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riparte, come e quando, l’auto? risponde LANDINI

Maurizio Landini, segretario generale della Fiom-Cgil

Maurizio Landini è nato a Castelnovo ne’ Monti (Reggio Emilia) nel 1961. Dopo aver lavorato come apprendista saldatore in un’azienda cooperativa attiva nel settore metalmeccanico, è stato prima funzionario e poi segretario generale della Fiom di Reggio Emilia, in seguito della Fiom dell’Emilia-Romagna, quindi di quella di Bologna. Eletto nel 2005 alla segreteria nazionale del sindacato dei metalmeccanici Cgil, dal giugno 2010 è segretario generale della Fiom. Lo scorso mese, dopo un’intervista a un quotidiano nazionale che nel titolo gli attribuiva una prossima discesa in politica e su cui il premier Matteo Renzi ha prontamente ricamato un attacco personale, Landini, affossando ogni altra potenziale polemica, ha ribadito che l’ipotesi era solo nel titolo di tale giornale.
Domanda. Il 2015 si è aperto con l’annuncio delle prossime 1.500 assunzioni da parte di Fca a Melfi, per cui lei ha definito «bravissimo» Sergio Marchionne. È finita la guerra storica?
Risposta. Non c’è mai stata una guerra personale. Ci sono state, e continuano, visioni divergenti sulle relazioni sindacali e industriali. Attribuiamo un ruolo e un valore radicalmente diversi al lavoro, ai diritti e ai doveri delle lavoratrici e dei lavoratori. Quello che per me è inaccettabile è che in Fca non ci sia più la possibilità di negoziare. Il manager italo-canadese ha condotto la Fiat sotto il primato della finanza per garantire la proprietà e i grandi azionisti, in primo luogo gli eredi della famiglia Agnelli, facendo pagare ai lavoratori e al nostro Paese il prezzo del risanamento. Oggi la Fiat non esiste più; Fca è una multinazionale con la testa negli Usa e il portafoglio in Olanda, e che paga le tasse a Londra. In Italia molti lavoratori sono in cassa integrazione nonostante il rilancio di alcuni brand come Maserati e Jeep. Il destino di alcuni stabilimenti, Pomigliano per esempio, non è affatto certo. Di fronte a un aumento della produttività e della flessibilità, l’azienda passa dagli ammortizzatori sociali allo straordinario nel giro di pochi giorni per tornare ancora alla cassa. La paga base dei lavoratori in Fca è più bassa di tutti gli altri metalmeccanici a cui si applica il contratto nazionale di lavoro. In questo Marchionne è stato all’avanguardia e in questo il disaccordo con lui rimane totale, confermato ogni giorno dalle condizioni di lavoro negli stabilimenti Fca, a partire proprio da Melfi dove le nuove assunzioni, 1000, si accompagnano a ritmi e trattamenti sopportati solo per il gran bisogno di lavorare di questi anni di crisi, anche a costo d’accettare un impiego qualsiasi. Un lavoro senza diritti non è un lavoro, questo pensavo nel 2010 davanti a Pomigliano e Mirafiori, e penso oggi corroborato dai fatti accaduti in questi anni. Con i lavoratori abbiamo protestato per avere investimenti e nuovi modelli, è una stupidaggine pensare che siamo contro l’arrivo di nuovi modelli, ma il nostro compito è chiedere che tutti tornino al lavoro.
