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Europa e Italia: un salto nel buio o nel futuro?

GIORGIO BENVENUTO  presidente della fondazione  Bruno Buozzi

Il successo dell’integrazione europea è stato all’inizio grande. Ha assicurato, come ricordava spesso il presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi, la pace stabile nei suoi confini, l’affermazione della democrazia anche dove vi erano dittature, ha favorito un diffuso benessere economico. L’Europa prende l’avvio il 9 maggio 1950 con la dichiarazione di Schuman per il superamento delle conflittualità nazionali. Il 1951 nasce la Ceca (Comunità Economica Carbone e Acciaio). Il 1955 la Conferenza di Messina determina le condizioni che porteranno alla costituzione della Cee.
Le tappe sulla strada della realizzazione dell’Europa diventano da subito incalzanti. Il piano Werner per la realizzazione dell’unione economica e monetaria (Uem) è adottato nel 1970. L’elezione diretta del Parlamento Europeo è stabilità nel 1979. Al Vertice di Milano, presidente di turno Bettino Craxi, viene decisa a maggioranza (non vota a favore Margaret Thatcher) la prima riforma dei trattati istitutivi e viene stabilito l’ingresso della Spagna e del Portogallo. Nel 1986 viene rafforzata, con l’Atto Unico, la coesione economica e sociale della Comunità. Nel 1988 viene definita la riforma dei Fondi Strutturali per consentire alle regioni periferiche di continuare a partecipare al processo di integrazione. Nel 1989 cade il Muro di Berlino. L’Europa è colta di sorpresa. Non sa sfruttare l’occasione. Non accelera il processo di integrazione. Le scelte sono rinviate. Prevale un fondamentalismo neoliberista che pretende di ignorare la crescita inarrestabile di radicali diseguaglianze.
I passi in avanti sono tutti economici; gli aspetti sociali sono accantonati. Il single market diventa una realtà dal 1° gennaio 1993; nel 1998 si decide quali sono gli Stati che inizialmente adotteranno l’euro; nel 2000 prevale a Nizza il modello intergovernativo; nel 2002 entra in funzione l’euro. Cade nel vuoto la spinta per accompagnare la moneta unica con una contemporanea azione per realizzare, sia pure a tappe, l’integrazione sociale e politica. Eppure non mancano i moniti. Padoa Schioppa a più riprese insiste: «l’euro non è il traguardo per la realizzazione dell’unità politica dell’Europa, è una tappa; bisogna proseguire senza esitazioni per quella strada». Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ancora di recente ha osservato che «non è mai esistita una moneta senza lo Stato che la emette».
Il Trattato del 2004 per definire la Costituzione Europea non si realizza. La crisi economica iniziata nel 2008, lungi dal concludersi, mette in crisi il processo europeo. La politica dell’austerità ed il fiscal compact indeboliscono e rendono impopolari le ricadute economiche e sociali sui cittadini europei. I vertici dei Capi di Stato e di Governo si trasformano dopo la Conferenza di Nizza del 2000 da strumento propulsivo in una specie di Direttorio che finisce per limitare e per erodere il potere propositivo della Commissione. Si verifica una progressiva esaltazione degli interessi nazionali; si affievolisce la solidarietà; si blocca il processo di condivisione ed integrazione; si affermano visioni «burocratiche», anzi «euroburocratiche».
Sono questi i motivi che fanno perdere ai cittadini il senso di appartenenza, di fiducia e di speranza nell’Europa. Il progetto Europa perde il suo slancio: la Brexit, le ripetute divisioni politiche sull’emigrazione e sull’austerità economica, i voti antieuropei che si esprimono nei diversi Paesi membri pongono, anzi impongono, le domande: cosa fare? Dove si va? Cosa succederà? Per tentare di dare delle risposte occorre guardare, senza distrarsi, allo scenario internazionale.
