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Jobs Act. Quei tasselli che mancano ai decreti applicativi

Tiziano Treu, ex ministro del Lavoro e della Previdenza sociale

 Le competenze sul lavoro ripartite tra Stato e Regioni costituiscono un punto critico del nostro ordinamento

 

I decreti applicativi del Jobs Act sono stati tutti approvati dal Consiglio dei ministri entro i termini previsti. Questa tempestività è lodevole perché finora non è stata una prassi abituale.

 

I decreti applicativi del Jobs Act sono stati tutti approvati dal Consiglio dei ministri, entro i termini previsti. Questa tempestività è lodevole, perché finora non era una prassi abituale. Così ora abbiamo un quadro completo del disegno del Governo, anche se per l’approvazione degli ultimi decreti occorrerà aspettare il passaggio parlamentare. Ma è bene sottolineare subito che le varie disposizioni del Jobs Act rispondono a una logica unitaria che si ispira alle linee europee della flexicurity. Quindi vanno analizzate e valutate nel loro assieme. Le forme di flexicurity attuate in Europa presentano alcune varianti, ma hanno in comune un’idea fondamentale. I moderni mercati del lavoro richiedono a imprese e lavoro più flessibilità; questa, per essere socialmente sostenibile, deve però essere accompagnata da istituti di sicurezza in grado di sostenere i lavoratori nei momenti di inoccupazione e nel contempo di aiutarli a transitare dall’occupazione che hanno perso ad altri lavori.

 

 Nel recente passato l’Italia ha seguito solo in parte tali indicazioni europee e ora, con molto ritardo, il Jobs Act intende darvi attuazione.

 

 La parte più controversa della legge è quella che riguarda la flessibilità in uscita, che cambia le regole del licenziamento, emblematizzate dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Tale modifica, dopo anni di discussioni, supera la reintegrazione come rimedio generale al licenziamento ingiustificato. La scelta è netta nel rendere marginale questo rimedio, limitandolo ai casi di licenziamento discriminatorio, nullo e ai casi dove il fatto imputato al lavoratore non esiste. In tal modo il legislatore ha voluto superare o ridurre di molto le incertezze interpretative presenti anche dopo la legge Fornero, che aveva cambiato la vecchia regola dell’articolo 18, ma lasciando ampio spazio a controversie applicative. Il Jobs Act riduce non solo la discrezionalità del giudice ma anche il ruolo dei contratti collettivi nel graduare le sanzioni applicabili alle mancanze del lavoratore escludendo la regola della proporzionalità.

 

In tal modo i licenziamenti ingiustificati restano sanzionabili di regola solo con indennizzi monetari, come è nella maggior parte degli ordinamenti europei. La flessibilità in entrata è stata oggetto di diversi interventi negli anni recenti, dal 1997, quando la legge 196 ha reso legale anche nel nostro Paese il lavoro interinale, al 2003, quando la legge Biagi ha introdotto varie forme di lavoro cosiddetto atipico, a cominciare dai co.co.pro.

 

Il Governo Renzi ha agevolato il ricorso a una delle forme principali di accesso all’impiego - il contratto a termine - superando la necessità della «causale» giustificativa che è stata fonte di una gran mole di contenzioso; e previsto solo due limiti quantitativi; tale contratto ha la durata massima di 36 mesi e il tetto del 20 per cento dell’organico. Nello stesso tempo ha modificato la convenienza a favore del contratto a tempo indeterminato con la normativa sul contratto cd a tutele crescenti e con le forti agevolazioni previste dalla legge finanziaria del 2015 (legge 190/2014). Così sono stati introdotti nel nostro sistema due elementi che rendono competitivo il contratto a tempo indeterminato, nella nuova versione a tutele crescenti, rispetto al contratto a termine e persino all’apprendistato: la consistente riduzione di costi e la modifica della disciplina di licenziamento, con il minore rischio per il datore di lavoro di vedere reintegrato il lavoratore licenziato ingiustificatamente.

