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Per diminuire il debito e alzare il pil, Renzi passi dall’antitesi alla sintesi

Giorgio Benvenuto, presidente della fondazione Bruno Buozzi

L'andamento del debito pubblico tra aprile e maggio scorso è aumentato ancora di 20 miliardi. Il rapporto debito pubblico-prodotto interno lordo rappresenta un primato negativo per l’Italia. Alla fine del 2013 in percentuale era pari a 132,6; in Germania è al 78,4; in Gran Bretagna al 90,6; in Francia al 93,5; in Spagna al 93,9; in Portogallo al 129; in Grecia al 175,1 per cento.
Nel 2007 con il Governo Prodi eravamo scesi al 103,3, per risalire con Berlusconi al 120,7, con Monti al 127, con Letta al 127. Il fiscal compact o patto finanziario, approvato nel 2012 da tutti i Paesi membri dell’Unione Europea con l’eccezione della Gran Bretagna e della Repubblica Ceca, impone l’obbligo del pareggio di bilancio, cioè l’equilibrio tra entrate e uscite, che l’Italia ha inserito nella Costituzione e che dovrebbe entrare in vigore dal 2015. La riduzione del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno va riportata al 60 per cento, tagliando ogni anno un ventesimo della parte eccedente.
L’Italia, che ha un debito pubblico di 2.166 miliardi, deve tagliare la spesa pubblica per venti anni, cominciando nel 2015 con una sforbiciata di circa 50 miliardi. È un «fiscal diktat». Un macigno sulla strada della ripresa del Paese. Il Governo Renzi si trova nel secondo semestre del 2014 alla Presidenza dell’Unione europea. Renzi ha ottenuto un rilevante successo nelle elezioni europee, più del 40 per cento dei voti; ha abilmente deciso l’affiliazione del Pd al Partito socialista europeo; cerca alleanze per introdurre elementi di flessibilità allo scopo di mitigare i vincoli del «fiscal compact».
È una partita molto difficile. L’Italia non può farcela da sola. La politica economica di Mario Monti è stata controproducente. Sbagliata. Inefficace. Enrico Letta ha avuto poco tempo e troppi problemi. Non è riuscito a fare una politica incisiva. Matteo Renzi sa che la via maestra per ridurre il debito è solo una crescita sostenuta. L’Unione Europea non ha fatto sinora una scelta chiara. Sono passati già due mesi senza che si sia riusciti a definire la composizione del Governo europeo. Addirittura si è spostata alla fine di agosto la ripartizione degli incarichi.
L’Europa si dimostra capace di assicurare il funzionalismo e la cooperazione economica illudendosi di arrivare per questa via, senza idealità e senza idee definite, all’unità europea. L’Europa continua a non esistere come entità politica. La tendenza a fare della politica europea la politica della mediazione e del compromesso permanente tra interessi angustamente nazionali è purtroppo il punto di approdo dell’europeismo tecnocratico.
Ecco le riforme annunciate in Italia: privatizzazione e vendita immobili per la riduzione del debito; piena attuazione della delega fiscale, con la riduzione del «cuneo» delle imprese; contratti flessibili e incentivi alle assunzioni; pagamento dei debiti della pubblica amministrazione; sblocco del credito d’imposta per gli investimenti in ricerca; fondi per le infrastrutture; semplificazioni; modifica del Titolo V della Costituzione con lo stop al potere di veto delle Regioni; miglioramento della giustizia civile con il taglio della durata dei processi e con l’incentivazione alla via stragiudiziale; riforma della pubblica amministrazione.
Ecco quelle programmate per l’Europa: «industrial compact»; cofinanziamento dei fondi Ue fuori dal computo del deficit; Agenzia europea dell’energia; potenziamento della connessione con reti di nuova generazione; creazione dei distretti industriali sovranazionali; istituzione dell’Alto Rappresentante per l’economia globale; impulso alla ripresa con Euro Union Bond e con l’emissione di obbligazioni comuni; creazione di una borsa europea per le piccole e medie imprese; europeizzazione delle politiche migratorie; ampliamento dei poteri del Parlamento europeo per un governo economico dell’Eurozona.
Questi i programmi. Ma quali sono i tempi, i modi e i contenuti? Il Wall Street Journal sottolinea che, «nonostante gli eloquenti e appassionati appelli alla crescita di Renzi, difficilmente la Commissione europea concederà al premier e al suo Paese una qualunque apertura sul fronte dei regolamenti di bilancio». L’Economist rincara la dose: «Renzi è al centro di una domanda persistente: può davvero salvare l’Italia? Finora il suo risultato più importante è stato lo sgravio fiscale a favore dei bassi redditi. Tuttavia, restano dei dubbi sulle sue possibilità di successo sul fronte delle riforme».
