RICERCA IN ITALIA: poca, ma buona e vincente (e da sostenere)

I dati sulla «dimensione» della ricerca in Italia parlano chiaro. Innanzitutto, siamo il Paese in Europa che ha il numero più basso di ricercatori, 151 mila contro i 520 mila della Germania e i 429 mila del Regno Unito. Già nel 2013 i ricercatori italiani rappresentavano poco più dell’1 per cento della comunità scientifica mondiale (costituita, secondo l’Unesco, da oltre 7,3 milioni di ricercatori a tempo pieno). Secondo l’Ocse, nel 2011 il numero di ricercatori italiani era pari a un quarto di quello della Finlandia. Quindi, siamo (e si sa bene) un Paese che non svetta per spesa in ricerca e sviluppo. Secondo l’ultimo rapporto di Observa «Annuario Scienza Tecnologia e Società 2015», l’Italia investe nella ricerca scientifica soltanto l’1,3 per cento del prodotto interno, ben al di sotto della media dei Paesi Ocse e dell’Unione Europea (superiore al 2 per cento) e piuttosto distante dai livelli di Finlandia, Svezia e Germania (oltre il 3 per cento).
Il combinato disposto di questi due fattori non sembrerebbe giocare a favore della ricerca italiana. Eppure, analisi più composite dimostrano che l’esiguo popolo devoto alla ricerca scientifica ha progressivamente migliorato la propria performance, nonostante la forte competizione proveniente da Paesi come Cina e India e, soprattutto, nonostante l’esiguità delle risorse stanziate. Fatto ancor più importante è che il miglioramento non è riconducibile alla quantità, bensì alla qualità. Ecco dunque la stupefacente singolarità del caso italiano: malgrado i numeri esigui e gli investimenti scarsi, i ricercatori italiani sono tra i più produttivi al mondo e fanno una ricerca di (alta) qualità.
Soltanto un anno fa un articolo di Nature, prestigiosa rivista scientifica internazionale, ha evidenziato che tra il 2002 e il 2012 la qualità media degli articoli scientifici redatti da ricercatori italiani, misurata attraverso il numero di citazioni, è costantemente aumentata. I ricercatori italiani sono dunque «efficienti»? L’International Comparative Performance of the UK Research Base 2013 - rapporto di Elsevier sviluppato per conto del Governo britannico - ha fornito fondamentali evidenze per spiegare il «caso italiano». Secondo il rapporto, basato su dati Ocse, Scopus e World Intellectual Property Organization (Wipo), in proporzione alle modeste risorse pubbliche e private investite in ricerca e sviluppo, la qualità della ricerca scientifica italiana raggiunge altissimi livelli.
La grande produttività della nostra ricerca si ricava in base al dato sul numero di articoli pubblicati e sul numero di citazioni per ricercatore: è il più alto fra tutti i Paesi presi in esame, tanto che nel rapporto citato si ipotizza una sottostima del numero dei ricercatori italiani. In particolare, l’Italia occupa la terza posizione per il valore registrato dal Field Weighted Citation Impact (FWCI) che attesta l’elevato livello della produzione scientifica italiana, in ambito nazionale e internazionale. Inoltre, è significativo anche il numero di startup e spin-off, in rapporto alle risorse impegnate, apparendo il risultato della determinazione con cui negli ultimi anni si sta perseguendo l’obiettivo di valorizzare i risultati della ricerca scientifica, anche attraverso le attività di Terza missione delle Università.
E ancora, per citare altri rapporti che parlano della qualità della ricerca italiana, il rapporto «The world’s most influential scientific minds 2014» redatto da Reuters mostra che all’interno della classifica relativa ai 3.200 ricercatori con più citazioni in lavori scientifici nel periodo 2002-2012, basata su InCites (uno strumento di ricerca online sviluppato per determinare il numero di citazioni per ricercatore, il numero di articoli pubblicati e la rilevanza degli articoli scientifici per le ricerche del settore), gli italiani presenti sono 55 (tra i quali solamente 5 donne).
Bel risultato: peccato però che i nostri 55 rappresentino meno del 2 per cento delle migliori «minds» del mondo. Insomma, i ricercatori italiani sono pochi, ma fra i più produttivi e citati nel mondo. E questo è paradossale: è come dire che facciamo di più con meno. Si pongono pertanto due questioni strettamente correlate: una che attiene (nuove?) vie da percorrere per il finanziamento della ricerca, la seconda che riguarda un problema «generazionale».
La prima questione, fondamentale, può essere riassunta nella seguente domanda: come sostenere la (buona) ricerca in Italia? Ebbene, ci sono Paesi europei dove non esistono dubbi se investire in ricerca e sviluppo o considerare ciò un costo eccessivo o una spesa da tagliare. Pensiamo all’Europa del Nord. Da anni, invece, in Italia si discute sui possibili modelli e strumenti da adottare. E nel frattempo non abbiamo costruito una forte e incisiva politica per la ricerca, al contrario di quanto è accaduto ad esempio in Olanda. Oggi, in una fase storica così delicata, in cui alle difficoltà dell’economia e ai tagli delle fonti nazionali di finanziamento della ricerca si sommano anche i tagli ai bilanci degli Atenei, pare ancora più arduo individuare un «canale» di finanziamento differente dalle risorse stanziate dall’Europa.
