Economia e arte - Il trattamento fiscale delle opere d’arte ci penalizza
Opere d’arte: ricchezza e povertà. Siamo tanto ricchi di opere da rappresentare il 70 per cento della bellezza artistica del mondo che è concentrata in Italia, ma siamo poveri in termini di rendimento. Forse sono troppe le nostre opere d’arte e non concentrabili in poche città, perché sono presenti ovunque sull’intero territorio italiano, e ancora di più perché non riusciamo a utilizzare il «nostro petrolio» in modo adeguato, affinché tutto il Paese ne possa beneficiare.
Sul Sole 24 Ore di mercoledì 7 giugno 2017 Marilena Pirrelli ha descritto con dovizia di particolari lo scenario mondiale costituito, sotto il profilo economico, dalla «produttività artistica» nei vari Paesi. Mi sono venuti in mente - sembra che a una certa età si ricordino nei loro particolari - fatti e circostanze lontane nel tempo, una visita fatta più di 30 anni fa a un avvocato americano, amico e mio corrispondente in New York, che alla fine di una lunga e complessa trattativa per conto di alcune imprese italiane nostre clienti che operavano negli Stati Uniti, mi mostrò la collezione artistica che impreziosiva il suo studio.
Notai alle sue spalle un Pieter Bruegel il Vecchio, mentre il corridoio che portava alla sua stanza era illuminato da alcuni pezzi seicenteschi di inconfondibile fattura italiana. Gli domandai come mai lui avesse accesso a queste opere d’arte, mi rispose mostrandomi un catalogo di opere d’arte che il museo locale metteva a disposizione di un «parterre» eletto di soci sostenitori, ammessi dopo un attento esame e 5 mila dollari d’iscrizione. Si trattava prevalentemente di quadri ma anche di bronzi, o di opere marmoree che venivano messe a disposizione degli iscritti, i quali potevano prenderle in locazione e illuminare con la loro bellezza i propri studi, così da rendere «splendente» l’attesa dei clienti.
Questo particolare «accesso all’arte» che rendeva fruibili opere d’arte a tutti coloro che frequentano lo studio, trovava un forte sostegno fiscale poiché i canoni di locazione erano considerati «costi inerenti l’attività professionale». Tale trattamento fiscale si applicava non solo ai canoni di locazione di opere d’arte, ma anche in caso di acquisto, al prezzo pagato. Sappiamo che i depositi dei nostri musei sono colmi di opere d’arte che non vengono esposte e sembrano destinate a essere corrose dal tempo. Spesso mancano le risorse necessarie per restaurarle e comunque restano sottratte alla fruizione del pubblico. Situazione questa che non viene sfruttata, come si potrebbe.
Peraltro in tempi nei quali le varie finanziarie dimostrano come lo Stato abbia bisogno di reperire fondi in un contesto in cui la riduzione del Pil e l’incremento ineludibile della spesa pubblica creano squilibri che i cittadini sono chiamati, sempre più spesso, a risanare attraverso l’aumento della pressione fiscale. Ebbene codesto esempio ci indirizza verso soluzioni che privilegiano la fruizione più estesa e in tutte le forme economicamente possibili, delle opere d’arte, per potenziare attraverso il loro impiego anche la loro migliore conservazione. La differenza del trattamento fiscale dell’utilizzazione delle opere d’arte in Italia è penalizzante e non incentiva certo la loro circolazione e la loro utilizzazione economica.
Se desidero ospitare nel mio studio e offrire all’ammirazione dei miei clienti un quadro di un pittore più o meno celebrato, non posso considerare i costi relativi come strumentali, ovvero correlati alla mia attività lavorativa e quindi inerenti alla produzione dei miei introiti professionali, che pure ne beneficerebbero.
Come dire devi guadagnare il più possibile per pagare le maggiori imposte e tasse in relazione a ciò che guadagni, ma devi avere nel tuo studio mobili di Ikea: tavoli, scrivanie e mobili d’epoca, quadri, statue, bronzi non identificano beni i cui costi siano fiscalmente detraibili. Il che non mi sembra, nel nostro Paese, coerente con la necessità di incentivare l’utilizzazione del nostro «bene» più abbondante e prezioso. Invece in altri Paesi, che pure non hanno il «problema dell’abbondanza» che abbiamo noi, come ha messo in evidenza la dott.ssa Pirrelli nel suo articolo, ci sono forti incentivi, davvero condizionanti, poiché le donazioni di privati, le sponsorizzazioni, sostenute dalle agevolazioni fiscali concesse ai donatori privati, persone fisiche, o società, negli Usa, rappresentano la fonte primaria di mantenimento di musei, mostre e collezioni, apportando oltre il 50 per cento delle risorse necessarie alle loro attività.
