Diventa più difficile ed anche più rischioso amministrare le aziende in tempo di crisi
Si è concluso nella Luiss un innovativo master in Diritto societario al quale hanno partecipato molti giovani giuristi d’impresa ed esperti di diritto commerciale. La struttura del corso e il suo contenuto pragmatico ed essenziale, la sua ottima organizzazione affidati ad un giovane e brillante professionista, l’avvocato Domenico Benincasa, meritano una riflessione. Anche in questo contesto specialistico tra le domande più presentate, come avviene sovente negli incontri con coloro che hanno responsabilità di governo in imprese commerciali, industriali, ovvero produttrici di beni, quella che segue esprime una diffusa preoccupazione: in caso di crisi reversibile dell’impresa, quali regole devo osservare per essere esente da responsabilità?
Per inquadrare meglio il tema da affrontare è opportuno premettere un sintetico accenno storico che pesa nel nostro dna sociale ed economico. Nel corso del primo millennio della nostra civiltà, alla morte fisica per debiti del debitore fallito, è stata, faticosamente e con molta difficoltà, nel corso dei secoli sostituita la morte civile. Se vi trovaste a passare a Padova, andate a vedere la casa comunale dove esiste la cosiddetta «pietra del vituperio» che risale al 1200, dove il debitore che non riusciva a pagare i propri debiti, veniva fatto salire e spogliato dai suoi creditori per essere poi cacciato dalla città; di qui il detto ancora oggi in uso «Sono in mutande».
Solo Sant’Antonio da Padova riuscì a convincere la Reggenza di allora e soprattutto il «Popolo» dei creditori a offrire una «seconda chance» al debitore fallito, lasciandolo uscire dal carcere per essere espulso dalle mura della città; ove poteva far ritorno solo se in grado di soddisfare almeno in parte i propri creditori attraverso, si direbbe oggi, un concordato fallimentare. Sull’imprenditore in crisi, quindi, ha pesato per oltre due millenni il marchio del «fraudator».
Anche la legge fallimentare del 1942, la numero 267, considerava il fallito con severità, inquadrandolo in una cornice di colpevolezza. Dal 2006 in poi si è verificata, invece, una profonda rivoluzione nel nostro diritto fallimentare. Dalla criminalizzazione del fallito siamo passati a valorizzare un altro compito affidato alle procedure fallimentari: il salvataggio dell’impresa se in grado di creare ancora valore. Anche le profonde trasformazioni dei mercati e la possibilità di essere vittime di fenomeni macro-economici hanno messo in evidenza che il fallito non è sempre responsabile del fallimento della propria impresa o, per lo meno, non è il solo.
In questa prospettiva, quindi, dovrebbe essere inserito anche il tema delle responsabilità dell’amministratore di un’impresa in crisi, ma il cammino da compiere è ancora lungo. Che significa crisi dell’impresa? Come si avverte e quali sono i segnali che si manifestano nel periodo di crisi? Certamente una «governance» avvertita può e deve rendersi conto che le cose non vanno bene; quando i costi superano i ricavi; ad esempio quando si manifesta una tensione finanziaria per mancato incasso dei crediti, il cliente più importante ritarda o sospende i pagamenti, pensiamo ai debiti della Pubblica Amministrazione italiana; o, ancora, quando sono stati compiuti investimenti in eccessiva capacità produttiva; quando c’è una riduzione strutturale della domanda dei beni prodotti; quando si fa pressante la necessità di ottenere ulteriori mezzi finanziari; quando aumenta l’indebitamento a breve con i relativi costi.
In sostanza l’impresa entra in un «loop», spesso solo finanziario, dal quale il buon amministratore deve velocemente uscire. Questo è il periodo più problematico per l’imprenditore; la ricerca del suo comportamento virtuoso e dell’efficacia della sua condotta e delle sue scelte sono divenuti oggetto di studio, di approfondimenti e di regolamentazione, perché non esiste una cultura specifica né un corso specialistico, né una disciplina universitaria che prepari il buon amministratore ad affrontare la crisi della propria impresa. In realtà i buoni amministratori si sono formati finora empiricamente, facendo esperienza sul campo.
