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la legge di stabilità. osservazioni, riflessioni, proposte

GIORGIO BENVENUTO presidente fondazione Buozzi

L'Ocse ha ricalcolato i dati sulla crescita economica in Italia. I risultati sono preoccupanti. Il nostro Paese chiuderà il 2014 in recessione (-0,4 per cento rispetto al +0,5 per cento previsto). Insignificante il miglioramento nel 2015. Appena lo 0,1 per cento, con una revisione più ampia rispetto alla stima dell’1,1 per cento prevista a maggio. Anche Standard & Poor’s ha tagliato le stime per il 2014: l’economia italiana resterà al palo, senza apprezzabili miglioramenti nel 2015. L’Italia, in base a questi dati, è l’unico Paese del G7 e dell’Eurozona in recessione. Particolarmente pesante il commento di Standard & Poor’s che ammette di aver sovrastimato le misure di stimolo annunciate in marzo dal Premier Matteo Renzi, misure che «a tutt’oggi non hanno avuto alcun effetto sui modelli di spesa degli italiani».
Critica è anche la Commissione europea. Finora non c’è stato nessun vantaggio nell’esercizio della funzione di Presidenza toccato all’Italia per il secondo semestre 2014. L’Italia deve avviare riforme che i nostri partner europei ritengono indispensabili: il lavoro, la competitività, la produttività; la semplificazione delle procedure nella pubblica amministrazione, nella giustizia, nella scuola. È inevitabile che la Commissione europea, scottata dalle troppe esperienze negative degli ultimi anni, sottoporrà la politica economica ad un attento monitoraggio.
Il ministro Pier Carlo Padoan ha confermato l’assenso del Governo Renzi al controllo dell’Ue sull’attuazione delle riforme preannunciate. I vincoli sono molto dettagliati. Il «fiscal compact» ha introdotto l’obbligo di ridurre il deficit strutturale dello 0,5 per cento del prodotto interno per i Paesi con debito oltre il 60 per cento. Con il «two pack» per rafforzare la sorveglianza è stato introdotto l’obbligo di anticipare al 15 aprile il Documento di Economia e Finanza e il programma nazionale di riforme. È stato altresì stabilito che la presentazione all’Ue della bozza della legge di stabilità deve avvenire entro il 15 ottobre. Resta inteso che l’Ue può richiedere modifiche e può controllare i tempi per l’attuazione delle riforme.
Insomma non sarà accordata la flessibilità sui conti pubblici italiani se non dopo le riforme ritenute necessarie. È questo lo scenario nel quale il Governo Renzi si deve muovere. L’Italia è in deflazione; la disoccupazione è al 12,6 per cento; i consumi sono crollati del 2,6 per cento; il prodotto interno è fermo, anzi diminuisce. I dati disaggregati sull’occupazione sono allarmanti. La disoccupazione giovanile (dai 15 ai 24 anni) è del 30,4 per cento nel Nord; del 40,5 per cento nel Centro; del 56,0 per cento nel Mezzogiorno.
Come dare una scossa al sistema? Ecco l’interrogativo al quale occorre fornire una risposta organica con una strategia convincente ed avvincente. La transizione dalla prima alla seconda Repubblica non riesce ancora a realizzarsi. È cambiato tutto; non cambia invece, anzi peggiora, il modo di fare politica. Si parla di riforme, si programmano calendari vincolanti, ma non si riesce a cavare un ragno dal buco. Parafrasando un vecchio detto popolare (l’Italia è un Paese di rivoluzionari, senza aver mai fatto una rivoluzione), si può amaramente constatare che siamo diventati un Paese di riformisti senza riuscire a fare una riforma.
C’è un dato agghiacciante. I Governi Monti e Letta hanno lasciato in eredità la mostruosa cifra di 899 decreti non attuati, che ora si sono ridotti a 528, ma ai quali, nel frattempo, se ne sono aggiunti 171 del Governo Renzi. Insomma mancano 699 regolamenti e decreti attuativi. Così non si va da nessuna parte. Renzi si deve convincere che alla parte destruens deve seguire la parte costruens. Il 41 per cento dei voti che ha ottenuto nelle elezioni europee è giunto per mancanza di alternative; ha avuto carta bianca più per rassegnazione che per convinzione.
È stato importante rottamare il sistema; è necessario ora avere una strategia, persone di qualità, strumenti alternativi. Il Corriere della Sera in un sondaggio ha rilevato che Renzi ha un consenso maggioritario; i suoi ministri invece non sono conosciuti e, soprattutto, non sono stimati (l’unica eccezione è Padoan). Non era mai capitato nella storia della Repubblica. Occorre ora governare. Non è facile dopo tanti annunci e tante promesse.