George Soros sostiene che l’Unione Europea rischia la dissoluzione: «Le forze della disgregazione hanno ricevuto un forte impulso nel 2016, prima dalla Brexit, poi dall’elezione di Trump negli Stati Uniti e il 4 dicembre dal rifiuto con un ampio margine, degli elettori italiani delle riforme costituzionali proposte dal Governo Renzi». Tutto questo nasce dall’errata reazione della Germania alla crisi finanziaria. Soros confronta il comportamento degli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale con quello della Germania dopo il 2008. Washington lanciò allora il Piano Marshall, «che ha portato allo sviluppo dell’Ue», mentre Berlino «ha imposto un programma di austerità che ha servito solo il suo ristretto interesse particolare». La riunificazione tedesca sulla base del cambio uno a uno tra marco dell’Ovest e marco dell’Est, «si è rivelata molto costosa. Quando Lehman Brothers è crollata, la Germania non si sentiva abbastanza ricca per assumere obblighi supplementari. Quando i ministri delle Finanze europei dichiararono che a nessun altro istituto finanziario di importanza sistemica sarebbe stato permesso di fallire, la cancelliera tedesca Angela Merkel proclamò che ogni Stato membro avrebbe dovuto prendersi cura delle proprie istituzioni. Questo è stato l’inizio del processo di disintegrazione».
Sono sette nel 2017 gli appuntamenti che possono cambiare la storia dell’Unione Europea e del mondo.
tIl primo appuntamento è il 20 gennaio. Ci sarà l’insediamento di Trump, arrivato alla presidenza all’insegna dell’attuazione di un programma «America First». L’insediamento di Trump solleva un interrogativo sul futuro della Nato, mettendo in discussione l’articolo 5 del Trattato che concerne l’obbligo della Nato di andare in difesa di un proprio membro che subisca un’aggressione. A ciò si aggiungono gli errori di Obama che hanno trasformato la Turchia in un alleato di Putin che si è inserito con abile spregiudicatezza nell’area medio orientale. L’Europa corre un rischio nella convergenza viziosa tra l’isolamento di Trump e il revisionismo delle frontiere di Putin. Trump è convinto che oggi nel mondo non siano in gioco gli ideali ma gli interessi. È un negoziatore. L’Europa non avrà più l’ombrello degli Stati Uniti. Da Whashington arriveranno pressioni per una linea diversa. Ci sono meno opportunità, ci sono più rischi. D’altronde bisognerà rendersi conto che «non ci sono oleodotti che vanno da Whashington a Berlino, ci sono molti gasdotti che dalla Russia sfociano in Europa.
tIl 15 marzo ci sarà il secondo appuntamento. Si vota in Olanda per le elezioni politiche. Il Partito della Libertà è in testa ai sondaggi. Vuole la Nexit (da Netherland più exit). Il suo leader Geert Wilders insiste sulla condizione identitaria dell’Europa. Attacca l’Islam e vuole il blocco dell’immigrazione. Vuole bandire il Corano, tassare chi porta il velo, vietare la costruzione di moschee.
tIl terzo appuntamento, incerto ma possibile in primavera, riguarda l’Italia. Dopo l’eclatante insuccesso di Renzi al referendum sulla riforma costituzionale, il nostro Paese si troverà ad affrontare il referendum sul Jobs act e probabilmente le elezioni politiche anticipate.
tIl quarto appuntamento sono le elezioni in Francia (il 23 aprile c’è il primo turno, il 7 maggio il secondo). La scelta probabilmente è tra due destre: tra l’ultradestra di Marine Le Pen e la destra dei Républicains di Francois Fillon. La presidenza di Hollande è stata deludente, anzi disastrosa. I risultati economici sono stati miseri. I terrorismo ha colpito duramente la Francia che, non dimentichiamolo, è il più grande serbatoio europeo di foreign fighters. Non va poi sottovalutato l’effetto Trump che si aggiunge ad un clima favorevole dominato dal rifiuto dei flussi migratori e dall’effetto del si al referendum sulla Brexit.
tIl 19 maggio c’è il voto in Iran. Il presidente uscente Hassan Rohani corre dei rischi. È esposto alle critiche del fronte conservatore. Il suo prestigio è diminuito. L’economia iraniana, nonostante la fine delle sanzioni, non riesce a riprendersi e a svilupparsi.
tIl 22 ottobre ci saranno le elezioni in Germania. La Merkel è in difficoltà. Avanza il partito Alternativa per la Germania di Frauke Petry. Ha ottenuto il 20 per cento in Pomerania; il 25 per cento in Sassonia; è presente nei parlamenti di dieci regioni su sedici. Il suo programma è la lotta all’Europa. È contro l’immigrazione. Si propone di trasferire tutti i richiedenti asilo in due isole extraeuropee, una con donne e bambini e una con soli uomini.