Infatti, la formazione di un imprenditore, di un amministratore di una società di non modeste dimensioni deve necessariamente essere multidisciplinare; i problemi dell’azienda, del lavoro, della finanza, dei mercati in cui opera, vanno coniugati ed inquadrati correttamente nella loro cornice economica, giuridica, fiscale, previdenziale, bancaria, assicurativa ecc.
La griglia codicistica che il buon amministratore deve tener presente è estremamente ampia, per esempio dall’articolo 1218 del Codice civile, di carattere generale sulla responsabilità del debitore, si passa al terreno del fatto illecito, quindi agli articoli 2043, 2055 per giungere, quindi, alla responsabilità «solidale» di tutte le persone alle quali è imputabile il danno. Il che riguarda tutti gli organi collegiali e quindi tutti i componenti del Consiglio d’amministrazione.
Ed ancora l’intera Sezione VI bis del Codice civile si occupa dell’«amministratore e del controllo» con gli articoli dal 2380 al 2396 che segnano il perimetro delle responsabilità dell’amministratore e del collegio sindacale, con gli articoli dal 2397 al 2409. La vastità di questa area è senz’altro significativa.
Ma, scendendo sul campo concreto delle difficoltà in cui si dibatte l’amministratore di una società italiana, nel periodo che gli inglesi definiscono romanticamente come «twilight zone», che vuol dire «la zona del crepuscolo» ovvero il periodo in cui tutto diventa più incerto, nel quale non si riescono ad individuare bene i connotati del problema perché i problemi sono diversi e si sommano tutti, è bene soffermarsi e far «parlare» due sentenze del Tribunale di Roma emesse in due giudizi in grado d’appello che costituiscono un saggio di come il comportamento degli amministratori viene valutato durante la crisi dell’impresa e del suo salvataggio.
La prima sentenza, del 2011, pur non essendo recentissima, è interessante; riguarda il caso di un amministratore di nuova nomina rimasto in carica pochi mesi prima della dichiarazione di fallimento della società che viene chiamato dal curatore del fallimento a rispondere innanzi al Tribunale di Roma di due fatti specifici: il primo consistente nella omessa, corretta valutazione da parte degli amministratori nel periodo di poco precedente al default, di un ramo di azienda che si stava cedendo. In questo caso la sentenza esclude la responsabilità degli amministratori perché afferma il principio di diritto, consolidato nella giurisprudenza della Cassazione, secondo il quale le scelte gestorie non sono sindacabili a meno che non siano palesemente irrazionali o ingiustificate. In relazione però al secondo fatto gestorio, costituito dall’assenza di documentazione giustificativa dei prelievi effettuati dall’amministratore con delega alle operazioni bancarie sul conto della società, la sentenza imputa la relativa responsabilità a tutti gli amministratori ex articolo 2055 del Codice civile.
Il danno, quindi, pari al totale dei prelievi viene posto a carico non solo dell’amministratore delegato ai rapporti ed alle operazioni di banca, ovvero dell’autore materiale degli storni, peraltro non presente in giudizio perché non citato dal curatore, ma anche di tutti gli altri membri del Consiglio di amministrazione, con la seguente motivazione: «del danno risponde anche il convenuto X per aver omesso di dissentire dalle condotte materialmente poste in essere dall’amministratore delegato nelle forme di cui all’articolo 2392, ultimo comma, che riguarda la responsabilità degli amministratori verso la società». Viene al riguardo richiamato il dovere di vigilanza generale sulla gestione, che dovrebbe tener conto dei limiti derivanti dalle deleghe affidate ai singoli amministratori, ma che in realtà, attraverso il ricorso «all’omesso dissenso», finisce per privare le deleghe di efficacia esimente nei confronti degli altri amministratori estranei alla realizzazione del fatto illecito. Il muro della «solidarietà» ex articolo 2055 rende la responsabilità degli amministratori «transeunte». Del fatto illecito commesso dal delegato risponde così anche l’altro amministratore privo di poteri a riguardo.