L’Italia è profondamente cambiata. In molti casi è peggiorata. Gli effetti della liberalizzazione e della globalizzazione hanno disarticolato il sistema, l’hanno frantumato, l’hanno balcanizzato. Sono morte le tradizioni, i corpi intermedi non sono più rappresentativi, il Paese è diviso in tante contrapposizioni che mettono gli uni contro gli altri. Crescono l’illegalità e l’insicurezza; aumenta la corruzione (il prodotto interno è ora anche alimentato da attività illegali: droga, prostituzione e contrabbando per 18 miliardi); scompare la solidarietà. Si vive alla giornata. C’è un fuggi fuggi. Vanno via le imprese, vanno via i giovani più preparati, chi può trova fuori dai confini le possibilità di lavoro negategli in Italia.
Insomma bisogna superare la fase dell’antitesi, della caccia alle streghe, della ricerca dei capri espiatori. Dobbiamo entrare in una nuova fase. I buoni risultati ottenuti nelle elezioni europee, se non introdurranno i necessari cambiamenti, possono presto diventare controproducenti. Vanno corretti i pregiudizi e vanno messi da parte i luoghi comuni. L’aggressione alle forze sociali è sbagliata. Sono interlocutori importanti.
È poi incomprensibile l’atteggiamento nei confronti dei pensionati. Non possono essere considerati dei parassiti, la pensione è salario differito e quindi diritto acquisito. L’impoverimento dei pensionati è ingiusto ed economicamente sbagliato. Esistono le pensioni d’oro; ma non si possono ricomprendere tra queste quelle al di sotto dei duemila euro. E poi i disinvolti esperti economici di cui si circonda Renzi, così drastici nei confronti dei pensionati, si distraggono e non combattono il fenomeno delle grandi liquidazioni (dico il peccato e non i peccatori: ci sono dirigenti e manager che hanno ottenuto dei bonus oscillanti tra 26 e 100 milioni di euro, indipendentemente dai risultati raggiunti).
Lo stesso discorso vale per la pubblica amministrazione. Non si può fare di tutte le erbe un fascio. La professionalità e l’impegno sul lavoro vanno salvaguardati e valorizzati nel pubblico impiego. È evidente che la situazione richiede, accanto ad una precisa strategia di risanamento e di sviluppo, il cambiamento dei soggetti sociali e degli enti decentrati. I soggetti sociali non possono limitare la loro azione a posizioni solo difensive. Così facendo perdono la rappresentatività e compromettono le conquiste del passato. La concertazione nel passato era accompagnata dalla politica dello scambio. Occorre avere i piedi per terra ed essere realisti. Oggi ci sono cinque milioni di lavoratori che hanno la garanzia dello Statuto dei Lavoratori; sette milioni sono quelli che ne sono privi. Nell’ultimo anno il 75 per cento degli assunti lo era in forma precaria.
«In un Paese ormai preda della deflazione–ha scritto Alberto Orioli su Il Sole 24 Ore–, della disoccupazione quasi doppia rispetto a quella media europea, della produzione in ritirata, dei consumi svaniti, è assurdo bloccare la discussione tra articolo 18 sì e articolo 18 no». È una disputa che si trascina da venti anni. Va affrontata con realismo, senza pregiudiziali. L’esempio della Germania è illuminante. La riforma del lavoro è stata lì determinante per la ripresa della crescita. In Italia dobbiamo fare qualcosa di analogo. Va affrontato e riunificato il problema del lavoro e delle garanzie. Le parti sociali devono contribuire ad adattare lo Statuto alla nuova situazione del lavoro che si è determinata nel Paese.
Il secondo punto è rappresentato dalle autonomie locali; gli sprechi e le disfunzioni vi abbondano. È sproporzionato e controproducente l’atteggiamento dell’Anci e della Conferenza Stato-Regioni che esercitano un diritto di veto su ogni ipotesi di controllo delle loro spese. Si oppongono ai tagli della spesa improduttiva. Non dicono una parola sugli sprechi e sulle ruberie degli enti da loro rappresentati. Hanno impedito l’abolizione delle Province e hanno salvaguardato le municipalizzate, un gigantesco poltronificio, una metastasi diffusa. È incomprensibile aver dimissionato Carlo Cottarelli (commissario alla «spending review») come era avvenuto a suo tempo per Dino Piero Giarda.
E, infine, la lotta all’evasione e all’elusione fiscale. Occorre prevenire, non reprimere. Vanno rispettati i diritti dei contribuenti e va utilizzata una parte delle risorse recuperate per ridurre la pressione fiscale. Renzi ha il merito di aver denunciato le responsabilità della vecchia classe dirigente, agendo di conseguenza. Ha anche il merito di aver contestato il fallimento degli ottimati-tecnocrati, intellettuali che siano. Ha intuito che è necessario ripristinare la supremazia della politica, che in una democrazia significa la ricerca del consenso. Governare è cosa diversa dal comandare. Non bisogna mai dimenticarlo. 

Tags: Renzi Giorgio Benvenuto pubblica amministrazione P.A. Pier Carlo Padoan

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