Giuseppe Di Vittorio: il sindacato deve ritrovare unità, autonomia, idee innovative

Giuseppe Di Vittorio era un sindacalista che si occupava dei lavoratori: non si serviva del sindacato. Lo serviva. Così come Sandro Pertini era al servizio del suo partito. Sindacalista forgiato in quella terribile situazione nella quale vivevano i braccianti nell’Italia di allora. «Il sole è diventato rosso e il padrone fa la faccia scura», così al tramonto i braccianti descrivevano la fine della giornata di lavoro e il rammarico del padrone per non poterli sfruttare più a lungo. Ignazio Silone in Fontamara così descrive quel mondo: «Io so bene che il nome di cafone nel linguaggio del mio Paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e di dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore».
E ancora Ignazio Silone per raccontare la realtà contadina di allora ricorda la classifica che fa Michele Zampa, anziano cafone, parlando delle condizioni del lavoro nel Fucino: «In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi nulla. Poi ancora nulla. Poi ancora nulla. Poi vengono i cafoni».
In questo contesto Giuseppe Di Vittorio organizzò i contadini; ricercò sempre uno sbocco ai conflitti; era contrario alle sommosse, alle proteste velleitarie, all’inconcludenza dei rivoluzionari e dei massimalisti. Era un negoziatore, abile, tenace, preparato. Era un sindacalista riformista. Come Bruno Buozzi. Era un autodidatta. Sapeva che per essere veramente liberi bisogna conoscere, occorre sapere.
Ricordare la figura e il pensiero di un grande dirigente sindacale come Di Vittorio non può e non deve essere un semplice atto rievocativo. Può e deve essere qualcosa di più. Si deve incentrare sui temi dell’unità e dell’autonomia, un binomio ormai fondamentale della vita del sindacato nel nostro paese. Quando la connessione fra questi due termini viene meno o si allenta, in proporzione inversa si moltiplicano le difficoltà all’interno del movimento e più faticosa ed incerta diviene l’iniziativa e la capacità propositiva e di lotta del sindacato.
Senza pretendere di sciogliere in questa sede nodi così rilevanti e così presenti e condizionanti nella storia del sindacato, si può, nella rievocazione di un prestigioso dirigente sindacale, trovare dei momenti di attenta e serena riflessione e in questo modo si può far fare un ulteriore passo avanti al già ricco confronto che c’è sempre stato nel movimento sindacale sui problemi dell’autonomia e dell’unità.
Di Vittorio è entrato nel mito, oltre che nella storia, del movimento contadino e operaio del nostro paese e il mito è qualcosa di profondamente diverso da quella sorta d’illusione storica che facilita la semplificazione, se non il travisamento, che spesso rende quasi inaccessibili le biografie di uomini la cui grandezza è indiscussa. Il mito, in questo caso, è rievocazione dell’umano, della semplicità e della straordinarietà di un dirigente che è vissuto sul crinale di una contraddizione oggettiva del movimento operaio e contadino della sua epoca e della sua stessa organizzazione, la Cgil unitaria, una contraddizione fra unità di autonomia, tra socialismo e libertà, una contraddizione che definirei una e duplice. Il mito non è dunque, e nessuno di noi può pensare che sia, chiusura nel ghetto dorato della aproblematicità storica, cioè, in ultima analisi, dell’archiviazione.
Ci sono stati nuovi contributi storiografici, nuovi studi ed indagini, dai quali la figura di Di Vittorio esce ancor più rafforzata nella sua complessità. E proprio questi studi dimostrano quanto fosse ingiusto e riduttivo e probabilmente antistorico il giudizio di Palmiro Togliatti, quando, con una delle sue taglienti sentenze, lo definì più che un uomo politico, un sentimentale, un passionale.
Non credo che si possa generalizzare ed assolutizzare il senso di questo giudizio di Togliatti, ma sono al tempo stesso convinto che, se vogliamo davvero scongiurare il pericolo dell’illusione storica, non possiamo sottovalutarlo. Quel tipo di giudizio era infatti dirimente nella valutazione di Togliatti e tradiva un suo modo di intendere il rapporto tra ruolo del dirigente politico e ruolo del dirigente sindacale. Ed è un giudizio con il quale non possiamo non fare i conti, se di autonomia e unità vogliamo davvero discutere. Non è secondario certamente che la passionalità di Di Vittorio, così fraternamente rimproveratagli dal Segretario del Partito Comunista, vada proprio a toccare, con una prontezza ed una tempestività che oggi ci appaiono eccezionali, nodi fondamentali del confronto politico all’interno della sinistra, allora al centro di un serrato dibattito.
