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Crisi aziendali e rivendicazioni: diritti e doveri dei lavoratori dei cittadini e delle istituzioni

Lucio Ghia

Alcune caratteristiche negative costituiscono un grave freno alla ripresa economica e soprattutto ingabbiano quel ritorno alla fiducia che è il motore di qualsiasi iniziativa e intrapresa industriale o commerciale. La fiducia ha bisogno di ritrovare le proprie basi nel rispetto delle regole, nella condivisione degli interessi più generali, in un comune terreno di coltura senza il quale non esiste la possibilità di guardare con maggiore serenità al futuro. Oggi invece le forze in campo dimostrano di voler perseguire la ricerca di un primato individuale, insensibile alla tutela di interessi di carattere più generale. È necessario trovare un nuovo equilibrio tra le esigenze di un’imprenditoria che deve tener presenti le difficoltà di carattere mondiale e la ricerca di assetti e comportamenti più avanzati da parte del sindacato, che deve decidersi a tutelare il lavoro e i suoi diritti alle condizioni imposte dai mercati, perché senza mercato non c’è lavoro. La tutela di diritti sclerotizzati con manifestazioni di forza non più attuali; l’attenzione a situazioni di favore e condizioni quesite che non possiamo più permetterci; l’indifferenza per ciò che avviene negli altri scenari mondiali con i quali la nostra produzione è chiamata a competere sono le reali soluzioni che il sindacato deve accettare per non diventare un inutile Moloch. Non si tratta più di difendere il lavoratore dallo sfruttamento del bieco padrone, si tratta di consentire ai prodotti di essere competitivi. La vicenda Fiat è stata emblematica, ma non è stata ancora pienamente metabolizzata. Un’altra area che manifesta rigidità e preoccupazione è quella del rapporto tra impresa e produzione da un lato, e magistratura e giudizi dall’altro. Anche queste due essenziali aree economiche e istituzionali stentano a trovare gli equilibri dei quali il Paese e noi tutti abbiamo bisogno. La vicenda dell’Ilva di Taranto è emblematica e vale la pena tentare di mettere a fuoco talune gravi discrasie che rappresentano un preoccupante segnale negativo per la ripresa delle condizioni essenziali sia affinché l’Italia riacquisti la consapevolezza di essere un grande Paese, sia affinché gli investitori stranieri guardino con maggiore fiducia ad essa. L’Ilva, ovvero il cuore dell’acciaio italiano, costituisce malgrado tutto una realtà industriale rilevante che occupa direttamente oltre 11.600 dipendenti e che interessa un indotto di circa due decine di migliaia di artigiani, imprese fornitrici, trasportatori, clienti, e non solo, nel territorio tarantino. L’Ilva continua a stare nel mercato nonostante gli acciai coreani e cinesi, e continua a dare prodotti di qualità e occupazione a un’area molto estesa. La vicenda è stata segnata da alcuni provvedimenti giudiziari che hanno suscitato più di qualche perplessità. Certamente i 174 decessi per tumore accertati negli anni, il diffuso inquinamento ambientale, le intercettazioni che, a quanto pubblicato dalla stampa, fanno intravedere gravi reati ambientali e altrettanto gravi connivenze ed episodi di malaffare tra controllori e controllati, impongono l’intervento della magistratura, ma la rivolta con la quale gli stessi sindacati hanno questa volta difeso il posto di lavoro e la continuità dell’attività di impresa, e i provvedimenti del Governo per finanziare la bonifica ambientale, devono confluire in una direzione unitaria e condivisa tra le varie forze in campo. In questo contesto certamente i colpevoli di gravissimi reati come il disastro colposo e doloso, l’inquinamento atmosferico, lo sversamento di sostanze pericolose e si potrebbe continuare, vanno puniti esemplarmente. Così come sono assolutamente indispensabili e costituiscono una priorità assoluta l’attuazione di un programma rigoroso di bonifica ambientale e una messa a norma degli impianti verso il raggiungimento di accettabili standard ecologici nei tempi più rapidi possibili. Il problema di fondo è che di fronte a questa grave situazione di disastro ambientale che affonda le proprie radici in decine di anni di scarsa sensibilità ambientalistica ed ecologica, i sacrosanti interventi di bonifica e messa a norma degli impianti andrebbero coniugati con le altrettanto prioritarie e giuste esigenze di decine di migliaia di famiglie che dall’acciaieria di Taranto traggono il sostegno economico necessario per sopperire alle loro esigenze alimentari e di sopravvivenza. Ora, sgombrato il tavolo da componenti di carattere ideologico, sociale, giuslavoristico senz’altro tutte degne di analisi più approfondite, ma non in questa occasione, l’uomo della strada non riesce a capire: perché bloccare la produzione? La bonifica ambientale durerà più di qualche anno e sarà estremamente costosa in un momento così difficile per l’economia nazionale e locale; non è possibile migliorare progressivamente dal punto di vista ambientale, senza bloccare il nostro acciaio, senza spegnere i forni? Far uscire l’impresa dai mercati, significa offrire a concorrenti stranieri come Archelor-Mittal, Corus, Thyssen Krupp e Severstal le 5 mila tonnellate che le industrie italiane oggi assorbono. Come si vede la posta in gioco è altissima e non riguarda solo gli stipendi in pericolo degli oltre 10 mila dipendenti. L’inconciliabilità apparente dei due obiettivi lascia perplessi. Su un piatto della bilancia abbiamo la rilevanza del fine legato alla salvaguardia dei valori dell’impresa nell’interesse dei cosiddetti stakeholders, cioè di tutti coloro che traggono beneficio da quest’azienda industriale, in primis i dipendenti; sull’altro piatto la condanna alla distruzione dell’impresa con lo spegnimento dei forni, la fine della produzione, le