Le riforme sono in lista di attesa. Troppe. Addirittura mancano 511 decreti attuativi dei circa 900 previsti dai Governi Monti, Letta e Renzi. Per 14 provvedimenti è stato superato il termine previsto per la loro adozione. In dettaglio mancano le norme attuative del Governo Monti per le seguenti riforme: 19 su 71 sul Salva Italia; 22 su 56 del Cresci Italia; 14 su 36 del Semplifica Italia; 12 su 34 delle semplificazioni fiscali; 7 su 17 della riforma del lavoro; 26 su 98 dello spending review; 26 su 77 dello sviluppo; 38 su 56 dello sviluppo bis.
Ancora peggio è il dato sul Governo Letta. Mancano le norme attuative sui pagamenti della pubblica amministrazione (4 su 18); sul Fare (55 su 83); sul Lavoro (14 su 20); sulla Cultura (16 su 21); sull’Imu 2 (3 su 8); sulla razionalizzazione della pubblica amministrazione (23 su 29); sull’istruzione (32 su 36); sulla legge di stabilità (74 su 83); su Destinazione Italia (32 su 33); sul finanziamento dei partiti (2 su 5); sul riordino delle province (9 su 9).
Per il Governo Renzi il dato è sconcertante: un solo provvedimento attuato su 84 previsti. In particolare si è in attesa, dal 26 giugno 2012, della norma attuativa del credito d’imposta del 35 per cento dei costi aziendali sostenuti per le assunzioni o le trasformazioni di contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato di personale altamente qualificato. Fermo il decreto attuativo per il bonus investimenti previsto dal decreto legge «Destinazione Italia» del 24 dicembre 2013. E così via dicendo.
Il bilancio della legislatura 2008-2013 è disastroso: 250 miliardi di debito e 83 di tasse in più. Sono gli effetti aggregati delle manovre sui conti dello Stato e degli enti territoriali. Sono i risultati della cura dell’austerità imposta con particolare accanimento dal Governo Monti: una crisi, quella italiana, affrontata soprattutto a colpi di tasse e tariffe. Ciononostante i flussi di cassa effettivi delle entrate tributarie ed extratributarie hanno viaggiato a livelli più bassi rispetto a quelli degli accertamenti, cioè delle somme iscritte a bilancio a prescindere dal loro effettivo incasso. In particolare, le entrate correnti 2012 rispetto a quelle del 2008 sono superiori di 40 miliardi sulla carta, ma di soli 22 miliardi nella cassa. E il 2013 darà in consuntivo dati ancora più negativi.
Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan continuano a promettere di abbassare la pressione fiscale, ma le famiglie italiane devono fare i conti con imposte sulla casa molto più alte che in passato (5 miliardi in più). In particolare, l’imposta sulla prima casa doveva ammontare a 1,7 miliardi; invece la relativa spesa per le famiglie sarà oltre il doppio, in alcuni casi il triplo. L’Agefis ha calcolato che il gettito Tasi-Imu arriverà a 26 miliardi, rispetto a quello dell’Ici che ammontava a 9,2 miliardi, esclusa la prima casa.
Nell’azione di contrasto all’evasione fiscale Equitalia ha ottenuto risultati modesti. Dai grandi evasori sono stati recuperati solo 10 miliardi su 300. Delle richieste oltre i 500 mila euro appena il 3 per cento ha successo. Sono banche, società di assicurazione, grandi e medie imprese, privati con fortune a otto zeri che non hanno versato le imposte sui redditi o l’Iva. Dall’Agenzia delle Entrate in particolare dal 2000 al 2014 sono state trasmesse 70 milioni di richieste di pagamento per imposte sul reddito e Iva evase, per il totale di 550 miliardi.
Il 75 per cento riguarda debiti inferiori ai mille euro: Equitalia ne ha riscosso il 40 per cento dando all’Erario 4 miliardi di euro. Il 20 per cento sono cartelle con cifre da mille a 10 mila euro: Equitalia ne recupera il 25 per cento per 10 miliardi di euro. Il 5 per cento riguarda crediti superiori ai 10 mila euro: Equitalia ne incassa uno su cinque. Se la cifra supera il mezzo milione di euro, la percentuale di recupero scende sotto il 2 per cento, nonostante sia qui il grosso dell’evasione fiscale.