 

Tale cambio di convenienze dà per la prima volta un valore effettivo alla dichiarazione, presente in molti testi legislativi italiani ed europei, che definisce il contratto a tempo indeterminato come il tipo normale, o prevalente, di rapporto di lavoro. Gli equilibri fra i diversi contratti di lavoro sono stati ulteriormente cambiati col decreto cosiddetto sul riordino dei tipi. Il decreto opera una limitata semplificazione di questi tipi, intervenendo solo su quelli marginali, come l’associazione in partecipazione e il job sharing. Il lavoro intermittente è confermato e l’ambito del lavoro accessorio viene ampliato, avvicinandolo ai mini jobs dell’ordinamento tedesco. Sono due tipi contrattuali utili a rispondere a specifiche domande di lavoro e che possono fare buona prova se correttamente controllati, anche usando strumenti di tracciabilità elettronica per evitare abusi.

 

L’innovazione più importante riguarda le collaborazioni. Il decreto non si limita a superare il contratto a progetto, ma ridefinisce il confine fra le collaborazioni e il lavoro subordinato. Il decreto allarga l’ambito della disciplina di questo, prevedendo che «la disciplina del rapporto di lavoro subordinato si applichi anche in rapporti che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro».

 

Al tradizionale criterio dell’etero-direzione si sostituisce quello, più attuale, della etero-organizzazione. Combinando l’allargamento della fattispecie con le convenienze economiche e normative del contratto di lavoro a tutele crescenti, il legislatore ha perseguito l’obiettivo di attrarre in questo contratto gran parte delle collaborazioni a progetto, quelle rivelatesi di dubbia natura autonoma. I primi dati indicano che il numero delle varie collaborazioni si è progressivamente ridotto: secondo le stime di M. Leonardi sono almeno 200 mila in meno rispetto al 2011. Analogamente si rileva un incremento dei contratti a tempo indeterminato rispetto a quelli a termine. Nei primi quattro mesi del 2015 le assunzioni a tempo indeterminato sono state 665.962 mentre nello stesso periodo del 2014 erano 474.341. Le collaborazioni nei primi quattro mesi del 2015 si sono ridotte a 196.602 mentre nello stesso periodo del 2014 erano 224.807.

 

Semmai va segnalato un elemento critico: cioè che il superamento dei contratti a progetto previsto dalla nuova normativa evidenzia un vuoto di disciplina per quelle collaborazioni che non confluiscono nel lavoro subordinato; il che accresce l’urgenza di tutelarle con una normativa specifica. In realtà è l’intera area delle collaborazioni che va riconfigurata e riregolata per tenere conto delle profonde trasformazioni intervenute nei lavori subordinati e autonomi dai lontani anni dell’art. 409 c.p.c., che rendono del tutto inadeguata tale norma e le indicazioni interpretative della giurisprudenza in proposito.

 

È prevedibile che il criterio adottato per identificare l’ambito applicativo delle disciplina del lavoro subordinato solleverà rinnovate controversie applicative sui criteri individuatori del tipo e, quindi, sulla portata dell’allargamento dell’area del lavoro dipendente. Anche per ridurre i margini di incertezza qualificatoria, la versione finale della norma ha opportunamente previsto che le parti chiedano alle Commissioni di cui all’articolo 76 del decreto 276/2003 la certificazione dell’assenza dei requisiti che possono attrarre le collaborazioni nell’area del lavoro subordinato, in particolare di quelli che individuano l’etero organizzazione. Tale previsione può fornire alla certificazione un’ulteriore occasione per esercitare la sua funzione di accertamento qualificatorio in questa materia, offrendo alle parti una sia pur relativa certezza. La tenuta di questa funzione dipenderà dal rigore e dall’autorevolezza dei certificatori, che ci auguriamo siano sempre più presenti.