D. In 5 anni sono stati persi 5 mila posti di lavoro. Si poteva evitare questa emorragia lavorativa?
R. La perdita di occupati negli stabilimenti Fiat indica la trasformazione del Gruppo e lo spostamento all’estero del suo baricentro. Un problema che va al di là dei 5 mila posti di lavoro persi nelle fabbriche del Gruppo, perché ricade su un consistente indotto moltiplicando per 3 o 4 il numero dei posti persi o resi precari. Si poteva evitare con altre scelte aziendali, scommettendo sulle professionalità presenti nella Fiat e con il contributo della politica. Non con incentivi o finanziamenti più o meno diretti dell’azienda, cosa per anni avvenuta a vantaggio dell’impresa, ma con il supporto di una mobilità più moderna e sostenibile. Il mondo politico e le istituzioni non hanno fatto nulla per convincere la Fiat a mantenere in Italia il centro delle attività. Tanto che oggi il Gruppo paga in Gran Bretagna le tasse su ciò che costruisce anche in Italia. Il bilancio sociale dell’azienda dice che negli ultimi 10 anni il numero di occupati in Italia è diminuito mentre è aumentato nel mondo.
D. Cosa Marchionne dovrebbe fare nei confronti degli altri stabilimenti Fca in tema di miglioramenti e assunzioni?
R. A Mirafiori e Pomigliano servono investimenti sul prodotto e nuovi modelli. Mirafiori è da anni sostanzialmente ferma. È una fabbrica enorme, la più grande d’Europa, giace semi abbandonata, con enormi aree deserte da anni. La Fca ha promesso di farne una sorta di versione maggiore di Grugliasco dove oggi si costruisce la Maserati, ma prima del prossimo anno non sapremo se davvero le produzioni promesse partiranno, a quale regime e con quali risultati. Pomigliano con la Panda non è riuscita a riassorbire tutti i lavoratori del vecchio stabilimento anche se chi vi lavora a volte deve fare gli straordinari e 1.800 persone sono ancora fuori; ma senza un nuovo modello è uno stabilimento a rischio. Cassino è legata alla sorte dell’Alfa e al suo rilancio; e da come andrà dipenderà molto del futuro di Fca in Italia, una scommessa da verificare perché il marchio è molto prestigioso ma viene da anni di anonimato. Il patrimonio di ricerca e sviluppo è stato portato negli Usa nel momento dell’acquisto delle azioni Chrysler. Servirebbero investimenti sull’auto del futuro, un piano condiviso con sindacati e Governo che promuova l’ibrido e i motori ad emissione zero come quello elettrico, mentre rischiamo anche quello che abbiamo; penso alle prossime produzioni della Marelli di Bari, che non finiscano solo nel mercato Usa.
D. Il Jobs Act e l’abolizione dell’articolo 18 hanno favorito i buoni propositi di Marchionne per Melfi?
R. Il Jobs Act è anche frutto di un’intesa politica tra Renzi e Marchionne, di una sintonia d’intenti tradottasi anche in una precisa tempistica, quasi volendo far intendere che le assunzioni di Melfi fossero il frutto del Jobs Act. In realtà dipendono dal programma produttivo deciso per quello stabilimento. Non ci fosse stato il Jobs Act che peraltro deve ancora entrare in vigore, le avrebbero dovute fare lo stesso. Il vantaggio di Fca a produrre in Italia per l’estero sono rapporto dollaro-euro, costo del lavoro, flessibilità degli impianti a costo zero visti gli ammortizzatori sociali.
D. Cosa intende quando chiede alla Fca di cessare la discriminazione nei vostri confronti?
R. Di attuare i principi della Costituzione. La Fca è stata costretta da una sentenza della Corte costituzionale a riconoscere la libertà dei lavoratori di scegliere chi li rappresenta. Grazie alla Corte abbiamo potuto tornare a fare le assemblee da meno di un anno, abbiamo dovuto far causa perché i nostri iscritti potessero avere la trattenuta sindacale in busta paga, avendo finalmente i delegati. Ma oggi c’è un doppio regime di diritti nella Fca: ai delegati delle altre organizzazioni sindacali le informazioni vengono date prima, la Fiom solo successivamente viene informata. Non applicando il contratto nazionale e subordinando i diritti sindacali al contratto aziendale si attua un doppio regime che nuoce ai lavoratori.
