sia utile che la classe lavoratrice cominci ad esplorare nuovi terreni di confronto non conflittuali con le aziende.
È interessante a questo proposito uno studio del 2010 realizzato dall’ETUI, l’European Trade Union Institute, che ha aggregato da un lato i dodici Paesi in cui sono previste forme di cogestione (Austria, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Lussemburgo, Olanda, Slovacchia, Slovenia, Spagna e Svezia) e dall’altra quindici Paesi, tra i quali l’Italia, in cui non sono previste queste forme di partecipazione. Le due entità aggregate hanno quasi il medesimo prodotto interno. Il risultato dice che nei dodici Paesi impegnati nella cogestione gli occupati tra i 20 e i 64 anni sono pari al 72,1 per cento rispetto al 67,4, la spesa per ricerca e sviluppo ammonta al 2,2 per cento rispetto all’1,4, la popolazione a rischio povertà è attestata al 19,1 per cento dinanzi al 25,4.
Il sindacato venuto fuori dalla frammentazione della Cgil unitaria nel dopoguerra è stato a lungo un soggetto debole. Doveva conquistare spazi, doveva imporre la propria presenza, insomma doveva farsi valere. Era inevitabile la connotazione antagonista in quella fase storica. Il miracolo economico aveva garantito straordinari benefici a qualcuno, ma ai lavoratori erano state lasciate le briciole. Oggi con la globalizzazione la situazione è cambiata. Se l’impresa non è competitiva, scappa. Abbiamo interesse a salvaguardare la capacità produttiva dell’azienda. Nel mercato senza confini siamo tutti fratelli e tutti concorrenti nello stesso tempo. Conviene esplorare la possibilità di intese che consentano alle aziende di essere più efficienti e competitive.
La questione è molto semplice: se le imprese vanno bene, puoi ottenere vantaggi salariali, migliorare i livelli occupazionali, aprire le porte del mondo produttivo ai giovani; al contrario, se vanno male, c’è solo l’alternativa della cassa integrazione e della disoccupazione. Se vanno bene ci si divide la ricchezza, se vanno male si divide la povertà. È evidente che un salto di qualità devono farlo anche gli imprenditori che su questo terreno hanno sempre frenato. Tutto questo non significa mettere in soffitta lo scontro di classe. Si tratta di prendere atto che nel tempo è cambiato, ha assunto altre forme. È un discorso, però, che incontra grandi diffidenze ideologiche.
La Fiat è un esempio molto particolare. Rappresenta un caso l’uscita dell’unico produttore italiano di automobili dalla Confindustria; ed è un caso il fatto che la Confindustria l’abbia lasciato uscire. Con Sergio Marchionne bisognava fare l’accordo. Hanno fatto bene la FIM e l’UILM a farlo. Non avevano alternative. Era un’intesa necessitata. Ora, superata la fase dell’emergenza, occorre il cambiamento. Va definita una strategia che renda simmetrica l’esigibilità degli impegni reciproci - del sindacato e dell’impresa -, che stabilisca regole per definire la rappresentatività, per rispettare il pluralismo sindacale.
L’Italia è diversa dagli Stati Uniti, dove esiste solo la contrattazione aziendale e dove opera solo un sindacato, l’AFL-CIO. In Italia la situazione è più articolata. C’è la Confindustria e c’è il pluralismo sindacale. Marchionne commette un errore quando vede come interfacccia solo la FIOM. Ci sono anche l’UILM e la FIM. Ci sono altre organizzazioni sindacali. Insomma nella Fiat, ma nel Paese, ieri come oggi, è prevalente, largamente prevalente, tra i lavoratori la linea riformista. L’insistenza della dirigenza della Fiat a sopravvalutare i rischi che derivano dal comportamento della FIOM è, alla fin fine, un alibi per non realizzare un confronto vero che valorizzi le posizioni costruttive della FIM e dell’UILM.
