la legge di stabilità aggrava le iniquità rendendo precario e problematico lo sviluppo
di GIORGIO BENVENUTO presidente della fondazione Bruno Buozzi
Molti perdono il lavoro, numerose aziende chiudono, precipita il potere d'acquisto delle famiglie, aumenta il tasso dell'iniquità fiscale. Le previsioni economiche peggiorano. Nonostante le varie manovre dell'ultimo anno, si prevede ora un saldo negativo del 2,6 per cento nel 2013 e dell'1,6 nel 2014; prima erano rispettivamente dell’1,7 e dello 0,5 per cento. In questo scenario si collocano gli ultimi due provvedimenti del Governo: la «legge di stabilità» e la legge per la «delega per la riforma fiscale». Il Governo mostra di avere la veduta corta. È incapace di andare oltre il calcolo di breve periodo per guardare al futuro oltre la crisi. Il 2012 passerà alla storia come un «annus horribilis». Salvo ulteriori manovre, il potere d'acquisto delle famiglie diminuirà del 4,1 per cento. Secondo il Codacons, il carrello della spesa costerà, per una famiglia di due persone, mille euro in più; una coppia con due figli avrà una maggiore spesa di 1.750 euro. La «legge di stabilità» è un gioco di prestigio. Con una mano dà, con l'altra riprende più del doppio. Nessuno sottovaluta la perdurante drammaticità delle finanze pubbliche. Nessuno vuole fare della demagogia da quattro soldi. Nessuno ignora la necessità di una politica di austerità. Ma non si può più procedere aggravando con dissennatezza lo squilibrio nei rapporti economici e sociali. Esaminiamo nei particolari la legge di stabilità. C'è la riduzione di un punto delle aliquote Irpef per i primi due scaglioni di reddito. Si riducono così le tasse, nel prossimo anno, di 4.271 miliardi. Per finanziare questa operazione a partire dal primo luglio del 2013 si aumenta l'Iva ancora di un punto, senza nessun serio impegno di scongiurare l'ulteriore aumento di un altro punto, come sollecitato dall'Europa. Lo scambio tra Irpef ed Iva è a somma zero. Lo sconto fiscale medio è dello 0,1 per cento; più consistente per i redditi da 15 mila a 20 mila euro (1,01 per cento), e da 20 mila a 30 mila euro (0,28 per cento). L'operazione rende il fisco ancora più iniquo. Non beneficiano, infatti, della riduzione dell'Irpef i poverissimi, quasi 8 milioni che, guadagnando molto poco, ossia meno di 10 mila euro l’anno, sono esentasse. Sono gli «incapienti» che, non potendo avere vantaggi con la riduzione dell'Irpef, patiranno le conseguenze dell'aumento dell'Iva. Ma non è finita. La «legge di stabilità» è iniqua, come le altre misure che l'hanno preceduta. Troppo. Tutto fa brodo per aumentare la pressione fiscale. Si assottiglia lo sconto fiscale. Si decide un intervento, inaspettato, sgradito e a gamba tesa, sulle deduzioni e sulle detrazioni. L'effetto combinato della riduzione delle agevolazioni, della retroattività, della franchigia di 250 euro, del tetto massimo, ammonta a 3.595 miliardi di euro. Il dare è di 4.271 miliardi, ossia la riduzione dell’Irpef, il prendere è di 6.875 miliardi, su deduzioni, detrazioni e Iva. È un passo falso del Governo. La «legge di stabilità» non solo contraddice quella equità che, un giorno sì e un giorno no, viene sottolineata dai vari ministri tecnici. È anche in netta contraddizione con la lotta all'evasione fiscale. Anche i sassi sanno che per combatterla bisogna favorire il conflitto di interessi, per avere le ricevute del costo dei servizi e degli acquisti, per poterli dedurre o detrarre. Si è assottigliato di molto lo sconto fiscale. L'introduzione di una franchigia di 250 euro nel calcolo delle detrazioni/deduzioni per i redditi superiori ai 15 mila euro darà un duro colpo alla lotta all'evasione e all’elusione fiscale. È da prevedere una caduta verticale nel rilascio degli scontrini e delle ricevute e una diffusione incontrollata del sommerso e del nero. Gli interventi della «legge di stabilità» non finiscono qui. Proseguono. La caratteristica è sempre quella dell'iniquità. Ci sono l'assoggettabilità a tassazione delle pensioni di guerra, l'eliminazione della clausola di salvaguardia del trattamento di fine rapporto, i risparmi ingenti per la spesa per la scuola. Incombono all'orizzonte i probabili aumenti dell'Imu in occasione del versamento della seconda tranche, e gli inevitabili aumenti