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segretari comunali: da difensori dei cittadini a «bodyguards» di sindaci

Nella foto, la veduta di un Comune, in provincia di Roma e a stretto confine con la città: al segretario comunale da lui stesso scelto in ben due elezioni, e quindi per dieci anni filati, il sindaco ha affidato non solo le cariche di segretario e di direttore generale del Comune, ma addirittura la dirigenza di ben 6 Dipartimenti nonché quella di dirigente dell’attività anti-corruzione

Nella mia rassegna delle leggi di riforma che dal 1990 in poi hanno stravolto l’onesta impostazione giuridico-legislativa pre-esistente per evitare a governanti, politici e amministratori ladri di ricadere in una seconda «Mani Pulite», ossia in una maxi-inchiesta della Procura della Repubblica del Tribunale di Milano, nello scorso numero di Specchio Economico ero giunto a parlare dell’abolizione, avvenuta a partire appunto dalla legge numero 142 di quell’anno, e via via modificata, estesa, attuata, di tutti i controlli compiuti antecedentemente da Comitati regionali, Segretari comunali e provinciali e Prefetti su amministratori e Pubbliche Amministrazioni. Organi questi ultimi, e in particolare i segretari comunali e provinciali e i prefetti, un tempo seri, preparati, ideali ed essenziali per assistere gli amministratori e in particolare i sindaci nello svolgimento dell’attività amministrativa, i cui meccanismi giuridici e legislativi gli amministratori «eletti» potevano anche ignorare in quanto custodi della democrazia e del diritto, ma non certo della conoscenza tecnica del relativo inestricabile ginepraio di norme.
Ma come potevano continuare ad andare d’accordo i segretari comunali con i sindaci e in generale con gli amministratori comunali, se dovevano impedire a tutti costoro, indicando le leggi in vigore, non solo gli errori involontari ma soprattutto le deviazioni volontarie, capziose, interessate? Quindi non solo gli atti «extra», ma soprattutto quelli «contra» la giustizia e i diritti dei cittadini. Ma, mentre era facile mettere fuori gioco, neutralizzare i membri dei Co. Re. Co., come fare fuori i potentissimi segretari comunali e provinciali e i severissimi ed inflessibili prefetti? Non era preferibile ricorrere al solito sistema italiano di riformare tutto per non cambiare nulla, anzi addirittura per servirsi ancor più dei loro difetti e servigi, per aumentarli, acuirli, affinarli, potenziarli?
Non era preferibile che, continuando ad affiancare i sindaci, anziché difendere le istituzioni dal loro operato illegittimo difendessero proprio i sindaci e gli amministratori pubblici dalle conseguenze dei loro atti illegittimi, sia involontari ma soprattutto volontari, in un’epoca in cui tangentopoli era stata attaccata, ma non era certo stata stroncata e sradicata, ed anzi doveva presumibilmente non solo continuare, ma rifiorire «più bella e più superba che pria»?
L’articolo 17 comma 76 della legge Bassanini-bis, numero 127 del 15 maggio 1997 istituì a tal fine l’Agenzia autonoma per la gestione dell’Albo dei segretari comunali e provinciali, e il comma 70 dello stesso articolo previde che il sindaco e il presidente della Provincia nominassero il segretario scegliendolo tra gli iscritti a tale Albo. Il sindaco, quindi, ora sceglie direttamente e discrezionalmente il segretario del proprio Comune, segretario che segue poi le sorti del suo patrono e padrino dal momento che, in sostanza, la sua permanenza e attività nell’ente in cui è stato chiamato cessa quando scade il mandato del sindaco o del presidente della Provincia.