cause di risarcimento danni per le mancate forniture, la volatilizzazione del portafoglio ordini, del know how e dell’avviamento, i costi delle importazioni di acciaio ecc. Possibile che oggi, con le tecnologie che esistono, bonifica e produzione non possano essere coniugate, e che il diritto alla salute e quello al lavoro non possano trovare una soluzione comune? Certo è preferibile il salvataggio di ciò che ancora c’è di buono nell’Ilva, affinché proprio attraverso questo salvataggio anche il male che è stato fatto possa essere riparato. Non va sacrificato quanto di buono ancora esiste nell’Ilva per inseguire o affermare «primazie» che non possiamo più permetterci. L’affermazione di un «primato» della legge indifferente alle ragioni dell’economia, della produzione, dell’occupazione, della sopravvivenza di decine di migliaia di famiglie, farebbe stappare bottiglie di champagne ai produttori esteri di acciaio, pronti a sostituire le 5 mila tonnellate di acciaio italiano. Che le risorse messe a disposizione dallo Stato e dall’impresa non riescano a realizzare il miracolo di un risanamento immediato rispetto a una situazione di avvelenamento ambientale durata decenni, è un fatto, ma l’investimento nel tempo con risorse provenienti in gran parte dalla stessa produzione potrà realizzare il risanamento ambientale della zona. È questa la strada da perseguire senza spegnere i forni, senza bloccare l’acciaio italiano, senza mettere in cassa integrazione decine di migliaia di lavoratori considerando anche l’indotto, che hanno il diritto di continuare a guardare al proprio futuro in una situazione di normalità e fiducia. Già la penetrazione dei nostri prodotti nei mercati internazionali è resa difficile dalla concorrenza specie medio-orientale, la Magistratura più consapevole vorrà «dare una mano» affinché le imprese e i nostri prodotti vengano sorretti e non distrutti dall’interno. Infine non si può non riflettere sulla crisi dell’Alcoa, l’azienda sarda produttrice di alluminio. Una produzione molto «energivora» che non ha il proprio tallone d’Achille nel costo dell’energia, che risulta ridotto di una buona percentuale rispetto a quello che tutti gli italiani pagano con la maggiorazione delle bollette sostenendo il costo della permanenza in Italia di questa impresa americana. La verità è che negli anni non sono stati compiuti gli investimenti necessari per rendere competitivi macchinari e impianti. L’obsolescenza di questi e il costo dell’elettricità ancorché di circa 35 euro a megakilowatt rispetto ai 50 euro in Europa per una multinazionale americana rendono preferibile e meno costosa la costruzione di un nuovo impianto in Arabia Saudita, dove i costi dell’energia e degli impianti sono radicalmente minori per l’abbondanza di petrolio e per gli aiuti all’investimento offerti da quello Stato. Nel mercato mondiale e globalizzato anche le imprese si dirigono dove sono trattate meglio, quindi gli spostamenti sono inevitabili. Una cultura del lavoro adeguata avrebbe imposto di prendere coscienza dell’aggravamento della situazione dell’Alcoa a tempo debito, in quanto questo trasferimento era annunciato almeno da quattro anni. Anche le istituzioni sono rimaste inerti in questo periodo, non si sono preoccupate di trovare soluzioni lavorative per dipendenti in essa occupati, e anche in questo caso il sindacato non ha lavorato tempestivamente per creare e proporre le condizioni per una riconversione dell’impresa e per traguardare altre soluzioni. Oggi il sindacato risponde con le logiche della «lotta», su base nazionale, nei confronti a questo punto del mondo globalizzato, delle multinazionali, dell’Unione Europea che non permette «aiuti di Stato», e quindi non consente né i finanziamenti a fondo perduto, necessari al rinnovamento degli impianti, né regali di energia alle imprese; «lotta» contro il Governo che non riesce a mantenere rendite di posizione impossibili; «lotta» nei confronti di tutti quanti hanno finora concorso nel consentire che l’Alcoa restasse in vita, pagando bollette elettriche più salate di quanto sarebbe avvenuto senza di essa. Ma ciò che più sorprende è la «lotta» contro gli stessi interessi dei lavoratori dell’Alcoa. L’azienda infatti oggi sta cercando, con l’aiuto del Ministero per lo Sviluppo Economico e della Regione Sardegna, un altro imprenditore che voglia trasformare l’impresa assicurando la continuità della produzione e della occupazione. Ora, in un momento molto delicato per le decisioni dell’investitore, attraverso i nostri organi di informazione abbiamo mostrato al mondo i comportamenti dei dipendenti dell’Alcoa e dei loro sindacalisti nei rapporti con i Ministeri dello Sviluppo Economico e dell’Economia. I picchettaggi, gli elmetti sbattuti sull’asfalto, i falò, le urla, le arrampicate sui tralicci e sulle torri, gli striscioni «estremi» apparsi in tutti i giornali italiani e rimbalzati in tutto il mondo, hanno offerto un’immagine non attraente né positiva per gli eventuali interessati a rilevare l’Alcoa e a garantire ai suoi dipendenti continuità occupazionale. Di fronte a questo scenario, che non premia il know how, la qualità e le capacità dei dipendenti dell’azienda ma ne esalta la rabbia e la pericolosità sociale, chiunque si domanda chi possa essere quel «santo» disposto ad affidare il proprio investimento a un’impresa che manifesta caratteristiche di questo tipo. Forse anche sotto il profilo socio-psicologico il mondo del lavoro deve fare un passo avanti, deve convincersi che, lottando e urlando si finisce per restare isolati, per manifestare la propria inaffidabilità produttiva il che, quando si cerca chi possa pagare gli stipendi, non costituisce senz’altro un buon modo di presentarsi. ■

Tags: Novembre 2012 industria Lucio Ghia

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