Questo avviene addirittura per il 70 per cento a New York dove grazie agli incentivi del Governo Federale, ogni dollaro donato a un ente «no profit» comporta la rinuncia da parte del fisco locale, a 33-35 centesimi, cioè ad oltre un terzo delle entrate fiscali relative. Anche in Giappone abbiamo un importante effetto «spinta» sotto il profilo fiscale; questo tipo di esborsi vengono considerati, infatti, come costi inerenti ad attività professionale, o d’impresa.
Con tutte le cautele del caso, che oggi certamente non mancano, si potrebbe dar vita con modesti investimenti fiscali ampiamente compensati dal maggior gettito che l’allargamento del perimetro di fruibilità delle opere d’arte italiane certamente produrrebbe. La loro esposizione a un pubblico non museale avrebbe benefiche ricadute anche sui musei e/o collezioni private, e produrrebbe un incremento delle entrate per il nostro Stato. Inoltre, va considerato l’indotto, che verrebbe messo in moto in questo tipo di «rivoluzione» che interesserebbe una platea di circa due milioni di possibili utilizzatori.
Si pensi al lavoro degli artigiani e dei restauratori che potrebbero lavorare sulle opere da concedere in locazione, ai trasportatori esperti in imballaggi particolari, alle assicurazioni specializzate, ai legali che dovrebbero «creare» contratti ad hoc per questa tipologia di negozi giuridici con effetti benefici derivanti dalla liberalizzazione di tali servizi, specialmente assicurativi, e conseguente riduzione degli attuali corrispettivi. Infine, potrebbe prendere corpo quel famoso «inventario generale delle opere d’arte» di proprietà pubblica custodite nei musei e/o altrove, che langue da molti anni. L’attuazione di un tale progetto comporterebbe certamente la creazione di nuove specializzazioni e di nuova occupazione.
Questa idea fu portata già all’esame del ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi, ma senza seguito, ma com’è noto «repetita iuvant»! Forse è il momento di utilizzare sinergie confluenti per cercare di utilizzare meglio e di più il «nostro petrolio» prima che gran parte di esso diventi desueto, infatti anche la «cultura del bello» ha le sue «mode». Già abbiamo visto farsi strada sui mercati internazionali dell’arte molte opere moderne, per me spesso, davvero incomprensibili, che raggiungono nelle aste più prestigiose, prezzi d’aggiudicazione incredibili, mentre le quotazioni dell’arte europea e in particolare italiana dei periodi antecedenti al 1900 restano su livelli decisamente più bassi, e in regresso rispetto agli anni precedenti.
Ma si sa, anche i gusti e i trend culturali devono essere sostenuti per evitarne il tramonto. Quindi, v’è da incentivare e sostenere, proprio ciò che il nostro patrimonio artistico esprime in termini qualitativi, quantitativi e spesso esclusivi. La maggiore esposizione di tali opere in studi professionali, così come negli uffici di banche, nelle sale più frequentate di rinomati alberghi, ristoranti, e in ogni altro luogo aperto al pubblico specie se straniero, potrebbe risvegliare, in tutti noi e in particolare nei turisti, un interesse più vasto per la cultura italiana, così da spingere a frequentare le nostre città d’arte e i percorsi culturali, noti e meno noti della «bella Italia», peraltro quasi sempre arricchiti dalla nostra cucina e dai nostri vini. I «tecnici», i custodi della conservazione, della inamovibilità delle opere d’arte, malgrado le tecnologie e la mobilità in assoluta sicurezza che ha contraddistinto fin ora i trasporti delle opere d’arte, anche italiane, da un’esposizione all’altra nel mondo, oppongono a questo progetto la conseguente maggiore possibilità di furti e di danneggiamenti.
Contro questo rischio, sarà sufficiente ottenere garanzie idonee, anche assicurative. Certamente c’è ancora molto da fare, anche con riferimento alla mobilità delle opere d’arte, malgrado le buone pratiche e le novità normative introdotte dal ministro Franceschini. Ad esempio i frequentatori di quelle impressionanti navi da crociera che muovono migliaia di persone da un porto all’altro e che continuano ad attentare alla fragilità della città di Venezia, o che sostano per pochi giorni nel porto di Napoli. Ebbene codesti «turisti» stranamente non visitano il museo nazionale di Capodimonte, o le meraviglie del museo archeologico nazionale di Napoli, o il museo nazionale di San Martino e potrei continuare, per paura di scippi o di altri guai che implicherebbero la responsabilità degli organizzatori della crociera.
