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emilio zancla: un secolo di ricordi - cent’anni di vita di un italiano

Emilio Zancla

Emilio Zancla ha 100 anni. Nato a Viterbo il 23 dicembre 1914, figlio del generale Sebastiano Zancla, all’epoca comandante del 60° Reggimento Fanteria in Viterbo, laureato all’Università La Sapienza di Roma in Giurisprudenza nel 1940, fu segretario particolare del presidente del Consiglio dei ministri nei 2 Governi retti dall’on. Ivanoe Bonomi, dal giugno 1944 al giugno 1945; passò al  Ministero della Guerra nel 1946; fu  vicecapo di Gabinetto del ministro della Difesa durante gli 8 Ministeri retti da Giulio Andreotti, dal 1959 al 1966 e nel 1974; ha ricoperto nel Ministero della Difesa gli incarichi di ispettore generale, direttore generale e direttore centrale, fra le direzioni generali Sottuff-Esercito e Leggi-Dife; è stato l’estensore della legge-delega governativa per l’accentramento amministrativo in un unico Ministero della Difesa dei Ministeri di Esercito, Marina ed Aeronautica. Il 1° ottobre 1974, su segnalazione del Ministero della Difesa, fu nominato, dal presidente della Repubblica, Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Andò in pensione nel 1979.
 