D. Quali altre realtà della componentistica stanno chiudendo?
R. La sorte della componentistica dipende dallo stato di salute della casa-madre, che si trasforma in matrigna quando porta all’esterno le produzioni delle componenti per diminuire i costi e scaricare fuori i problemi. La storia dell’auto a Torino è emblematica: nell’ultimo decennio, con la contrazione di Mirafiori le prime a chiudere sono state le aziende di componentistica. L’ultimo esempio drammatico è stata la chiusura della Trw di Livorno. Anche a Melfi però, dove le aziende di componentistica sorgono a fianco dello stabilimento Sata, varie aziende sono in difficoltà.
D. Lei auspica che in Italia si favorisca l’ingresso di altri costruttori di auto. Come dovrebbe avvenire?
R. Non spetta a me indicare piani di penetrazione industriale. Mi limito a constatare come il monopolio produttivo conquistato dalla Fiat nel nostro Paese abbia prodotto il declino dell’industria auto italiana. Negli anni 80 con l’acquisto dell’Alfa Romeo - privatizzata dallo Stato e quasi regalata alla Fiat che, per una scelta della nostra politica, batté la concorrenza della Ford - la Fiat non ha più avuto concorrenti in Italia, avendo inglobato tutto ciò che esisteva, Lancia, Autobianchi, Ferrari, Maserati, Innocenti. Nel corso degli anni questo ha portato a una riduzione dei modelli e a un calo della produzione di auto in Italia, perché oggi ne produciamo meno di 400 mila l’anno, molto meno non solo di Germania e Francia, ma anche di Spagna e Gran Bretagna, Paesi in cui esistono più produttori e sono presenti stabilimenti stranieri. Aver vincolato le sorti del settore alla Fiat ha comportato un impoverimento industriale. Servirebbe una politica industriale che attiri investimenti e investitori; solo un soggetto pubblico può averla, ma in Italia si pensa ad altro.
D. La Fiom è stata tra i promotori di una legge per abrogare il pareggio di bilancio nella Costituzione. Di che cosa si tratta?
R. L’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione è stato un errore perché tornare indietro è molto più difficile nel caso di una legge costituzionale, che assume carattere strutturale. Molti assertori della centralità dei bilanci ammettono che la strada dell’austerity era sbagliata e che serve maggiore flessibilità per ridare fiato agli investimenti e superare la recessione; tutti possono capire quanto fosse assurda quella scelta costituzionale. Chiedendo al Parlamento di esprimersi su un testo sottoscritto da migliaia di cittadini, la proposta di legge popolare per abrogare il pareggio di bilancio in Costituzione propone un rimedio all’errore, per tornare ad essere una Repubblica fondata sul lavoro e non sui vincoli dei bilanci.
D. I segretari della Basilicata di Uil e Uilm vorrebbero costituire una Consulta per l’Auto da affiancare a quella nazionale per favorire i nuovi processi produttivi. Come si colloca la Fiom?
R. Siamo stati i primi ad avanzare agli ultimi Governi la proposta di creare una «consulta dell’auto». Ne è stata costituita una ma i sindacati ne sono esclusi. Noi riteniamo importanti il confronto sulla situazione di questo comparto ma devono essere veri, non un parvenza formale.
D. Dopo anni di dissidi, come sono i rapporti con gli altri sindacati?
R. Non firmeremo mai un accordo che esclude un’organizzazione sindacale dai diritti di rappresentanza. Il bilancio della loro intesa firmato nel 2010 ha ridotto i diritti dei lavoratori, peggiorato le condizioni di lavoro ed economiche. Siamo disposti a discutere di tutto. Un piccolo passo lo si compirà nei prossimi mesi perché abbiamo raggiunto un’intesa: i lavoratori per eleggere i loro rappresentanti per la salute e la sicurezza ritroveranno il simbolo e i candidati della Fiom sulla stessa scheda degli altri sindacati. Un primo passo nel ritorno alla democrazia, una battaglia dura, soprattutto per delegati e iscritti alla Fiom.  

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