 

Sono state invece confermate nel decreto finale, le eccezioni alla normativa generale, già previste nella prima versione; in particolare le collaborazioni prestate nell’esercizio di prestazioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi; l’attività svolta nell’esercizio della loro funzione dai componenti di organi di amministrazione e controllo delle società e dei partecipanti a collegi e commissioni (categoria quest’ultima indicata alquanto genericamente); le prestazioni rese istituzionalmente a favore di associazioni sportive dilettantistiche. Quanto al potere riconosciuto alla contrattazione collettiva di definire la fattispecie e la relativa disciplina si è opportunamente precisato che tale potere spetta ai contratti nazionali di categoria e non ai contratti di livello confederale, come si era impropriamente indicato nella prima versione (le confederazioni non esercitano normalmente poteri contrattuali).

 

La norma ha l’obiettivo di fare salve collaborazioni già regolate dalla contrattazione collettiva, sottraendole così all’attrazione del nuovo ambito allargato di applicazione della disciplina del lavoro subordinato. Ma non esclude che la stessa contrattazione possa individuare tipi di collaborazioni da ricondurre invece all’area del lavoro subordinato, come finora è avvenuto (ad esempio per gli addetti ai call centers), anche a prezzo di rinunce nei trattamenti economici.Una norma importante introdotta nel corso dei lavori ha riguardato la cosiddetta flessibilità funzionale, riguardante la possibilità di gestire con maggiori margini di libertà le posizioni di lavoro, in particolare le mansioni nel corso del rapporto.

 

Misure simili di flessibilità funzionale sono state adottate in vari Paesi, a cominciare dalla Germania, perché ritenute in grado di aumentare la capacità delle imprese di rispondere agli shock esterni, variando l’impiego del personale invece che ricorrendo all’uso di contratti a termine e/o alla riduzione del personale.

 

 La particolarità del nostro caso è che il legislatore per promuovere la mobilità organizzativa, ha dovuto superare i rigidi limiti posti allo jus variandi del datore di lavoro dallo storico articolo 2013 del Codice civile, ampliando la possibilità di modifica delle mansioni del lavoratore e della sua retribuzione. Nel nostro sistema permangono invece ancora rigidità nei regimi degli orari anche se il Jobs Act ha reso più facili variazioni dei tempi nel caso di part time.

 

Il secondo versante della flexicurity, quello riguardante gli istituti di sicurezza, è sempre stato debole nel nostro ordinamento, sia perché gli ammortizzatori sociali hanno a lungo escluso dalla protezione intere categorie di lavoratori, prevedendo invece tutele prolungate nel tempo per altri casi (le CIGS pluriennali e quelle in deroga e le indennità di mobilità), sia perché le politiche attive del lavoro, in particolare i servizi di placement, sono sempre stati carenti.

 

Il Jobs Act riequilibria il sistema degli ammortizzatori estendendo in direzione universalistica la indennità di disoccupazione (NASPI) e riducendone entro tempi definiti la tutela delle CIG, oltre che ridimensionarne i costi (per chi non la usa effettivamente).

 

È previsto un rafforzamento dei servizi all’impiego con l’istituzione dell’Agenzia nazionale del Lavoro competente per il coordinamento del sistema e per la definizione degli standard di servizio da rispettare. Un punto critico del nostro ordinamento deriva dal fatto che le competenze del lavoro sono ancora ripartite fra Stato e Regioni; il che ha contribuito a indebolire la funzionalità e l’omogeneità delle politiche attive del lavoro. La versione attuale dell’Agenzia nasce con poteri limitati da questa concorrenza di competenze, che peraltro la riforma costituzionale si propone di superare ricentralizzando nello Stato tutti i poteri in materia.

 

Resta da vedere cosa l’Agenzia potrà fare in attesa di assumere pieni poteri gestionali all’indomani della riforma costituzionale. Questo è ancora un tassello mancante della riforma del mercato del lavoro attuata dal Jobs Act. È un tassello da riempire al più presto perché politiche del lavoro efficienti sono essenziali per bilanciare gli interventi passivi degli ammortizzatori, contenerne i costi e compensare la tutela del singolo posto di lavoro, in sé esposta a precarietà, con sostegni dinamici sul mercato che aiutino chi perde il lavoro a trovarne un altro.                                       

 

Tags: Luglio Agosto 2015

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