LE LEGGI IN ITALIA NON VANNO FATTE, MA VANNO ABOLITE

Il legislatore è diabolico e dissemina molte trappole nel percorso accidentato della Giustizia. Forme legislative anomale e norme incomprensibili costituiscono elementi di confusione per i cittadini che non riescono più ad orientarsi nei meandri della legislazione. Abusi di decreti non condivisi, deroghe non percepibili, leggi-delega senza criteri, commi all’infinito con pochi articoli, pareri e circolari a getto continuo, abrogazioni e reviviscenze, ridondanze e ripetizioni, clausole di stile di invarianza finanziaria: sono solo alcune delle formule astruse e dei testi nascosti per rendere impossibile una qualsiasi intellegibilità delle leggi.
Siamo in presenza di un diluvio di leggi senza alcuna razionalità ed avulse da un contesto organico. Il che rende a dir poco nebuloso il rispetto delle regole sempre più oscure e contraddette da una legge all’altra. L’incertezza legislativa continua a rendere ancora più discrezionale l’attività del giudice che deve interpretare leggi «senza regole» stabili e certe. Peraltro, le sentenze arrivano spesso quando non servono più.
Numerosi commentatori dello stato attuale della legislazione sono giunti alla conclusione, più che ragionevole, che le leggi non vanno fatte ma piuttosto abolite per eccesso. Abbiamo più leggi di tutti i grandi Paesi europei messi insieme. Non c’è stabilità né verità nella legge. Tutto è frutto di un negoziato che scaturisce dal sapere delle apparenze, o meglio dalle apparenze del sapere. La ragione e la verità sono in disuso, ciò che conta è solo figurare ed apparire, far finta di fare. Non ha alcuna importanza cosa si dice e cosa si fa. Discesa, quindi, a picco di valori e di certezze. Una società liquida, senza punti di riferimento. Una legislazione liquida che dice tutto e il contrario di tutto.
Nel tempo dei sofisti ad Atene trionfò una tragedia di Sofocle che celebrava il sacrificio di Antigone, disposta a morire pur di rispettare i propri ideali di giustizia. Ma - secondo i sofisti - Antigone aveva sbagliato tutto, perché aveva presupposto l’esistenza di una giustizia divina ed assoluta. La giustizia non è però una divinità: è quanto di più precario possa esistere, è il risultato di azioni, accordi e decisioni umane. Secondo acuti osservatori, la giustizia è l’utile del più forte, il risultato dei rapporti di forza che attraversano una data società. Viene il sospetto che nel nostro Paese non si faccia funzionare la giustizia per non ribaltare il rapporto di forza e continuare a perpetuare impunità e disuguaglianze.
Mario Barbuto, eccezionale magistrato e organizzatore del lavoro dei giudici, sta tentando, con un accorto monitoraggio, di accertare lo stato (di decozione) della giustizia. Dall’indagine del Ministero è emerso l’andamento claudicante della giustizia civile che ha rivelato notevoli difformità negli uffici giudiziari. L’indagine si è rivolta anche al settore penale, con risultati ancor più negativi. Sulle spalle delle procure e dei tribunali si abbattono montagne di fascicoli con spaventosi vuoti di organico. Nel 2013 sono state avviate indagini per 4,5 milioni; di queste, 950 mila sono contro ignoti, mentre 3,5 milioni riguardano processi con imputati noti. Il 17 per cento di tali procedimenti sono in fase di indagine preliminare da oltre due anni, il 6,8 per cento pende davanti al gip, il 20 per cento davanti ad un giudice monocratico e il 27,9 per cento davanti al collegio. Si tratta del primo grado. Per il secondo grado occorrono in media 35 mesi per smaltire i processi. Si tratta di tempi lunghissimi, con un arretrato penale che soffoca la giustizia.
Con una certa baldanza il Ministero della Giustizia continua a «proclamare» progressi nella giustizia (che non esistono). In realtà la situazione dell’organizzazione giudiziaria è ben diversa e non si contano più gli uffici intasati che funzionano male o non funzionano. In una recente indagine sono stati bocciati ben 75 tribunali. E il Lazio è al primo posto nella negatività. Civitavecchia è al 19esimo posto delle peggiori prestazioni nazionali. Latina al 20esimo, Cassino al 40esimo, Frosinone al 44esimo, Velletri al 54esimo, Viterbo al 60esimo, Tivoli al 66esimo, Rieti al 67esimo posto. Il Foro di Roma figura penultimo tra i 16 rientranti nella media.
Nei 139 Fori italiani esistono quasi 590 mila procedimenti pendenti in Tribunale con anzianità superiore a 3 anni e oltre 70 mila pendenti da più di 8 anni. La media delle cause di successione supera i 6 anni. Seguono 1.568 giorni di media per le responsabilità extracontrattuali, 1.451 per i diritti reali, 1.269 per i contratti e le obbligazioni, 1.140 per la previdenza obbligatoria, 1.022 giorni per i contenziosi sui contratti bancari.