tUn’ultima incognita è quella legata allo svolgimento, alla fine di ottobre, del congresso del Partito Comunista Cinese. Ci saranno novità di rilievo nella composizione dell’Ufficio politico del Partito e del Comitato Permanente del Politburo. Il presidente Xi Jnping si è rafforzato ma è ancora in discussione la designazione del suo successore. È evidente che ogni incertezza di stabilità politica avrebbe conseguenze economiche che potrebbero essere particolarmente pesanti soprattutto in Europa. L’Europa è oggi un mercato di 500 milioni di consumatori. Saranno 700 milioni nel 2050. Se guardiamo al Sud, l’Africa, vediamo che nel 2050 avrà due miliardi e trecento milioni di abitanti. È un problema non più rinviabile il governo dei flussi demografici.
«L’umanità–ha scritto Francesco Rutelli–va verso i 9 miliardi di abitanti. I rivolgimenti geopolitici si moltiplicano. Dunque è l’unità che fa la forza. A dimostrarlo sono evidenti le ragioni dell’economia (i Paesi europei membri del G7 sono destinati ad uscire tutti, nei prossimi decenni, da questa graduatoria mondiale) e le ragioni della demografia (a metà secolo un abitante del mondo su 4 vivrà in Africa; la sola Nigeria avrà più abitanti della Ue). Un destino di irrilevanza nella scena internazionale si staglia sulla nostra Europa». Torna di stringente attualità quanto aveva detto l’algerino Boumédiènne nel 1974 dalla tribuna dell’Onu sull’avvenire dell’Europa: «un giorno milioni di uomini lasceranno l’emisfero Sud per andare nell’emisfero Nord. Non ci andranno come amici. Ci andranno per conquistarlo. E lo conquisteranno popolandolo con i loro figli. È il ventre delle nostre donne che ci darà la vittoria».
L’Italia ha pagato un prezzo enorme all’euro. Ha visto ridursi del 10 per cento il prodotto procapite tra il 2008 e il 2016. Nel 2000, anno di nascita della moneta unica, il reddito procapite era superiore del 20 per cento alla media dell’area dell’euro; oggi è sotto la media del 20 per cento; la disoccupazione è al 12 per cento mentre in Germania è al 4 per cento. Insomma - hanno sottolineato in un articolo sul Corriere della Sera - Giorgio La Malfa e Paolo Savona - la Germania ha realizzato con la moneta unica un enorme vantaggio. Ha evitato la rivalutazione della moneta tedesca e ne ha tutelato la competitività. Il cambio fisso invece ha distrutto la competitività dell’Italia e di altri Paesi europei. La moneta unica, in sostanza, ha originato prima e consolidato poi un accordo di cambi fissi che ha imposto ai Paesi in deficit l’onere dell’aggiustamento e non ha richiesto alcun impegno di solidarietà ai paesi in surplus.
Un working paper del CesiFO realizzato nel dicembre 2016 da economiste tedesche (Bettina Bokemeier e Christiane Clemens) ha evidenziato che i criteri di Maastricht impediscono la crescita. L’Italia, in particolare, vede diminuire il suo sviluppo a causa dell’austerità dello 0,21 per cento (la Francia dello 0,20 per cento, la Grecia dello 0,19 per cento ). I vantaggi - secondo le citate economiste tedesche - sono solo per i Paesi con un livello di debito pubblico inferiore al 60 per cento, che riescono ad avere un forte guadagno di crescita, bassa inflazione, cambio stabile e forte integrazione commerciale. L’austerità prodotta dai criteri di convergenza di Maastricht, invece, per i Paesi con debito pubblico superiore al 60 per cento determina prolungati periodi di crescita zero, bassa inflazione e perdita di competitività.
Un interessante studio di Sandro De Toni su «Sbilanciamoci» sottolinea le ambiguità e le contraddizioni della politica di austerità imposta dall’Unione Europea ai Paesi membri. De Toni precisa che non si è proceduto nei riguardi del surplus della bilancia commerciale tedesca che dal 2007 supera il massimale del 6 per cento previsto dalla Mip (Macroeconomic imbalance procedure), né nei confronti della Francia che ha un deficit superiore al 3 per cento oramai da 8 anni, dal fatidico 2008 ovvero dall’inizio della grande crisi. Sforando tale massimale non di poco se si considera che il deficit francese ha raggiunto il 7,5 per cento nel 2009, l’8 per cento nel 2010 e il 6 per cento nel 2011. «Le sanzioni si applicano di fatto ai Paesi minori ma sono problematiche per i grandi Paesi fondatori dell’Unione europea.