Questa «traslatio» delle conseguenze della condotta di uno nei confronti degli altri componenti del Consiglio di amministrazione induce ad una riflessione molto pragmatica. La squadra che governa una società in crisi deve essere costituita da professionalità conosciute e meritevoli di assoluta e reciproca fiducia, perché la solidarietà nella responsabilità è letta secondo il principio: «se non hai dissentito hai omesso di vigilare, quindi sei colpevole come chi ha agito».
E veniamo alla seconda sentenza del Tribunale di Roma, del 2013, che aveva ad oggetto la responsabilità degli amministratori e dei sindaci per non aver controllato che l’aumento del capitale sottoscritto dal socio pressoché totalitario fosse stato effettivamente versato.
Il Giudice così motiva: «Appare del tutto evidente come l’immediato versamento di tale importo nelle casse avrebbe consentito da una parte alla società di riprendere la propria attività (nella specie si trattava di una società che emetteva fideiussioni) e quindi avrebbe evitato il fallimento e, dall’altra, di procedere al pagamento regolare dei creditori». Nella specie l’affermazione del socio di aver versato l’aumento di capitale era avvenuta alle 18,30 di un venerdì e l’impossibilità del controllo immediato preso la banca, da parte dell’amministratore dimissionario e sostituito nella stessa assemblea, non è stato ritenuto dirimente. Come si vede, mala tempora currunt per gli amministratori di società in crisi che, oltre al rischio patrimoniale, subiscono il disdoro ed il grave danno professionale che anche sul piano reputazionale conseguono alla pendenza del giudizio e ai tempi pluriennali della sua durata.
Dal punto di vista economico gli Stati Uniti e l’Inghilterra hanno fatto della tutela degli amministratori un redditizio cavallo da battaglia, un buon asset da difendere, attraverso una normativa più consapevole delle difficoltà che devono affrontare gli amministratori di imprese in crisi. Interi gruppi di società e molte società estere hanno stabilito la loro sede non solo nel Delaware o in altri Stati americani, ma anche a Londra, o in altre città inglesi e non solo nelle «Isole del Canale», perché il sistema giuridico è più favorevole rispetto a quello di altri Paesi. Quindi proteggere gli amministratori, con una normativa adeguata, rendere la loro attività meno vulnerabile determinando con chiarezza i comportamenti rischiosi ma corretti, comporta risultati migliori quanto al salvataggio dell’impresa e rappresenta un buon «business» per l’economia di quel determinato Paese.
Infatti gli amministratori meno preoccupati del giudizio ex post sulle loro scelte imprenditoriali affrontano i rischi, che nel periodo del «crepuscolo» appaiono maggiori, con più ampia libertà di analisi e di determinazioni, sapendo che il sistema normativo e giudiziario del Paese nel quale ha sede l’impresa in crisi è consapevole che l’errore di chi agisce è possibile, ma che la gravità della crisi e gli interventi necessari esigono scelte coraggiose ed operazioni rischiose.
In Italia, di contro, vediamo che gli amministratori migliori invece di avvicinarsi alle imprese in crisi si allontanano, perché i rischi che corrono, specialmente i professionisti provveduti anche patrimonialmente, vengono affrontati in un contesto ancora giudiziariamente ostile; così vengono scoraggiate le scelte rischiose che l’impresa in crisi richiede.
Se il legislatore compie un salto in avanti, rivoluzionando il quadro di riferimento socio-economico che fino ad allora ha caratterizzato le procedure concorsuali, tutto il sistema giudiziario dovrebbe procedere nella direzione così indicata. Il salvataggio dell’impresa in crisi si raggiunge con l’aiuto e l’intervento di buoni amministratori specie se indipendenti, che facciano effettivamente l’interesse dell’impresa e dei suoi stake holders. Essi sono un bene prezioso che non bisogna allontanare né scoraggiare, ma tutelare specialmente ora, quando v’è maggiore bisogno.