A Latina l’Ordine forense ha denunciato che la situazione è al limite del collasso e si rischia un’irreversibile paralisi dell’attività del Tribunale. Siamo allo sbando nel nuovo Tribunale di Napoli-Nord. Sono state registrate carenze del personale di Cancelleria dell’80 per cento. Non si può andare avanti così. Vengono sicuramente vanificate le indagini ambientali condotte nel territorio. Se non c’è un ufficio giudiziario che funzioni, le verifiche giudiziarie rischiano di essere annullate, ma vengono anche pregiudicati altri processi e procedure. A Napoli-Nord il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati non può intervenire perché non è stato ancora eletto per il dichiarato annullamento del regolamento elettorale. Ci si chiede perché è stato istituito questo nuovo Tribunale se poi non funziona.
In generale la situazione di precarietà è diffusa in tutto il territorio nazionale: rinvii dei processi, lungaggini giudiziarie, blocco di udienze, insufficiente informatizzazione, processo telematico fatiscente, risorse mancanti, promesse non mantenute. La revisione della geografia giudiziaria non ha funzionato almeno al 50 per cento. Vediamo solo la cortina di fumo della politica che vanta risultati positivi per la giustizia che non si vedono.
Anche il processo telematico è sotto accusa. Manca il coordinamento tra il Codice di procedura civile e tutta la normativa specifica che è stata introdotta sul processo telematico. Si applicano, inoltre, prassi discordi nei diversi uffici giudiziari avallate da centinaia di protocolli male armonizzati e incoerenti. A ciò si aggiungano gli spinosi problemi in tema di supporto informatico, assistenza alle cancellerie, gestione del software. È stato introdotto un sistema digitale complicato, dispendioso e in alcuni casi inattuabile.
In attesa di sistemare bene le cose, sarebbe necessario sospendere l’attuazione del processo telematico, oppure consentire alternativamente l’atto cartaceo o l’atto telematico, a scelta della parte. Il processo civile telematico è ancora schiavo della carta. Questa asserzione è esatta e veritiera sia perché il processo medesimo ha riguardato solo fasi limitate del giudizio, sia perché i giudici e le cancellerie trovano difficoltà a leggere e scaricare gli atti telematici. Di qui il deposito delle contestate «copie di cortesia». Le criticità riguardano, poi, strumenti ed assetti informatici ma anche prassi discontinue e contrastate. Qualche giudice è impazzito e sta cominciando a dare sciabolate a destra e a manca.
La mediaconciliazione, vantata come la panacea di tutti i mali, è clamorosamente fallita. Le Camere di conciliazione si sono ridotte sensibilmente. Sono rimaste pressoché quelle istituite dagli Ordini forensi e dagli altri Ordini professionali che scaricano i costi sugli iscritti agli albi. Il fallimento della mediaconciliazione è sotto gli occhi di tutti. Su 100 mila procedimenti obbligatori non sono più di 2-3 mila le mediazioni realizzate, per lo più per effetto dell’opera conciliativa diretta degli avvocati. In Italia sono presenti 12.597 mediatori in gran parte disoccupati. Gli organismi iscritti al registro tenuti dal Ministero della Giustizia sono passati dagli oltre mille a poco più di 300 attualmente registrati nel nuovo albo istituito dal Ministero.
Intanto le mediazioni andate a buon fine sono crollate e in alcune regioni non si vedono più. L’Avvocatura ha sempre contestato la pretesa utilità della media conciliazione obbligatoria ed oggi ha avuto pienamente ragione. Solo il Ministero non vuole vedere il fallimento accertato di un istituto stragiudiziale che era stato falsamente prospettato come rivoluzionario e risolutivo. Non si comprende, quindi, perché il ministro della Giustizia non interviene per l’immediata abrogazione dell’obbligatorietà.
Ma c’è qualcuno che non si vuole arrendere alla cruda verità. Un giudice in Lombardia, dopo aver tentato la conciliazione giudiziale con l’interrogatorio libero, ha disposto la mediazione che ha considerato effettiva e non limitata ad un semplice incarto formale tra i soli legali delle parti. Dopo, non contento, ha disposto l’arbitrato forense: più che una ordinanza si tratta di un «accanimento» giudiziario di un giudice che forse non intende stilare una sentenza.
I ritardi della giustizia sono macroscopici e gli indennizzi della legge Pinto superano i 300 milioni di euro. Per liquidare gli importi determinati in via giudiziaria si è ricorso alla Banca d’Italia che darà una mano al Ministero della Giustizia per definire le procedure di pagamento a chi ha subito un giudizio di durata irragionevole. In base all’accordo intervenuto, l’istituto di via Nazionale svolgerà le attività preparatorie per il pagamento delle somme riconosciute agli aventi diritto. La collaborazione consisterà nella compilazione delle minute dei titoli di spesa da mandare alla firma del dirigente del Ministero.
In particolare la Banca d’Italia contatterà il legale del creditore per ricevere le informazioni necessarie per il pagamento; effettuerà il calcolo dell’importo da versare distinguendo capitale, interessi e spese legali. In tal modo, la Banca d’Italia sostituirà la farraginosa e inconcludente burocrazia del Ministero, spendendo risorse, ma non procedendo all’anticipazione di somme.
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