«Sono nato a Viterbo nel 1914–così racconta i suoi cent’anni di vita italiana–. Allora Viterbo non era capoluogo, apparteneva alla provincia di Roma. Nel 1925 mio padre, che era ufficiale del Regio Esercito e comandava il 60° Reggimento fanteria della Brigata Calabria, fu collocato in posizione ausiliaria, e quindi in pensione. Perciò ci trasferimmo a Roma, in un appartamento in affitto in Via Catania nel quartiere Italia. Giungemmo in treno alla Stazione Termini la cui facciata era costituita da una grande tettoia metallica con al centro un grande orologio. La piazza della stazione si chiama tuttora «dei Cinquecento» in memoria dei 500 italiani caduti a Dogali nel 1887 a difesa della colonia eritrea. Al centro della piazza c’era infatti un modesto monumento costituito da un piccolo obelisco con alla base una corona di bronzo dedicata ai caduti di Dogali. Oggi questo monumento si trova nei giardini compresi fra Via delle Terme di Diocleziano e Viale Enrico De Nicola.
Di fronte alla Stazione prendemmo una carrozza (che mio padre chiamò Vettura) e giungemmo a Via Catania, che allora finiva all’incrocio con Via Lucca e Via Arezzo. Più avanti era tutta campagna e si vedevano in lontananza i cipressi del Verano. Allora non esistevano codici di avviamento postale, ma per facilitare il recapito della posta si indicava il quartiere postale: 50. A Viterbo avevo frequentato le prime quattro classi delle scuole elementari. Perciò fui iscritto alla scuola più vicina, la «Pestalozzi» in Via Montebello nei pressi di Porta Pia. Indossavo un grembiule azzurro con la «V» cucita sulla manica sinistra, ad indicare la classe che frequentavo, il colletto inamidato bianco e un grande fiocco dello stesso colore.
Le scarpe erano alte, allacciate da lunghi lacci che attraversavano tre coppie di fori e tre coppie di ganci. Un paio di calze lunghe, oltre il ginocchio, di colore blu, erano fermate da due grossi elastici. D’inverno mi coprivo con un mantello blu completo di cappuccio. Di solito mi accompagnava a scuola mia sorella: si percorrevano, sempre a piedi, Via Catania, Via Bari, Via Morgagni, Viale del Policlinico e Piazza della Croce Rossa. Nel tratto di Via Bari compreso tra Via Forlì e Via Como c’era un grande campo delimitato da una folta siepe di piante di sambuco. Ricordo il profumo che emanavano in primavera le grandi inflorescenze bianche di quelle piante; in estate quei fiori divenivano grappoli di bacche quasi nere simili all’uva ma non erano commestibili e macchiavano mani e vestiti. All’ombra di quelle piante si trovavano spesso violette e ciclamini. Quella bella siepe durò poco, perché in quello spazio fu costruita la sede del Dopolavoro Ferroviario con al centro il Teatro Italia: una grande sala con due ordini di gallerie. Da studente frequentai spesso quel locale che proiettava film in bianco e nero. Il biglietto d’ingresso era molto economico, pochi centesimi di lira, e per i ferrovieri era completamente gratuito. Perciò qualche volta entrai con la tessera di un compagno di studi, figlio di un ferroviere. Non posso dimenticare i giochi di parole che, alla fine delle scuole elementari, si praticavano anche in famiglia.
In quel periodo non esistevano oggetti specifici per l’igiene intima, né pannolini per i neonati. Venivano usate pezze di tela di diverse dimensioni che, appena usate, venivano raccolte in un’apposita cassetta nello stanzino da bagno e, quasi giornalmente lavate e stese al sole. Nella cucina c’erano i fornelli a carbone. Il carbonaio, che aveva il negozio in uno scantinato di Via Udine, portava un sacco di carbone che sistemava nell’apposito spazio, sotto i fornelli. Per accendere il fuoco in ogni fornello si mettevano, sotto il carbone, un po’ di trucioli e un foglio di carta accartocciato, che veniva acceso con uno zolfanello o prospero. Con una ventola di penne di pollo si soffiava fino a che il carbone diventava rosso. Per evitare tutta questa manovra era opportuno coprire la sera la brace con la cenere, in modo che la mattina seguente era possibile ravvivare il fuoco aggiungendo carbone alla poca brace rimasta.
Poiché non c’era ancora il gas, non potevano esserci rubinetti dell’acqua calda; vi era però l’acqua diretta e l’acqua dei cassoni. Ovviamente l’acqua diretta era fresca e si usava per bere, quella dei cassoni serviva per cucinare e per lavare stoviglie e panni; per l’igiene personale, specialmente d’inverno, veniva scaldata sui fornelli in pentole e versata nei boccali. Questi erano recipienti di porcellana che normalmente stavano nelle camere da letto, sostenuti da un treppiedi in ferro battuto costituito da tre ripiani: in basso c’era il boccale dell’acqua, al centro un piattino per il sapone e sopra la catinella, anche essa di porcellana. Se uno di questi pezzi di porcellana si rompeva i pezzi venivano accuratamente raccolti in attesa di affidarli all’opera dell’ombrellaio.
Questo infatti era un artigiano ambulante che si annunciava gridando: «Ombrelli e concoline da accomodare». Le «concoline» erano proprio le catinelle. L’ombrellaio incollava con il mastice i diversi frammenti e rinforzava i pezzi più grandi con punti metallici che, purtroppo, erano molto evidenti. Nel concludere questo periodo delle scuole elementari, non posso dimenticare un libretto con la copertina azzurra che mi aveva regalato mio padre: in realtà era una specie di vademecum che veniva consegnato alle reclute nel periodo della guerra 1915/18. Fra le regole in esso contenute ne ricordo ancora due: a) che cosa è l’ubbidienza: l’ubbidienza è l’abitudine di eseguire senza discutere l’ordine del superiore, essa deve essere pronta, rispettosa, assoluta; b) che cosa è l’ordine: l’ordine è l’abitudine di fare ogni cosa a suo tempo e tenere ogni cosa a suo posto.
Non so quanti giovani seguono oggi questi principi, io li rispetto ancora, tanto che i miei nipoti quando cercano determinati oggetti (la gomma, la colla, la cucitrice, il tagliacarte ecc.) vanno con sicurezza nel mio studio e sanno in quale cassetto della scrivania o ripiano della libreria trovarli. Prima di passare dalle scuole elementari alle scuole medie è doveroso ricordare come, in quel periodo, si curava la nostra salute. Era buona norma purgarsi ad ogni cambio di stagione: i grandi prendevano il sale inglese, i bambini, la manna e la senna.