I padroni del comune: sindaco e segretario
Tra i due, sindaco e segretario, si instaura pertanto un rapporto strettamente fiduciario, il che potrebbe essere un bene, ma si accentua anche l’influenza del sindaco sullo stesso segretario. Anche perché ulteriori norme, in particolare l’articolo 17 comma 68, lettera c) della stessa legge numero 127 del 1997, e un’altra disposizione emanata recentissimamente, hanno acuito questa possibilità. Infatti oggi al segretario può essere affidata, oltre a quelle minime di consulenza giuridica, «ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco o dal presidente della Provincia».
Questi due «sono organi politici e la circostanza che essi esercitino oggi una così spiccata influenza sul segretario, probabilmente potrebbe attenuare in costui le indispensabili caratteristiche di neutralità che ne avevano fatto in passato un punto di riferimento super partes nell’ambito del Comune o della Provincia», fu il commento a caldo, oltre a vari altri giudizi molto critici su tutti gli aspetti della riforma, emesso dal prof. Gian Valerio Lombardi, che nel 1990 scrisse per Il Sole 24 Ore il libro «L’Ordinamento degli Enti locali». Sottotitolo: «Il federalismo amministrativo. Casi pratici». Ma non fu il solo, e tutto quello che dai critici fu previsto e paventato all’epoca si è poi puntualmente verificato.
Osservava a sua volta un altro esperto, il prof. Francesco Staderini, che l’attribuzione di ulteriori compiti e funzioni al segretario era «molto opportuna» laddove avvenisse con lo statuto o il regolamento, ma era alquanto «discutibile» laddove legittimava il sindaco a provvedere direttamente in tal senso. Inoltre nel 2000, in occasione della propria elezione a presidente della Corte dei Conti, organo lapidariamente definibile «controllore dei controllori», il prof. Staderini affermò coraggiosamente: «Una figura come il segretario, sicuramente operante a stretto contatto con il mondo politico, non dovrebbe essere vincolata, in modo così considerevole, come sembra possibile oggi con il nuovo ordinamento».
Insomma: se da un lato si rivelava opportuno che il sindaco non subisse dall’alto, cioè dal prefetto come avveniva prima, la nomina del suo principale collaboratore giuridico cioè del segretario, d’altra parte sembrava anche necessario, per assicurare il buon funzionamento delle Amministrazioni di Comune e Provincia, che il segretario fosse coinvolto il più possibile nella «gestione neutrale» dell’ente. Gestione che avrebbe dovuto essere, appunto, «neutrale», il che non era e non è vero; o comunque non sembrava e non sembra vero. Perché queste obiezioni e critiche? Perché, secondo il prof. Lombardi, era venuto meno l’antico legame fra tali funzionari e il Ministero dell’Interno e in luogo di esso «la riforma aveva delineato una nuova dipendenza da parte di un’apposita Agenzia». Il segretario sarà chiamato a svolgere un nucleo di funzioni: dalla collaborazione giuridica al completo esercizio delle funzioni gestorie, con un cumulo che fa coincidere la sua figura con quella sostanzialmente ricoperta nel precedente ordinamento.
Si osservava che il carattere fiduciario della scelta del direttore generale e del segretario avrebbe potuto, nel tempo, «accentuare una possibile politicizzazione dei vertici gestionali dell’Amministrazione locale, il cui apparato dirigenziale, che pure ha un notevole ruolo nel riformato assetto, è invece connotato da marcata stabilità e da scarsa flessibilità. Se dovesse prevalere il criterio di scelta per affinità politico-ideologica, si correrebbe il rischio di duplicare un’ulteriore presenza politica in un ruolo tecnico-operativo».
Gli avversari delle leggi emanate dal 1990 in poi a favore di una nuova futura tangentopoli riveduta e corretta furono profeti: quello che avevano previsto si è verificato e sta tuttora avvenendo. Basta pensare che, proprio a confine con Roma, in un Comune di poco più di 10 mila abitanti, al segretario comunale da lui stesso scelto in ben due elezioni, e quindi per dieci anni filati, il sindaco ha affidato non solo le cariche di segretario e di direttore generale del Comune, ma addirittura la dirigenza di ben 6 Dipartimenti. Insomma i segretari comunali e provinciali stanno diventando dei fac-totum, anzi sindaci e presidenti di fatto. A che servono più allora sindaco, giunta e consiglio comunale se tutte le delibere, legittime e soprattutto illegittime, sono decise prima da sindaco e segretario comunale, quindi da quest’ultimo sono portate in Giunta e approvate e poi da lui stesso attuate?

Creata una categoria meno affidabile
Ma oltre a tutto questo, con le riforme dal 1990 in poi è stata abolita una categoria di pubblici dipendenti, i vecchi segretari, ed ne è stata creata un’altra molto meno affidabile dal punto di vista della preparazione giuridica, della severità, della legittimità, dell’onestà. A tale categoria è stata affidata perfino la direzione della lotta contro la corruzione nella Pubblica amministrazione. La sensazione odierna dei cittadini da costoro amministrati è questa: i segretari comunali e provinciali oggi non soltanto non difendono adeguatamente i diritti della gente e le relative istituzioni, ma ostacolano proprio quello che tutte le leggi emanate sulla Pubblica Amministrazione, da tangentopoli in poi, avrebbero dovuto assicurare: cioè la trasparenza, l’estensione e il rispetto di ogni legge e di ogni diritto a favore dei cittadini.