Ecco perché la Ue ha inasprito le sanzioni e le procedure. Al Trattato di Maastricht del 1992, si sono aggiunti i regolamenti del six pack (2011) e del two pack (2013). Con essi è stato stabilito, in particolare, l’obbligo per gli Stati membri di convergere verso l’obiettivo il pareggio di bilancio con un miglioramento annuale dei saldi pari ad almeno lo 0,5 per cento, nonché l’obbligo per i Paesi il cui debito supera il 60 per cento del Pil di adottare misure per ridurlo ad un ritmo soddisfacente, nella misura di almeno 1/20 della eccedenza rispetto alla soglia del 60 per cento. Per gli Stati membri che hanno adottato l’euro l’iter prevede degli avvertimenti e, in ultima istanza, delle sanzioni finanziarie, in caso di mancato rispetto delle norme preventive o correttive.»
Si potrebbero teoricamente prevedere delle ritorsioni da parte del Paese sanzionato, in particolare da parte dei Paesi che contribuiscono maggiormente al bilancio europeo. Tale possibilità è stata fatta balenare a suo tempo da Renzi. Anche se le cifre citate da Renzi risultano un po’ eccessive. Il cosiddetto «saldo netto» (la differenza tra i contributi dell’Italia al bilancio Ue ed i fondi ricevuti) è previsto mediamente pari a 3.850 milioni di euro l’anno per il periodo 2014/2020. Diamo, dunque, all’Europa circa 4 miliardi in più l’anno di quanto riceviamo dalla stessa. La flessibilità adottata con la Comunicazione della Commissione del 13 gennaio 2015 è solo «un velo che nasconde in realtà intatti i rapporti di forza politici ed economici» (De Ioanna e Piga - Il Sole24ore).
Si è dunque aperto quello che è stato definito «il mercato delle indulgenze». D’altronde quando sono ben 18 i Paesi con «squilibri eccessivi», com’è accaduto nel 2014, sarebbe forse il caso - osserva Sandro De Toni - di porsi la questione se non siano proprio le regole che sono «eccessive» e sbagliate. Negli anni 2012, 2013 e 2014, la Commissione ha ritenuto necessario procedere all’indagine approfondita nei riguardi, rispettivamente, di 12, 13 e 18 Paesi membri della Ue (tra cui l’Italia). Nel novembre 2014 la Commissione ha identificato squilibri macroeconomici in 16 Stati membri, cinque dei quali registravano squilibri eccessivi (Bulgaria, Francia, Croazia, Italia e Portogallo). Nel 2015, la Commissione ha ritenuto che 18 Stati membri rischiavano di presentare squilibri macroeconomici.
Occorre uno stop alle politiche di austerità con l’obiettivo di promuovere politiche di uguaglianza, di inclusione sociale e di benessere, anche ambientalmente sostenibili. Rebus sic stantibus ci sono pochi segnali che il 2017 sarà meglio del 2016. Il futuro dell’Italia si gioca più all’estero che in Italia. Le stime del Pil per il 2017 si attestano intorno all’1 per cento. Dovrebbe essere almeno del 2 per cento. Il debito pubblico è peggiorato. Ad ottobre è arrivato a 2223,8 miliardi. La flessibilità concessa dall’Europa nel 2016 dovrà essere ripetuta nel 2017. La borsa italiana è la peggiore sui mercati finanziari. La capitalizzazione è scesa dal 34,8 per cento del 2015 al 31,8 per cento nel 2016. Le banche italiane hanno bruciato 33 miliardi di euro di capitalizzazione.