L’articolo 46 della Costituzione prevede la partecipazione dei lavoratori alla gestione. Non sono mancate le iniziative legislative, ma non sono mai andate avanti perché la volontà politica è stata decisamente carente. Tutti hanno avuto paura di mettere le mani in questa materia. Il problema della democrazia industriale il sindacato deve porselo come se lo posero la Spd e la Dgb. Il Governo di Willy Brandt ampliò nel 1976 lo spazio della cogestione attuando quello che era stato scritto diciassette anni prima nell’Hotel La Redoute di Bad Godesberg: «Da suddito dell’economia, il lavoratore deve diventare cittadino: la cogestione dell’industria siderurgica e carbonifera è l’inizio di un rinnovamento dell’ordinamento economico e dovrà svilupparsi ulteriormente per sfociare in un’organizzazione democratica della grande industria».
La cogestione è una forma di partecipazione dei lavoratori e di strumento per favorire lo sviluppo dell’economia del Paese. La Spd lavorò su un terreno reso fertile dal cancelliere Conrad Adenauer che pure non era un progressista. Il sindacato avrebbe rinunciato a benefici salariali se gli fossero stati riconosciuti i diritti di cogestione. I lavoratori tedeschi approvarono questa linea in un referendum nel quale si raggiunse il 95 per cento. Le condizioni storiche in Germania favorirono quelle soluzioni. Per dare ai tedeschi la possibilità di utilizzare il carbone e l’acciaio, materiali decisamente necessari in guerra, il trattato di pace stabilì che nella gestione delle imprese fossero coinvolti anche i sindacati.
Quella presenza sindacale ha prodotto effetti benefici in Germania. È stato un fattore di crescita. La Germania è in qualche maniera l’incontro di due eresie: l’eresia liberale dell’economia sociale di mercato interpretata soprattutto da Ludwig Erhard, il ministro che è considerato il padre del Miracolo Economico; e l’eresia socialdemocratica che troncava i ponti con il passato, con il marxismo, per abbracciare una idea di socialismo capace di governare il capitalismo e non di abbatterlo. Anche con Adenauer il modello economico tedesco ha avuto un’evoluzione diversa rispetto a quella che si è avuta in Italia.
Adenauer aveva solo un obiettivo: ricostruire il sistema industriale uscito distrutto dalla guerra. Ma questo intento costruttivo è anche nel Dna del sindacato italiano. Le tracce si ritrovano nel piano per il lavoro di Giuseppe Di Vittorio, nel contributo che fra il 1946 e il 1947 il sindacato ha dato alla ricostruzione del Paese. Si doveva e si deve cogliere meglio questo spirito, questa tensione. Rodolfo Morandi ci provò presentando un disegno di legge che apriva la strada a qualcosa di non molto dissimile da quello che si stava costruendo in Germania. Quel disegno di legge non divenne legge per l’opposizione degli imprenditori, della Dc e anche del Pci, che temeva che nei consigli di gestione i lavoratori si sarebbero socialdemocratizzati. Ci fu, insomma, una singolare convergenza.
I lavoratori, se sono coinvolti, si comportano da riformisti, se vengono emarginati diventano estremisti. La partecipazione consente di agire in maniera più pragmatica e non alla cieca come spesso avviene in Italia. Sono necessarie riforme coerenti che consentano la crescita del nostro Paese. Diffido fortemente di chi parla di riforme ma non si impegna a farle. Le ultime riforme realizzate in questo Paese sono riconducibili ai presidenti del Consiglio Lamberto Dini (quella delle pensioni) e a Carlo Azeglio Ciampi (la concertazione con il sindacato). Gli altri ne hanno solo parlato. Nessuna però delle riforme proclamate ha visto la luce, nessuna ha prodotto delle soluzioni organiche. È così abusato il termine di riforma che è scaduto a luogo comune. Tutti si dichiarano riformisti, nessuno che lo sia per davvero.
La parola riforma è un vestito di taglia universale, possono indossarlo tutti ed è pure quattro-stagioni, va bene in estate e in inverno, in primavera e in autunno. Ma la realtà è diversa: le riforme accorciano le distanze, non le ampliano, redistribuiscono la ricchezza, non la concentrano in poche mani, realizzano quello che dicevano i socialdemocratici di Bad Godesberg: «Misure appropriate devono far sì che una quota adeguata del costante incremento patrimoniale delle grandi imprese venga distribuita ampiamente, oppure posta al servizio dell’utilità comune». In Italia le riforme devono avere quel segno.  

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