Corsa ad arraffare soldi e potere
Dopo la legge 142 del 1990, si è scatenata, come già detto, la corsa all’introduzione nell’ordinamento amministrativo di una valanga di espedienti, tutti a danno del cittadino anche se giustificati sempre come a suo favore. Appena tre anni dopo, infatti, con la legge numero 81 del 1993 fu approvata, come un’altra strabiliante rivoluzione a loro favore, l’elezione diretta dei sindaci, per sottrarla ai poteri di singoli partiti e consiglieri comunali. Si verificava sempre più spesso, infatti, che un singolo consigliere o un gruppuscolo di consiglieri pretendesse la carica di sindaco anche in presenza di loro pochi o addirittura di un solo voto determinante per la maggioranza. È vero che quel sistema era ingiusto, antidemocratico e quindi da eliminare, ma fino ad un certo punto: perché ne fu creato un altro ancor più antidemocratico e nemico degli elettori e dei cittadini in generale.
L’articolo 31 della legge 142 del 1990 sui Consigli comunali e provinciali aveva infatti stabilito che, nei Comuni con popolazione sino a 15 mila abitanti, lo statuto poteva prevedere la figura del presidente del consiglio; che i consiglieri comunali e provinciali avevano diritto ad ottenere dagli uffici e da aziende ed enti da questi dipendenti tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato; che gli uffici fossero tenuti al segreto solo in casi specificamente determinati dalla legge. E peggio ancora: negli stessi Comuni e Province gli assessori possono essere nominati anche al di fuori dei componenti del consiglio, e quindi senza avere concorso alle elezioni e senza aver riportato neppure un solo voto.
Quanto all’organizzazione interna, l’articolo 51 attribuiva ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo le norme dettate da statuti e regolamenti ispirati al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo spettavano agli organi elettivi, mentre la gestione amministrativa era attribuita ai dirigenti, ai quali spettavano tutti i compiti, compresa l’adozione di atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno; essi sarebbero stati direttamente responsabili della correttezza amministrativa e dell’efficienza della gestione.
La copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, sarebbe potuta avvenire con contratto a tempo determinato di diritto pubblico ed eccezionalmente di diritto privato. Tali contratti non dovevano superare il 5 per cento della dotazione organica della dirigenza, comunque per almeno una unità, e non potevano avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco. Ed ancora: il regolamento sugli uffici e i servizi poteva prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, del presidente della provincia, della giunta e degli assessori.
L’articolo 51 bis prevedeva che nei Comuni con popolazione superiore ai 15 mila abitanti, sindaco e presidente della Provincia potevano nominare un direttore generale al di fuori della dotazione organica e con contratto a tempo determinato. Con questa serie di innovazioni la classe politica tangentista fece piazza pulita delle leggi sane e rispettose dei diritti e degli interessi dei cittadini, creando la possibilità di costituirsi, in ogni Comune e Provincia, vere e proprie bande interne di trasgressori, affaristi, opportunisti, mercenari, più o meno legati e più o meno rappresentanti delle forze politiche esistenti, cioè dei partiti. E da qui si sviluppò anche la possibilità, per i soggetti più spregiudicati, di passare, ma solo apparentemente, da un gruppo politico ad un altro. Il tutto all’insegna degli appalti, degli affari, del volume delle risorse finanziarie messe in campo dai settori sia pubblico sia privato.