Ricordo che in uno dei miei frequenti viaggi per e da New York una gentile signora, incontrata in aereo, mi disse di essere una dirigente di una nota organizzazione di crociere internazionali. Da napoletano quale sono, osservai che avevo visto, pochi giorni prima, nel porto di Napoli una loro nave incredibilmente grande e piena di passeggeri, senza notare movimenti a terra. Infatti, i loro passeggeri non visitavano Napoli né le sue opere d’arte per motivi di sicurezza, per «evitare guai». La compagnia di navigazione preferiva organizzare gite a Capri «perché è una zona più tranquilla». Ora spero che a distanza di anni, viste anche le notizie positive che ci giungono dalla questura di Napoli, i cui uomini sono riusciti negli ultimi anni a ridurre di oltre il 40 per cento «scippi e rapine», specialmente nel centro di Napoli, questa pregiudiziale negativa rappresentata dalla pericolosità partenopea, peraltro non superiore rispetto ad altre grandi città estere, sia stata rivista.
Certamente lo sforzo deve essere unitario per convincere, con l’aiuto degli enti del turismo e delle organizzazioni locali, degli addetti ai lavori che presiedono all’accoglienza e alla sicurezza, con il coinvolgimento delle stessa Regione e dei Comuni, che la magnificenza del patrimonio artistico di Napoli, oggi ben presidiato e sicuro, merita da parte dei loro passeggeri una visita che si rivelerà sicura, serena, ricca di cultura e di bellezza artistica. Lo stesso, con ogni più opportuna cautela anche per il trasferimento a terra dei passeggeri, mantenendo l’attuale divieto di attracco per questa tipologia di navi, potrà dirsi per Venezia. Ma al di la di queste iniziative, tornando agli incentivi fiscali che sorreggono il progetto «cultura italiana», va sottolineato quanto il ministro Franceschini sta realizzando attraverso l’Art Bonus, ovvero il credito d’imposta, per sponsorizzazioni e/o interventi a favore di opere d’arte, per la loro conservazione, restauri, mostre e quant’altro, per un totale sul territorio nazionale di oltre 300 milioni, ad oggi utilizzati al 50 per cento.
Il panorama internazionale in realtà offre una vasta gamma di soluzioni per raccogliere fondi da distribuire in favore di opere d’arte e alla loro diffusione. Ne ricordo due: New York che consente ai cittadini di decidere sulle attribuzioni di fondi pubblici e privati a determinate iniziative culturali ed artistiche; Londra, che attua l’emissione di speciali «bond» dedicati ad investimenti su specifici progetti artistici. Ma non si tratta, evidentemente, solo di sostegni o spinte fiscali, ma anche e soprattutto di capacità manageriali dei direttori dei musei che devono saper gestire il patrimonio artistico loro affidato, potenziandone la fruizione pubblica e utilizzando al meglio e nell’interesse delle istituzioni, la maggiore autonomia anche economica di recente introdotta dalla «riforma Franceschini».
I risultati raggiunti a Pompei, e in molti musei italiani, evidenziano che la strada intrapresa è quella giusta. Il «Beauty contest» esteso a possibili direttori anche esteri, la loro nomina, la loro capacità innovativa, la dimensione economica della loro missione, non solo «conservativa» o di «custodia», ebbene hanno dato uno «scossone» alla «foresta incantata» dei nostri musei. Ne costituisce una evidente prova la vicenda giudiziaria che ne è seguita. Il Consiglio di Stato con le ordinanze n. 2471 e 2472 del 15 giugno 2017 ha restituito al loro lavoro i direttori sospesi dal Tar Lazio in precedenza, i quali sono tornati sono prontamente a dirigere i musei archeologici di Napoli e Reggio Calabria, il Palazzo Ducale di Mantova e la Galleria Estense di Mantova. In più il Governo, a tutela degli effetti positivi che la riforma Franceschini ha registrato, ha inserito, con effetto retroattivo, nella «normativa» finanziaria approvata il 15 giugno scorso, una disposizione che consente di rendere internazionali le selezioni pubbliche dei direttori dei musei, o dei loro responsabili, che quindi potranno anche essere stranieri.
Questo sforzo di rinnovamento e di liberalizzazione va sostenuto per vedere un maggior numero di opere italiane in luoghi aperti al pubblico e non solo nei musei o nelle case private e, forse, assistere al rifiorire in tempi brevi del mercato delle opere d’arte in Italia, con il ritorno di case d’asta prestigiose come, tra le altre, Christie’s e Sotheby’s, che da anni hanno abbandonato il nostro Paese.
a cura di Lucio Ghia