Lo strascico del 2016 dell’effetto banche sarà pesante. Le quattro banche fallite (Etruria, Marche, Carife, Carichieti) non hanno ancora trovato una stabile soluzione. Il meccanismo di ristoro del Governo registra numerose disfunzioni. Si è nel frattempo aggravata la situazione della ex Popolare di Vicenza e di Veneto Banca (hanno fallito l’aumento di capitale). Permane drammatica la situazione del MPS. Manca il lavoro. Le riforme Fornero e Jobs act, non prive di contraddizioni tra di loro, hanno esaurito la loro spinta. Punta dell’iceberg sono 145 storie di aziende in crisi che sono al centro di vertenze che sono in corso al Ministero dello Sviluppo Economico. Almaviva ha licenziato i suoi 1.666 dipendenti chiudendo il call center di Roma. Alcuni altri dati sono emblematici. 55 mila sono i posti in meno nel terzo trimestre tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni. La disoccupazione giovanile non dà tregua. C’è chi un lavoro non l’ha, chi lo cerca, ma anche chi non lo cerca. Secondo un recente rapporto dell’Ocse in Italia ci sono 2,5 milioni di giovani, di età compresa tra i 15 e i 29 anni, che non lavorano e non studiano. Sono i Neet: erano al 19,7 nel 2007; oggi sono al 26,9 per cento; la media Ocse è al 14,6 per cento. Come agire? Come reagire? Il dibattito sull’Europa deve fare un salto di qualità. Non si tratta di fare un salto nel buio. Si tratta di fare un salto nel futuro.
L’Italia ha delle grandi opportunità. Presiederà il vertice dei Paesi maggiormente industrializzati e celebrerà l’anniversario dei sessant’anni della istituzione dei Trattati di Roma. Ha un proprio esponente, la Mogherini, responsabile della politica europea; due italiani parlamentari europei sono candidati unici alla presidenza del Parlamento Europeo (Gianni Pittella e Antonio Tajani); il segretario generale della Confederazione Europea dei Sindacati, Luca Visentini, è italiano. La politica ha perduto il potere di padroneggiare la finanza e la globalizzazione; ora sta perdendo il potere dell’immaginazione. Alla politica le persone chiedono invece di governare con il consenso per assicurare la stabilità senza soccombere alle scorrerie finanziarie. Giuseppe De Rita nel Rapporto del Censis sulla situazione sociale italiana ha affermato che in Italia nel 2016 «una pericolosa faglia si va instaurando tra mondo del potere politico e corpo sociale. È una ferita che ci rende quasi una «società dissociativa, dove i due mondi sopra indicati vanno ognuno per proprio conto, con reciproci processi di rancorosa delegittimazione». Si registra una contrapposizione tra un corpo sociale che si sente vittima di un sistema di casta e una dinamico politica che senza un adeguato collegamento e una mediazione quotidiana preferisce slittare in alto, sottolineare la crisi della classe dirigente, arroccarsi sulla necessità di un rilancio dell’etica e della moralità pubblica.
L’Italia ha perso grandi occasioni. È stato un grave errore trasformare il referendum sulle modifiche istituzionali in una specie di ordalia su Matteo Renzi. Il referendum ha concentrato il dibattito sui problemi di governabilità del Paese. Ha spaccato il Paese. Ha dato luogo ad un confronto astioso, violento, caricaturale. È sembrato una rissa tra ubriachi in osteria. Si sono sentite inverosimili previsioni sull’esito del dopo referendum. Si è dimenticato che le sfide comuni vanno affrontate con strategie sovranazionali, anziché intergovernative. Si è ignorato che i problemi italiani si possono risolvere in un’Europa che affronti con una strategia comune i problemi sociali, i problemi del lavoro, i problemi dei giovani, i problemi dell’emigrazione. In extremis, fuori tempo massimo, si è riaperto il dialogo con le forze intermedie. Meglio tardi che mai. Occorre tenerlo aperto. Darà i suoi frutti.
Occorre agire in Europa. Non basta negoziare sulla flessibilità, occorre spingere con decisione e con autorevolezza per fare passi in avanti comuni sugli aspetti sociali e politici. Il campanello d’allarme che si esprime contro l’Europa in forme diverse nei vari Paesi ha un legame comune, il ritorno al nazionalismo. Occorre capire e interpretare gli umori profondi che si agitano in Europa. Mai come adesso occorre trasformare la protesta in proposta. Mai come ora occorre rinnovarsi. Mai come ora occorre una strategia europea comune. L’Italia deve cogliere questa occasione. Non può ripiegare su se stessa. Deve osare.   

Tags: Gennaio 2017 Europa Unione Europea Giorgio Benvenuto

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