Il duro ostacolo dei vecchi prefetti
Tornando all’argomento delle molteplici, susseguenti, significative riforme, o meglio riduzioni ed ancor meglio soppressioni dei controlli su organi ed atti amministrativi, un altro solido ostacolo trovato sulla loro strada di rottamazione dai riformatori tangentisti e tangentopolisti era costituita dai prefetti, organo di eccezionale efficacia ed energia che aveva reso salda, se non aveva del tutto determinato l’Unità d’Italia. La fine penosa fatta fare a questa seria istituzione dimostra proprio non solo la voglia di eliminare un controllo sull’attività di pubblici amministratori e sui loro atti amministrativi, ma la reazione alle inchieste giudiziarie della Procura di Milano; manifesta il dispetto provocato dall’intraprendenza di Mani Pulite, l’insofferenza per l’abolizione del sistema tangentizio messo in atto negli ultimi decenni del secolo scorso, quelli contrassegnati in particolare dal regime politico impropriamente definito «craxismo» e socialismo dei signori.
I prefetti. Appunto: i prefetti erano lo strumento del Governo, del Ministero dell’Interno, incaricato di provvedere alla sicurezza dello Stato, al mantenimento di uguali condizione di vita per tutta la popolazione, per tutti i ceti, per tutte le categorie e le aree territoriali. Era l’arma per combattere delinquenza, criminalità spicciola ed organizzata, mafia, eversione; per salvaguardare la pace sociale, l’ordine pubblico.
Avevano troppo potere, svolgevano troppi controlli che infastidivano i tangentisti, i politici, gli alti burocrati disonesti e ladri; andavano neutralizzati. Come? Con il solito sistema gattopardesco di cambiare tutto per non cambiare niente, anzi per consolidare lo status esistente. Ed ecco infatti pronta la legge del 30 aprile 1999 numero 120 il cui articolo 12 trasferì al sindaco le competenze del prefetto in materia di informazione della popolazione su situazioni di pericolo per calamità naturali. L’articolo 19 della stessa legge 120 al numero 3 stabilì che il comportamento degli amministratori, nell’esercizio delle proprie funzioni, doveva essere improntato ad imparzialità, buona amministrazione, distinzione tra funzioni, competenze e responsabilità degli amministratori prescritte dall’articolo 18 comma 2, e proprie dei dirigenti delle rispettive amministrazioni. Si è verificato tutto ciò? Neppure per sogno.

Ma quale interesse dei cittadini!
Amministratori, dirigenti e personale amministrativo si sono sentiti enormemente rafforzati dalle nuove leggi nella propria azione di ignoranza, mancato rispetto, violazione di regole nei confronti dei cittadini. I quali, peraltro, non sono stati adeguatamente informati da una stampa cartacea e radiotelevisiva acquisita via via in proprietà da gruppi economici, finanziari, bancari e imprenditoriali; mentre la giustizia amministrativa mostrava di essere diventata sempre più dipendente dalla struttura politico-amministrativa alla quale un crescente numero di magistrati doveva ricchissime possibilità di fruttuosi arbitrati, doppi incarichi, consulenze fantasiose, promozioni, arricchimenti, fortune finanziarie e di carriera.
Riservandomi di continuare l’illustrazione della «stra-maledetta» riforma della classe politica e della Pubblica Amministrazione inquinate da Tangentopoli, ovvero da quel «male oscuro» la cui definizione traggo dal titolo del romanzo scritto da Giuseppe Berto nel 1964, accenno appena al bombardamento di norme e di modifiche piovute nell’ordinamento giuridico italiano in seguito all’attesa e positiva campagna giudiziaria e penale attuata dalla Procura milanese a cavallo degli anni 1990-1992, ma che hanno ottenuto il sorprendente, esattamente opposto risultato, in luogo di quello sperato. Campagna che continua tuttora con un’ulteriore, macroscopica, inutile e liberticida riforma della Costituzione, dopo quelle surrettiziamente introdotte negli ultimi decenni.

Autonomia impositiva per new tangentopoli
Una di queste leggi fondamentali, destinata a ristabilire ma in effetti a «picconare» la residua capacità di funzionamento democratico degli organi elettivi e delle strutture amministrative esistenti fu la numero 265 del 3 agosto 1999, il cui articolo 2 era intitolato: «Ampliamento dell’autonomia degli enti locali», ed era destinato a sostituire l’articolo 2 della legge 142 dell’ormai lontano 1990 a proposito di autonomia. «Il Comune è l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo–era il nuovo testo–; Comuni e Province hanno autonomia statutaria, normativa, organizzativa e amministrativa, nonché autonomia impositiva e finanziaria». Ecco finalmente un solido traguardo: l’autonomia impositiva. Tutto il castello amministrativo ricreato dopo la demolizione scientifica ad attuazione progressiva dalla legge 142 del 1990 era diretto ad un solo, unico e abietto scopo: concedere agli amministratori locali il potere di imporre ai contribuenti locali tasse, imposte, tariffe non solo per ripianare debiti necessari per alimentare i servizi ai cittadini, ma per mantenere, allargare, garantire ed arricchire la mangiatoia di addetti, politici e amministratori pubblici colpiti una prima volta da Mani Pulite.    

Tags: Aprile 2015

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