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CAMPIDOGLIO. LA TRAGICA STORIA DI UNA BANCAROTTA

Romano Bartoloni del Sindacato cronisti romani

I romani sono i più tartassati d’Italia per colpa di un Campidoglio in bancarotta con un debito record intorno ai 14 miliardi di euro. Tra addizionali regionali, comunali, Imu, Tasi e Tari, nel 2015 hanno versato al fisco 757 euro in più della media nazionale, pari a 2.726 pro capite. Invece di destinarli a risanare i servizi pubblici, tutti quei quattrini finiscono nelle casse delle banche creditrici e del Tesoro per pagare una rata di 500 milioni all’anno. Ci vorranno 33 anni per estinguere il maxi-debito. Nel frattempo che faranno i romani in una capitale sempre più invivibile? Emigreranno? Venderanno il Campidoglio ai cinesi?
O si tagliano i rami secchi delle tante società partecipate o Roma muore di caro fisco e di malaffare. I romani mantengono un elefantiaco apparato di 65 mila burocrati comunali e paracomunali, una massa numerosa come la città di Viterbo, oltre la metà in forza e a spese delle municipalizzate cresciute come funghi, e quasi tutte in dissesto o con debiti ultramilionari. I loro dirigenti ci costano oltre 40 milioni l’anno. Plurimilionarie anche le loro liquidazioni. I pessimi servizi dei trasporti pubblici sono gestiti da una Atac in fallimento: un buco di 1 miliardo 563.947.170 milioni nel 2014 e con 12 mila stipendiati. Tempi interminabili per la metro più costosa al mondo.
Roma è la capitale più sporca d’Europa. Oltre il danno la beffa: ogni romano paga per i rifiuti 249,92 euro l’anno, il 50,9 per cento in più della media nazionale. L’Ama, la municipalizzata responsabile della raccolta, è alle corde con un debito di 1miliardo e 200 milioni. Complessivamente, le principali 10 partecipate hanno registrato nel 2014 debiti per 3 miliardi e 800 milioni. Il loro moltiplicarsi in forme esponenziali ha creato una giungla inestricabile, quotidianamente sotto tiro della malavita e che andrebbe radicalmente disboscata con la rottamazione e con la riconversione su larga scala.
Sembrava l’alba radiosa di una nuova epoca quel giorno dei primi di dicembre del 1993 quando il trentanovenne Francesco Rutelli salì in Campidoglio in sella al suo scooter. Le tempeste di Tangentopoli cominciavano a placarsi. Mani pulite stavano spazzando via i marci modelli di rappresentanza, tramontava l’era delle perenni crisi delle giunte multicolori, creando un vuoto riempito proprio quell’anno dal nuovo potere decisionale del sindaco eletto direttamente dal popolo e dal rafforzamento del ruolo della burocrazia. Senza più controlli e resistenze dentro e fuori del Campidoglio, la macchina comunale, una volta onnipresente nel bisogno, ha tirato i remi in barca, compiendo negli anni una radicale mutazione genetica. Con o senza appalti, con e senza rispetto delle regole, servizi, lavori, opere pubbliche, una volta assolti e realizzati in forma diretta, sono passati in gestione nelle mani di terzi senza una ragione sensata. Inevitabile la caccia al tesoro degli affari comunali da spartire da parte di profittatori e malintenzionati. Poteri e sottopoteri periferici, caste gerarchiche e burocratiche di seconda e di terza fila sono proliferate in forme esponenziali alle spalle dell’amministrazione cittadina, fertilizzando il terreno per le incursioni disoneste.
Il Campidoglio ha fatto da battistrada fin dal 1993 alla polverizzazione dei propri compiti extra moenia, cavalcando la grande occasione offerta ai Comuni con la legge sull’elezione diretta del sindaco, e sulla maggiore autonomia finanziaria degli enti locali. 23 anni fa, le municipalizzate romane erano quattro e lo erano fin dai tempi del primo sindaco laico Ernesto Nathan (1907): Atac, Stefer (trasporti regionali), Acea (acqua e luce) e Centrale del Latte. Da allora il federalismo e il decentramento all’italiana hanno prodotto i carrozzoni delle società partecipate che sono servite a riciclare i ferri vecchi della politica, a spendere e spandere i quattrini dei romani, a rigonfiare le file della burocrazia, a complicare la vita dei cittadini, e a incoraggiare le mediazioni furbe e interessate.