Proprio dal rapporto vitale con i lavoratori, più che da calibrature di una esasperata e quindi astratta razionalità politica, Di Vittorio trasse, negli anni immediatamente precedenti alla sua morte (e sono anni decisivi del movimento comunista internazionale) alcuni fondamentali intuizioni politiche, allora coraggiose, oggi decisive. Alla loro determinazione, alla loro accelerazione, contribuì, e non lo possiamo dimenticare, la vivace dialettica che caratterizzò la vita della Cgil in quegli anni e di cui una componente fondamentale, insieme a quella comunista, era costituita dalla presenza e dal ruolo dei socialisti; e tutto il dibattito sui legami con la Fsm e l’intuizione del Piano del lavoro, che poi venne abbandonata e che vide allora la Cgil non riprendere fino in fondo quella geniale proposizione di Di Vittorio all’epoca della programmazione, un’occasione che forse fu perduta, anche se non va sottovalutata, negli anni del primo centrosinistra, la decisione di astenersi dei parlamentari sindacalisti della Cgil.
Giorgio Napolitano ricorda che Giuseppe Di Vittorio, dopo la divisione sindacale, continuò a credere, sempre, nell’esigenza e nella prospettiva dell’unità sindacale. E a cercare di ritessere il filo del dialogo politico tra tutte le forze democratiche. Napolitano a tale proposito sottolinea che la Conferenza nazionale tenutasi a Roma dal 18 al 20 febbraio 1950, in piena guerra fredda, si svolse in un momento di dialogo davvero impensabile senza l’apporto trascinante di Di Vittorio. Accanto ai comunisti e ai socialisti della Cgil, nel Teatro delle Arti, si ritrovarono i Ministri Pietro Campilli e Ugo La Malfa, Amintore Fanfani e Giorgio La Pira e uomini tra i più rappresentativi dell’università, del mondo della ricerca, del mondo finanziario, della pubblica amministrazione.
«La ricaduta politica–ricorda Napolitano–fu ben visibile nelle decisioni prese poi dal Governo, specie con l’avvio della politica di intervento straordinario nel Mezzogiorno, con l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno, rispetto alla quale, come si sa, l’atteggiamento di Di Vittorio si distinse da quello di netta opposizione del Pci. E quella distinzione si sarebbe mantenuta e ripetuta alcuni anni dopo, quando nel novembre del 1953, al Convegno della Cassa del Mezzogiorno, si annunciò con la relazione del professor Saraceno il passaggio a una politica di industrializzazione. Il consenso espresso in quel convegno da Di Vittorio gli procurò rinnovate critiche in sede di partito: quella che a dirigenti e giovani turchi del Pci di quel tempo apparve come ingenuità o avventatezza politica, era in effetti volontà di apertura, scelta di movimento, contro indubbi rischi di schematismo e rigidità e in risposta a esigenze prioritarie di carattere sociale e sindacale, compresa l’esigenza della ricerca di possibili convergenze unitarie fra le organizzazioni dei lavoratori».
Ma questa dialettica che caratterizzò la vita della Cgil fu molto importante perché, se ambiguità vi era nei rapporti tra partito e sindacato, quella dialettica interna della Cgil, tra le correnti socialista e comunista, contribuì a farla emergere e Di Vittorio si dimostrò leader capace di cogliere e di interpretare l’avanzamento di posizioni politiche e culturali che da esso scaturiva.
Di quel famoso e drammatico 1956 noi attendiamo ancora oggi un ulteriore approfondimento delle ripercussioni che si ebbero nel sindacato per il travaglio dei partiti politici di fronte ai fatti di Ungheria. Di quelle ripercussioni oggi abbiamo ancora una ricostruzione sommaria, per lo più fondata sui fatti ufficiali, ma soprattutto abbiamo una certa condizione di sospensione di giudizio alla quale ha indotto la famosa precisazione che Di Vittorio fece in un discorso a Livorno all’indomani della approvazione del documento della Cgil sui fatti di Ungheria, che differenziò nettamente il giudizio critico della Cgil da quello «comprensivo» del Partito Comunista.
La condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo e di direzione politica che in quel documento veniva sancita venne fortemente attenuata dall’affermazione di Di Vittorio secondo cui essa, in qualche punto, non corrispondeva alle sue convinzioni.
Non sappiamo se quella precisazione fu voluta con convinzione da Di Vittorio o se essa fu invece la conseguenza di quella specie di processo, secondo la testimonianza resa da Antonio Giolitti a Giorgio Bocca, al quale Di Vittorio fu sottoposto nel suo partito per quel documento della Cgil. Possiamo e dobbiamo considerare quella precisazione il frutto di un compromesso, il risultato di un confronto dialettico fra partito e sindacato. Ma nel percorrere quelle vicende l’impressione netta è che in Di Vittorio, nell’uomo e nel dirigente, non vi era ambiguità. Il rapporto di forza tra la componente socialista e quella comunista (del resto differente quella socialista sulla valutazione dell’intervento sovietico in Ungheria) non erano tali nella Cgil, da poter costringere un uomo come Di Vittorio a subire una presa di posizione che in qualche punto (quale se non quello della condanna?) non corrispondeva a quelle che egli definì, parlando a dei comunisti, «le nostre posizioni».
