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Le banche vanno salvate, il punto è chi deve salvarle

Massimiliano Dona, segretario generale dell’unione nazionale consumatori

Se per il salvataggio di Banca Marche, Etruria, Carife e Carichieti fosse intervenuto il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, non avremmo avuto gli effetti che adesso vediamo sui portatori di obbligazioni subordinate e sugli azionisti, perché il Fondo si sarebbe fatto carico, con un apporto dell’ordine di due miliardi, dell’intero intervento, senza alcun sacrificio per i creditori delle quattro banche. A dirlo non siamo noi dell’Unione Nazionale Consumatori, ma il capo della Vigilanza di Bankitalia, Carmelo Barbagallo, in un’audizione alla Camera del 9 dicembre. Come direbbe Antonio Lubrano, sorge spontanea una domanda: e perché non lo avete usato? Risposta, sempre di Barbagallo: «Non è stato possibile per la preclusione manifestata da uffici della Commissione Europea, da noi non condivisa». Un vero peccato, direte voi. Tanto più che le stesse banche sarebbero state più soddisfatte. A dirlo il direttore generale dell’Abi Giovanni Sabatini che, pure lui in audizione alla Camera, ha dichiarato: «Lo preferivamo perché l’importo pagato sarebbe stato spalmato e non messo tutto nel bilancio 2015».
La solita Europa cattiva ha compromesso i risparmi degli italiani. Ma in Europa stavolta non sono d’accordo: prima la replica del commissario europeo ai Servizi finanziari e alla Concorrenza, Jonathan Hill, poi la lettera inviata il 19 novembre 2015 dai commissari europei Jonathan Hill e Margrethe Vestager al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, pubblicata dalla Reuters, azzerando le chiacchiere e smentendo la tesi: il Fondo poteva essere usato, e se fosse stato «un puro intervento privato» delle banche, senza soldi pubblici, non sarebbe stato considerato aiuto di stato e non si sarebbe attivata la direttiva Brrd (Bank Recovery and Resolution) del piano di risoluzione e del famoso bail-in.
Certo l’Europa non è esente da colpe. La Direttiva sul bail-in ha qualcosa di perverso: «salvare» le banche separando «good bank» da «bad bank», facendo pagare il costo dell’operazione ai risparmiatori, prima gli azionisti, poi agli obbligazionisti, infine ai correntisti sopra 100 mila euro, non tiene conto di quanto accaduto in passato. Le banche vanno salvate in primo luogo per evitare le corse allo sportello, come durante la crisi del 1929. Una banca non è salva se non si salvano anche i soldi dei suoi clienti, senza i quali un istituto è una scatola vuota.
Semmai il problema è chi deve salvarle. Giusto che i contribuenti vengano coinvolti solo dopo aver percorso altre strade. Ci piacerebbe, però, che a pagare fossero in primo luogo gli amministratori, i sindaci, i revisori dei conti che hanno portato al fallimento dell’istituto, poi le altre banche, per evitare una crisi di sistema. E non sarebbe male se a pagare fossero gli stessi organi di vigilanza che il fallimento dovrebbero prevenirlo, ossia Bankitalia e Consob. Siamo certi che i controlli diventerebbero più seri.
Purtroppo in sede europea, al momento dell’approvazione della direttiva sul bail-in, non ci risulta che gli italiani abbiano fatto barricate contro il varo del provvedimento. Eppure, per una volta, eravamo gli unici ad avere le carte in regola, visto che non avevamo speso per i salvataggi i 238 miliardi della Germania, i 42 dell’Irlanda, i 28 dell’Austria, i 19 del Belgio e così via. Se la volontà politica non è quella di guardare in faccia la realtà ma quella di sostenere che i nostri istituti sono esenti da qualunque rischio, è chiaro che poi ne paghiamo le conseguenze. Quello di considerarsi sempre i migliori nel mondo, nascondendo la polvere sotto il tappeto, è un vizio assai diffuso in Italia.
Che fare ora? È la cosa che ci preme di più. Il Fondo di 100 milioni e l’arbitrato approvati con la legge di stabilità sono sufficienti a risarcire, in modo peraltro parziale, meno di 2 mila obbligazionisti dei 10.559 conteggiati ufficialmente dal Ministero dell’Economia ai fini di un possibile risarcimento. Una miseria, insomma. Tanto più che se non vogliamo far perdere la fiducia dei consumatori nel sistema bancario, non ci possiamo dimenticare degli azionisti. Questi ultimi, infatti, non sono furbetti del quartierino, ma famiglie che, fidandosi del direttore della banca del loro paese, hanno perso i risparmi di una vita, truffati al pari degli obbligazionisti. Una sola via è quella da noi auspicata: un risarcimento totale di tutti i risparmiatori, almeno di quelli retail, non professionali. Con quali soldi? Le possibilità più praticabili sembrano essere l’estensione del Fondo di solidarietà, finanziato dalle banche, o l’utilizzo dei crediti inesigibili delle bad bank, svalutati dell’83 per cento, da 8,5 a 1,5 miliardi, decisamente troppo.
In ogni caso Governo e Parlamento devono modificare gli artt. 5 e 35 del decreto legislativo n. 180 del 16 novembre 2015, togliendo il segreto d’ufficio su tutte le informazioni in possesso della Banca d’Italia per la sua attività di risoluzione e consentendo ai consumatori di poter agire giudizialmente in sede civile contro gli ex vertici delle banche, ossia contro i maggiori responsabili di questa vicenda. Come dire, non volete ridarci i soldi? Almeno consentiteci di provare ad ottenerli per vie legali.  

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