delle addizionali sull'Irpef che gli enti locali si affretteranno a fare per compensare i tagli dei trasferimenti. E i risparmi? Buio pesto. Il Governo, come quelli che l’hanno preceduto, è incapace politicamente e strutturalmente di aggredire gli sprechi della cattiva politica. Dilagano gli scandali, la corruzione si rafforza e si estende. Gli sprechi sono sempre innumerevoli. Le intenzioni del Governo sono piene di buona volontà, ricche di decisionismo. Ma rimangono lettera morta. La legge per la «delega per la riforma fiscale» ha le stesse caratteristiche della «legge di stabilità». È stata approvata alla Camera e attende ora di terminare l'iter al Senato. Non è purtroppo una riforma. C'è dentro di tutto. È un omnibus nel quale sono confluite le questioni ancora aperte: abuso di diritto, catasto, semplificazioni, spesometro ecc. È legittimo il sospetto. Per guadagnare tempo si sono inserite nella legge le fattispecie fiscali di incerta soluzione, per poterle di fatto rinviare alla prossima legislatura, cioè alle calende greche. C'è nella «legge delega fiscale» anche la beffa. Alla Camera è stato recepito, nel voto di fiducia, un emendamento di iniziativa parlamentare che prescrive al Governo, nel rendere operativa la delega, il rispetto della norma dello Statuto del Contribuente, l’articolo 3, che fissa il principio della retroattività delle norme tributarie. Nelle stesse ore nelle quali il Governo otteneva la fiducia sul principio della non retroattività delle norme, veniva definita, disponendo l'opposto, la «legge di stabilità» con le misure sulla retroattività del taglio delle deduzioni e delle detrazioni. È stato un passo falso. Il rigore dei conti è irrinunciabile, ma non è accettabile la deroga sistematica ai diritti dei cittadini contribuenti. Che fine fa la certezza dei cittadini e delle imprese? Con arroganza, anzi con consapevole spudoratezza, il ministro dell'Economia ha ammesso che le eccezioni allo Statuto del Contribuente sono ormai diventate una regola lungamente e largamente usata. In una ricerca la Confesercenti ha verificato che lo Statuto, nei suoi 12 anni di vita, è stato violato più di 400 volte. Solo nel periodo 2011-2012 famiglie e imprese hanno anticipato più di 6 miliardi di maggiore gettito. L'allarme l’ha lanciato nel 2010 e l’ha riproposto nel 2012 la Corte dei Conti: «A 10 anni dall'introduzione dello Statuto dei Diritti del Contribuente si registrano deroghe eccessive alle sue regole, con retroattività delle imposte o dei mutamenti procedurali, uso massiccio delle proroghe dei termini di accertamento, deficit di chiarezza e di trasparenza che spesso continua a connotare le leggi tributarie». In altri termini lo Statuto del Contribuente, nato con lo scopo di valorizzarne i diritti in materia fiscale, ha finito per trasformarsi nella certificazione di una realtà tributaria carica di squilibri e di soprusi. Insomma il Governo Monti che pure ha meriti per la ritrovata credibilità a livello europeo e internazionale, si muove con ambiguità nel nostro Paese sul terreno della politica economica e sociale. Procede a fari spenti. È vulnerabile e inerme di fronte alla pressione dei partiti, preoccupati come sono delle scadenze elettorali ormai sempre più vicine. Ecco perché è giusta l'insistenza per rompere gli indugi e per operare una vera politica di concertazione. Concertazione, si badi bene, e non immobilismo o consociativismo. Pensare di governare ignorando le parti sociali è un errore. I partiti e il Parlamento, così come è conciato, non sono in grado di essere completamente rappresentativi delle esigenze, domande, preoccupazioni, dubbi della gente. Carlo Azeglio Ciampi in una fase paragonabile all’odierna debolezza e frammentarietà della politica, supplì coinvolgendo le parti sociali, realizzando la politica dei redditi che fu decisiva per uscire dalla crisi economica ed entrare in Europa. La disattenzione e il fastidio con i quali Monti guarda al confronto con le forze sociali al di là delle sue intenzioni, rafforza nel Paese antagonismo e qualunquismo. Il piano per la ripresa, lo sviluppo, l'equità, non va calato dall'alto. Va confrontato, definito, argomentato. Se così attuato, troverà l'appoggio convinto del Paese. ■
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