La manna (mannite) era una sostanza bianca e dolce, simile allo zucchero; la senna erano foglioline lanceolate essiccate alla quale dovevano essere accuratamente tagliati i gambi prima di metterle a bollire. L’infuso ottenuto veniva versato in una tazza contenente la manna: la bibita ottenuta era gradevole e faceva l’effetto desiderato. Se questo effetto non era ritenuto soddisfacente, si ricorreva alla «peretta» di acqua calda e olio o, peggio ancora, all’enteroclisma di acqua calda e sapone. Il raffreddore si curava respirando i vapori di olio di trementina versati in una catinella di acqua bollente: perciò il malato doveva stare seduto davanti alla catinella tenendo sulla testa e sulle spalle un grande asciugamano per concentrare il valore verso il naso e la bocca.
Per il mal di gola si usavano le pennellature di tintura di iodio. Per la tosse gli impacchi di farina di seme di lino: si bolliva quella farina fino ad ottenere una poltiglia quasi solida e si spalmava su un telo della grandezza del petto dell’ammalato, si copriva con un velo e si applicava la parte del velo sul petto, si copriva il tutto con un panno di lana per mantenere a lungo il calore. Dopo circa mezz’ora si ripeteva l’operazione o si sostituiva l’impacco con un panno di lana caldo. Per aiutare i bambini nel periodo dello sviluppo, si aggiungeva al latte l’acqua di calcio e si somministravano grandi cucchiai di olio di fegato di merluzzo.
Conseguita la licenza elementare fui iscritto al primo ginnasio del Liceo ginnasio Torquato Tasso di Via Sicilia. Per andare a scuola percorrevo normalmente, sempre a piedi, Via Bari, Via Benevento, Via Siracusa, Via Antonio Musa, Piazza Galeno, Via dei Villini, Via Nomentana fino a Porta Pia, Corso d’Italia fino a Via Basilicata (ora Lucania). Via Siracusa costeggia il lato posteriore del muro di cinta di Villa Torlonia e da Via Benevento che è in forte discesa, si vede l’interno della villa. Così non era raro, scendendo per Via Benevento, vedere Mussolini che cavalcava sotto la guida dell’istruttore, il maresciallo di cavalleria d’Inzeo, padre dei futuri campioni di equitazione Piero e Raimondo.
Lungo il percorso per andare a scuola era normale incontrare venditori e artigiani ambulanti. Uno gridava «Le ranocchie!», e portava su una spalla un bastone con molte rane già spellate. Un altro era l’arrotino che spingeva una specie di carrettino con al centro una ruota metallica manovrata da un pedale e dominata da un recipiente da cui scendeva un filo d’acqua: così, mentre la ruota girava velocemente, l’arrotino vi appoggiava le lame che producevano scintille e queste venivano controllate dall’acqua.
Nelle vicinanze del ginnasio c’era l’uomo delle fusaje. Questi gridava: «Olive dolci!». Aveva infatti un triciclo con due recipienti di vetro: uno per le olive verdi in acqua salata e l’altro per i lupini (le fusaje) anche essi conservati in acqua e sale. Sia le olive che le fusaje venivano prese con un mestolo forato e, ben sgocciolate, vendute in cartocci di carta paglia. In un apposito recipiente dovevano essere raccolti tutti i noccioli delle olive e bucce delle fusaje.
Nei mesi invernali, all’uscita dalla scuola ci attendeva Nino, il venditore di castagnaccio. Questi portava, sostenuta da una cinghia che gli passava dietro il collo, una grande teglia piena di castagnaccio ancora caldo: lo vendeva tagliandolo a piccoli rettangoli. Alla fine della primavera compariva il «cocomeraio» con il suo carrettino a mano tutto verniciato di verde con tanti ripiani dove erano esposti grossi cocomeri interi o spaccati in due per mostrare quanto erano maturi. Questi erano coperti da veli bianchi come protezione dalle mosche e mantenuti freschi da pezzi di ghiaccio. Erano venduti a spicchi o a tocchi a seconda della richiesta dell’acquirente, con la raccomandazione di gettare le bucce in un grosso bidone, anche esso verniciato di verde.
Quando frequentavo il secondo anno di ginnasio, modificai l’ultimo tratto di percorso che seguivo per raggiungere il Tasso. Infatti, attraversando la Via Nomentana, scendendo da Via dei Villini si poteva evitare Porta Pia percorrendo Via Messina, Piazza Principe di Napoli ora (Piazza Alessandria) e Via Bergamo giungendo a Piazza Fiume. A Piazza Principe il mercato allora era scoperto e ogni banco aveva un grande ombrellone. All’angolo della piazza con Via Bergamo c’era l’ingresso dello stabilimento della Birra Peroni. Dai cancelli di quello stabilimento uscivano i carri trainati da due potenti cavalli con la criniera e la lunga coda bionda: trasportavano non solo le casse di bottiglie di birra, ma anche colonne di ghiaccio per rifornire non solo birrerie, ma anche latterie, ospedali, cliniche e privati cittadini. Infatti, non essendoci ancora i frigoriferi, in molte case si usava la ghiacciaia: un mobiletto di legno rivestito all’interno di lamiera zincata, in fondo al quale si mettevano pezzi di ghiaccio conservati da segatura e panni di lana. Si mantenevano così al fresco bottiglie di acqua, vini, latte, nonché la frutta di stagione (meloni e cocomeri).
In quel periodo modificai il mio abbigliamento: non più pantaloni corti, ma calzoni alla zuava con calzettoni di lana e scarpe basse; in testa un berretto con la visiera (scoppola). Anche il quartiere Italia si modificava: per effetto dei grandi lavori che in quegli anni si svolgevano nel centro della città per realizzare Via dell’Impero (ora Via dei Fori Imperiali) e Via della Conciliazione; tutto il materiale di risulta delle demolizioni effettuate veniva trasportato ogni giorno da centinaia di barrozzelle (carretti che potevano svuotare tutto il carico trasportato senza staccare le stanghe dal cavallo). Così fu in breve tempo eliminato il vuoto esistente fra Via Catania e l’attuale Piazza delle Crociate. Ovviamente questo lavoro produceva molta polvere nelle strade non lastricate; ma il Comune provvedeva a farle innaffiare scrupolosamente  ed abbondantemente almeno due volte al giorno con carri-botte che spruzzavano l’acqua da un tubo dotato di fori e  sistemato nella parte posteriore della botte.
Tra Via Catania e Viale Ippocrate fu creato il Piazzale delle Province, che venne a sua volta collegato con Piazza Bologna attraverso il Viale delle Province. Non ho mai capito perché nelle guide stradali e nelle targhe di marmo del  piazzale e del viale la parola «province» era scritta con la «i». Pensavo fosse una forma antiquata, ma anche il vocabolario Rigutini-Fanfani del 1893 scriveva «province».   

Tags: Febbraio 2015

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