Ma anche laddove le risorse europee sono di sostegno... spesso non si riesce ad evitare l’ennesima «fuga». L’Italia nel 2013 è stato il Paese dove è stato vinto il più alto numero di grants Erc (European Research Council). Eppure, dei 46 giovani, solo 20 hanno deciso di usare questo finanziamento nel nostro Paese. Gli altri 26 hanno deciso di andare a spendere la sovvenzione altrove. In nessun altro Paese si è verificato questo! All’origine di tale anomalia italiana vi è, tra le altre, la mancanza di condizioni ideali di tassazione.
A gennaio 2015 sono stati pubblicati i progetti vincitori degli starting grants Erc 2014. Gli enti italiani ospitano soltanto 11 dei 328 progetti (ossia il 3 per cento) giudicati meritevoli di ricevere questi importanti finanziamenti. Dal 2007 a oggi, pur essendo state numerose le proposte progettuali avanzate da enti e università, il tasso di successo dell’Italia è stato il più basso, tra i Paesi paragonabili per reddito e popolazione. Per citare un solo caso: l’Università di Tel Aviv (con 12 progetti) fa - da sola - meglio dell’Italia.
Il dilemma si complica se andiamo a considerare il rischio insito nella ricerca: «quale» ricerca sostenere? Una ricerca di grande «impatto», i cui ritorni sembrano più certi (certificati), o una ricerca in settori di nicchia o emergenti, della quale non si conosce il grado di redditività o il tasso di successo? In un periodo di vacche magre, la scelta della prima categoria appare certamente la più prudente, minimizzando la rischiosità di un investimento per sua stessa natura incerto (e non di sicura «aziendabilità»).
Eppure questa prima scelta, pur «pagando», vanifica a priori le potenzialità di progetti innovativi e in campi inesplorati della scienza. Ancora: questa prima scelta pesa sul destino scientifico di giovani ricercatori (magari bravi, ma poco noti, per quella sorta di regola definita dall’Economist nell’ottobre 2013 «publish or perish»). La seconda questione (generazionale) ha a che fare con quella sorta di «interdizione» che Università e, in genere, mondo della ricerca paiono dimostrare nei confronti di chi è al di sotto dei 40 anni. Con particolare riferimento all’università italiana, scrive Gian Antonio Stella sul Corriere.it del 22 gennaio 2015: «I docenti ordinari sotto i 40 anni sono una rarità. Nessun professore ne ha meno di 35. L’età media è di 60. Le donne sono soltanto il 36,5 per cento. È inaccettabile che, su 51.807 docenti di ogni ordine e grado, gli ‘over 60’ siano il triplo (24,8 per cento) di quelli sotto i 40. Scesi all’8,8 per cento».
Il problema generazionale emerge in modo ancora più evidente se si considera che, a causa del blocco del turn over, nel 2014 l’Università italiana ha perso quasi 2.200 unità tra docenti e ricercatori. Di fronte ad oltre 2.300 pensionamenti, sono stati attivati solamente 141 ricercatori di tipo B, con ciò facendo riferimento a coloro che possono essere stabilizzati dopo 3 anni. Di fronte a ciò, più volte - e senza successo – i rettori delle università italiane hanno chiesto un piano straordinario di reclutamento di giovani ricercatori (almeno 1.500 all’anno per 5 anni), nella convinzione che solo in questo modo sia possibile fermare l’emorragia iniziata nel 2009. L’università produce ogni anno 10 mila nuovi dottori di ricerca, ne assorbe 700 (meno del 10 per cento), perché è bloccato il turnover. E questa non è efficienza! Di qui un’amara conclusione: meno ricercatori, meno progetti; meno progetti, meno risorse. Con il conseguente inasprimento della competizione tra ricerca di serie A (nota, di eccellenza «certificata», citata e sperimentata) e di serie B (innovativa, allo start, di nicchia, indeterminata).
Occorre pertanto impegnarsi (ingegnarsi?): il Governo con un piano straordinario, gli Atenei con le proprie forze (anche creativamente). In questo senso, credo sia opportuno citare l’esempio dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata: con coraggiosa fermezza abbiamo lanciato lo scorso anno il progetto «Uncovering excellence», con l’obiettivo non solo di favorire le idee della componente più giovane e meritevole dell’Ateneo, ma anche di stimolarne la collaborazione (interdisciplinarietà).
È la prima volta che l’assegnazione dei finanziamenti per la ricerca scientifica di Ateneo avviene attraverso un processo di revisione esterna che garantisce imparzialità e obiettività, con una squadra di esperti valutatori selezionati dall’Anvur. Ben il 24 per cento dei progetti presentati dai ricercatori è stato ammesso al finanziamento: a testimonianza della serietà della valutazione e della qualità delle ricerche condotte in Ateneo in tutte le discipline. Questo modello è stato da molti già apprezzato per originalità e rigore metodologico: il mio auspicio è che possa essere una prima «best practice» per future iniziative a favore della ricerca in Italia.
di Giuseppe Novelli
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