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Le professioni per l'Italia.: il diritto all’oblio si intreccia con il diritto ad informare

Maurizio De Tilla e Anna Maria Ciuffa, fondatori di «Le Professioni per l’Italia»

La Corte di Giustizia europea, con la decisione resa nella causa C-131/12 del 13 maggio 2014, ha affermato che i cittadini hanno il diritto di essere dimenticati dai grandi siti. Poco importa se le informazioni che li riguardano siano vere e errate e neppure rileva se quelle informazioni abbiano un interesse giornalistico. Il diritto all’oblio va, quindi, rispettato e tutelato. Siamo pienamente d’accordo. Fonda-tamente, la Corte di giustizia europea ha dichiarato invalida la direttiva europea sulla conservazione dei dati. Tale direttiva  (2006/24/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 marzo 2006) ha per obiettivo principale l’armonizzazione delle disposizioni degli Stati membri sulla conservazione di determinati dati generati o trattati dai fornitori di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di una rete pubblica di comunicazione. Essa è quindi volta a garantire la disponibilità di tali dati a fini di indagine, accertamento e perseguimento di reati gravi, come quelli legati alla criminalità organizzata e al terrorismo. In tal senso, la direttiva dispone che i fornitori debbano conservare i dati relativi al traffico, all’ubicazione nonché i dati connessi necessari per identificare l’abbonato o l’utente. La direttiva non autorizza la conservazione del contenuto della comunicazione e delle informazioni consultate.
Su ricorso dell’Alta Corte di Irlanda la Corte Europea di Giustizia ha sottolineato che i dati da conservare consentono: a) di sapere con quale persona e con quale mezzo un abbonato o un utente registrato ha comunicato; b) di determinare il momento della comunicazione nonché il luogo da cui ha avuto origine; c) di conoscere la frequenza delle comunicazioni dell’abbonato o dell’utente registrato con determinate persone in uno specifico periodo. Tali dati, considerati congiuntamente, possono fornire indicazioni assai precise sulla vita privata dei soggetti i cui dati sono conservati, come abitudini quotidiane, luoghi di soggiorno permanente o temporaneo, spostamenti giornalieri o di diversa frequenza, attività svolte, relazioni e ambienti sociali frequentati.
La Corte Europea ha, quindi, ritenuto che la direttiva, imponendo la conservazione di tali dati e consentendovi l’accesso alle autorità nazionali competenti, si ingerisce in modo particolarmente grave nei diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere personale. Inoltre, il fatto che la conservazione e il successivo uso dei dati avvengano senza che l’abbonato o l’utente registrato ne siano informati può ingenerare la sensazione che la loro vita privata sia oggetto di costante sorveglianza. Di qui la dichiarazione di invalidità della Direttiva europea.
C’è chi afferma che la conclusione della Corte Ue non appare condivisibile. Tralasciando, infatti, la questione se l’attività di Google e di un motore di ricerca sia una mera indicizzazione o un vero trattamento dati, si è ritenuto non accettabile la sottovalutazione della Corte sul diritto a fornire informazioni, come aspetto più generale della libertà di espressione e del diritto a cercare informazioni e a riceverle. Nel ragionamento della Corte la regola sembra diventata  la cancellazione dopo un certo lasso di tempo, e l’eccezione la permanenza delle informazioni. Non solo. Lussemburgo nell’imporre una valutazione al motore di ricerca richiede che esso prenda in considerazione alcuni parametri tra i quali la natura dell’informazione, il carattere sensibile per la vita privata della persona suddetta e l’interesse pubblico a disporre di tale informazione che varia, però, - ed è questo un ulteriore anello debole del ragionamento della Corte - unicamente sul «ruolo che tale persona riveste».
Si è obiettato che la Corte abbia dato un peso eccessivo e decisivo alla qualificazione della persona, se pubblica o meno, senza considerare l’esistenza di notizie che possono avere un valore per una collettività a prescindere dalla funzione rivestita da un individuo. Può trattarsi di persone non pubbliche secondo la tradizionale accezione del termine ma che compiano atti di interesse pubblico.
Il diritto all’oblio come riconosciuto dalla Corte sembra poi molto simile a un divieto di accesso a internet prospettato dall’organo giurisdizionale mentre si discute  del riconoscimento, tra i diritti dell’uomo, dell’accesso al web. A prescindere dalla  questione, c’è chi propone una vera Costituzione per internet. Il web selvaggio preoccupa il mondo, come il web controllato. A 25 anni dalla sua nascita necessitano regole che lo mettano al riparo dalle violazioni alla sua libertà. Non  costrittive, ma l’opposto: garanzie costituzionali per i diritti della rete e nella rete. Un Bill of Rights (l’ha definito Stefano Rodotà) che abbia come autori e protagonisti l’Onu e il Parlamento europeo. Aggiungiamo: con adeguamenti automatici
Tra le possibili violazioni si pensi che nella rete si può ipotizzare un dark web, cioè un sito accessibile solo con speciali software dove si dà spazio alla droga e alla pedo-pornografia. Un mondo torbido e occulto dove l’ingrediente fondamentale è l’anonimato. Non si tratta di libertà ma di mezzi per eludere o violare la legge e guadagnare denaro. Quando si interviene per stroncare questo fenomeno illegale? Nel libro «Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida» Zygmunt Bauman e David Lyon affrontano il tema della sorveglianza che è liquida perché è cruciale cogliere i modi in cui essa si infiltra nella linfa vitale della contemporaneità fino a distruggerla, facendo regredire la persona alla condizione di puro oggetto sul quale si esercitano poteri fondati sull’imperativo della sicurezza e sulle pretese del mercato.
La sorveglianza è una dimensione chiave del mondo: siamo costantemente controllati, giudicati, nei più piccoli dettagli della vita quotidiana. E il paradosso è che siano proprio i sorvegliati a fornire il più grande volume di informazioni personali, caricando contenuti sui social network, usando la carta di credito, facendo acquisti e ricerche on line. Qualsiasi tipo di libertà di espressione non può, però, giustificare sulla rete casi di incitamento all’odio, insulti, minacce, attacchi violenti. Quando la libertà viene malamente usata per insultare, esercitare il turpiloquio, limitare i diritti degli atti, si traduce in liberticidio e dispotismo.
La Convenzione di Budapest del 23 novembre 2001 sulla libertà informatica, ratificata in Italia il 18 marzo 2008, lotta contro gli atti di natura razzista e xenofoba commessi attraverso i sistemi informatici. È un punto di equilibrio fra la libertà di espressione e la repressione dell’incitamento all’odio. La Lega dei diritti dell’uomo si è attivata per sollecitare l’adesione del Parlamento italiano.  

Tags: Novembre 2014

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