I costi di una interminabile catena di assunzioni (i dipendenti delle partecipate sono quasi 40 mila), la spesa facile e capricciosa hanno munto dal bancomat del bilancio capitolino che è finito in bancarotta. Un buco annuale di 1 miliardo e mezzo di euro nelle casse capitoline che ha contribuito fortemente a disastrare la situazione finanziaria municipale. Quando Rutelli lasciò il Campidoglio nel 2001, i debiti del Comune erano aumentati di 3,6 miliardi (dati del Sole24ore). Veltroni (1 miliardo e 21 milioni se non di più secondo Alemanno) e Alemanno stesso fecero il resto tanto che dovette intervenire il pronto soccorso del Governo da Marino fino ai nostri giorni.
Come rivela il portale del Campidoglio, «Roma capitale (così è stata declassata la città eterna e universale ndr) partecipa direttamente o indirettamente ad una pluralità di società ed altri organismi che costituiscono il cosiddetto Gruppo Roma capitale». Così continua la voce ufficiale «Tali strutture operano prevalentemente nei comparti dei servizi pubblici locali in materia di risorse idriche ed energetiche, di igiene urbana e gestione del ciclo dei rifiuti, di mobilità e trasporti» e inoltre «nei settori dell’ingegneria e dello sviluppo territoriale, della strumentazione e gestione delle infrastrutture, dei tributi locali, della cultura, dell’assistenza socio-sanitaria e dei servizi assicurativi». Nell’elenco dei portale capitolino, figurano ben 26 società partecipate. Però, nel portafoglio dell’azionista comunale si raggruppa una galassia di controllate, spa, in house, multiutility, consorzi ecc. (sarebbero 140 secondo Sergio Rizzo del Corriere della Sera) con buona pace del libero mercato e con le quali i cittadini debbono fare i conti per le loro attività.
Si è messa in piedi una rugginosa macchina di interdizioni che allunga i tempi di ogni pur piccola impresa quotidiana facendo il gioco dei mediatori lestofanti e prezzolati, rigenerandosi in continuazione con intrecci sempre più stretti e scellerati con gli interessi economici e le baronie professionali. Fra gli effetti più perversi di questo andazzo, il fenomeno degli appalti ai limiti della regolarità, e di così vaste proporzioni che sostituisce in larga misura il lavoro e l’impegno dei dipendenti comunali e paracomunali. Qualche tempo fa, si è scoperto con lo scandalo di affittopoli a pochi euro in centro, la gestione in perdita delle case era stata data in appalto. Risultato: pascoli aperti per gli imbroglioni, porte spalancate a mafia capitale, collasso finanziario del Campidoglio, e degrado della città.
Pur non volendo fare di ogni erba un fascio dello spreco e dell’inutilità delle partecipate, Marino era entrato nell’ordine di idee di cominciare a chiudere baracca e burattini. Nel suo sito personale, ricorda di averci provato con delibera del marzo 2015 nell’intento di liberarsi di 7 società strategiche (quali Centrale del latte, Assicurazioni, ente Eur ecc.) con una previsione di risparmio di 150 milioni di euro. A conferma delle sue buone intenzioni, assicurava che il Comune sarebbe tornato a fare il Comune, perché l’amministrazione pubblica «non deve vendere fiori, macellare carne, distribuire farmaci, occuparsi di assicurazioni e di società immobiliari». Fra il dire e il fare, c’è di mezzo il solito mare e di quella delibera non si ha più traccia. Il commissario prefettizio Tronca arrivò a bloccare persino la liquidazione dell’Adir, l’Assicurazione di Roma, allungandone la vita con il pretesto delle troppe polizze ancora attive.
In campagna elettorale, l’attuale sindaca Virginia Raggi aveva promesso di tagliare i rami secchi delle società partecipate moltiplicatesi come funghi. Finora ha creato un assessorato ad hoc che non ha idea da dove cominciare, perché ci sarebbero troppe teste da tagliare e tanti posti di lavoro da liquidare. «Il dissesto frutto di anni e anni di amministrazione distratta nel migliore dei casi, connivente e corrotta nel peggiore», così documentava Daniele Frongia quando era presidente della commissione speciale per la riforma della spesa a Roma. Entrato a vele spiegate nella giunta Raggi prima come capo gabinetto poi addirittura come vicesindaco, è stato praticamente messo alla porta dalla sindaca che l’ha relegato in posti da ultimo della classe.   

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