Cosa poteva indurlo ad accettare una simile presa di posizione se non l’intima convinzione che essa fosse giusta e inconfutabile? Quale più significativa prova di razionalità e direi di realismo politico può dare un dirigente di fronte ad una questione di questo genere? È impressionante per la sua nitidezza la distinzione che Di Vittorio, evidentemente su questo punto in disaccordo con la linea del suo partito, seppe fare tra il suo essere militante di un partito politico ed il suo essere dirigente sindacale. Questa, pur con le sue contraddizioni e le sue ambiguità, resta una delle pagine chiave del movimento sindacale.
Il clima di quegli anni purtroppo non consentì alle altre Confederazioni di cogliere il senso del travaglio in atto nella Cgil e di valorizzarne le implicazioni politiche positive. Fu al contrario commesso da esse esattamente l’errore contrario, quello di non distinguere tra le posizioni della Cgil e quelle del Partito Comunista. Non a caso proprio Di Vittorio arrivò a sostenere al congresso del Partito Comunista di quell’anno, l’esigenza che il Pci ponesse in soffitta la teoria leninista della cinghia di trasmissione. Ma il leader della Cgil avrà poi pochi mesi di vita, troppo pochi, per poter portare avanti le sue posizioni anticipatrici.
È difficile oggi valutare in tutta la sua pienezza il contributo che Di Vittorio portò ad una concezione di una unità sindacale che avesse proprio nell’autonomia uno dei suoi fondamenti imprescindibili.
La sua opera coincide, almeno nel dopoguerra, con la fase in cui più forte e pressante, e per tutti i sindacati, è il condizionamento dei partiti; era molto più difficile essere autonomi nell’immediato dopoguerra; la guerra fredda, le incompatibilità che non esistevano tra incarichi sindacali e incarichi politici fanno capire come anche il nostro giudizio storico deve tener conto di quella mutata situazione, della drammaticità della crisi e della ricostruzione.
E, d’altra parte, quella situazione era connaturata ad un processo storico che era avvenuto negli anni del fascismo e di cui già nel ‘24 Di Vittorio mostra di averne piena coscienza. Nel ‘24 egli aveva modo di dire che di fronte all’infuriare della reazione fascista i sindacati in generale erano caduti senza offrire una opposizione efficace.
Siamo appena nel ’24 e il giudizio sulla possibilità per gli stessi partiti di sopravvivere in mancanza di libertà è destinato a diventare sempre più pessimista. Tuttavia Di Vittorio coglie con semplicità un fatto indiscutibile, che avrà la sua verifica nel dopoguerra; se con l’avvento del fascismo i sindacalisti si trovano senza sindacati, con il ritorno della democrazia sono i sindacati a trovarsi senza sindacalisti.
Il sindacato mutua in realtà i suoi gruppi dirigenti dai partiti politici e questo rappresenterà il fragile piedistallo sul quale si edifica il gigante d’argilla dell’unità sindacale del 1944. Non appena, con la rottura della coalizione antifascista, un vero e proprio trauma investe il sistema politico, l’unità sindacale va a pezzi.
Su questo drammatico periodo della vita del nostro paese si è detto e si è scritto molto; tutti i termini ne sono chiari, ma uno più di tutti: l’unità sindacale non si costruisce sulle mediazioni politiche, quale che sia e appaia essere la loro natura.
Molte cose fanno pensare che Di Vittorio ebbe chiara questa convinzione e con lui altri dirigenti della sua e di altre confederazioni che vissero il dramma della scissione e della spaccatura.
Le lotte di quegli anni e degli anni successivi, fino agli anni ’60, dimostrano che man mano che il movimento sindacale autonomo ricostruisce il suo rapporto con i lavoratori - a partire dalle loro condizioni e dalle loro esigenze - di più cresce lo spirito unitario e la stessa possibilità di realizzare più avanzate soluzioni di aggregazione organizzativa. Questo non significa che il sindacato deve rinunciare a portare una forte carica di politicità nella sua azione.
Giuseppe Di Vittorio in tutta la sua vita di sindacalista ha sempre rifiutato disegni pansindacalisti e quelli trade-unionisti. La politicità che in lui possiamo ritrovare come tratto peculiare è, al contrario, la linfa vitale del movimento sindacale, perché essa è costruita su un rapporto diretto e specifico che il movimento sindacale ha saputo sviluppare tra le sue strutture dirigenti e i lavoratori. La capacità del sindacato di darsi una linea confederale e quindi di essere unitario ed autonomo – anche nella rappresentazione dei bisogni più complessivi dei lavoratori, comprese le tematiche della politicità appunto - per Di Vittorio dipendeva essenzialmente da questo rapporto e dalla sua vitalità.
Non c’è dubbio che la crisi economica, con la sua incidenza paralizzante sul sistema politico, attacca proprio su questo versante la potenzialità unitaria del movimento sindacale. Il rischio, sempre crescente, di una divaricazione tra occupati e disoccupati, tra integrazione ed emarginazione, pende, come una terribile spada di Damocle, sul movimento sindacale e sulla stessa democrazia nel nostro Paese.
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