I trucchi per non pagare sono infiniti. Su circa 700 miliardi di tutti i tipi affidati ad Equitalia da Agenzia delle Entrate, Inps ed enti locali, l’80 per cento si riferisce a falliti o apparenti nullatenenti. Insomma un sistema, quello di Equitalia, debole con i forti, forte con i deboli. In questo scenario un cenno particolare va fatto nei confronti dei pensionati. Appartengono alla generazione in maggior difficoltà. Il prelievo fiscale su una pensione tedesca assomma a 39 euro. Quella sulla pensione italiana supera i 4 mila euro annui. L’Italia è l’unico Paese dell’Unione europea nel quale un pensionato paga in proporzione più tasse di quante ne pagasse quando era al lavoro. Il prelievo è più alto per le pensioni di importo più basso. Non finiscono qui le discriminazioni. Dal 2008 il potere d’acquisto dei pensionati italiani ha perso per strada 1.419 euro. Esclusi dall’erogazione del bonus di 80 euro, i pensionati hanno pagato un contro-bonus di 40 euro.
La legge di stabilità per il 2015 è un appuntamento fondamentale. La situazione è peggiore di come l’immaginiamo. Sale il numero dei poveri, aumenta la disoccupazione, i conti pubblici non tornano, cresce la paura del futuro. Occorrono 4,4 miliardi per disinnescare le clausole di salvaguardia fiscale e per evitare la tagliola dei tagli lineari definiti nella legge di stabilità del 2014. A questi si devono aggiungere 6,6 miliardi necessari per rendere strutturale il bonus da 80 euro. In particolare le clausole di salvaguardia rappresentano una spada di Damocle. Nella legge di stabilità del 2014 si prevede un aumento della tassazione, sotto forma di ritocchi ad accise, aliquote e detrazioni fiscali, per 3 miliardi nel 2015 e per 7 miliardi nel 2016 qualora non vengano realizzati i corrispondenti risparmi con la spending review.
La Banca d’Italia stima che per garantire gli obiettivi di riduzione del deficit e la stabilizzazione del buono Irpef occorrerebbero almeno 14,3 miliardi, al netto di ulteriori interventi per spese indifferibili. Gli impegni di spesa diverrebbero ancora più onerosi se il Governo Renzi estendesse la platea dei beneficiari del bonus Irpef a nuclei monoreddito con più figli, pensionati e incapienti. Insomma, i tagli di spesa dovranno essere di 13,6 miliardi nel 2015 e di 28,6 miliardi nel 2016, se si vorranno evitare nuovi aumenti di tasse.
Va intaccata la zona franca rappresentata dalla giungla delle partecipate e dagli sperperi delle Regioni. Va ripresa con decisione la battaglia per l’occupazione. Il Jobs Act è nel pantano. Sono passati sei mesi dalla sua approvazione: la discussione in aula al Senato è slittata a fine agosto, in attesa della difficile intesa nella maggioranza sul contratto a tutele crescenti. Dopo il Senato toccherà alla Camera, quindi ai decreti delegati. La riforma, insomma, langue. Dai cento giorni si è passati ai mille giorni. Il traguardo slitta sempre più in là. Il Jobs Act si deve fare largo nell’ingorgo parlamentare.
Troppi decreti, innumerevoli articoli da discutere ed approvare entro i 60 giorni obbligatori per la conversione dei decreti. Il tutto è complicato, in stridente contraddizione con gli intenti semplificatori, dalla mole delle norme attuative che continuano a moltiplicarsi mentre si fa fatica a smaltire quelle ereditate da Letta, Monti, Berlusconi e persino Prodi. Troppe idee, troppe riforme epocali, troppi annunci, tanti «ballon d’essai», tante scadenze rinviate: Renzi deve ora finalmente definire le priorità e indicare le linee e i contorni di un disegno complessivo.
È importante che si sia passati da una fase nella quale il Governo spiegava, rassegnato, che non si poteva fare nulla, ad una fase nella quale c’è lo sforzo di produrre cambiamenti necessari per lo sviluppo economico e sociale. L’impegno, lo slancio non sono però di per sé sufficienti. Ci vuole organizzazione. È necessario il metodo. Occorre dialogare con il Paese, con i corpi intermedi, con le forze sociali. C’è il coraggio di fare, ma manca lo schema di gioco. Se non c’è bisogno di squadra, il solista può segnare qualche goal ma non riuscirà a far vincere la squadra.
Insomma: il Governo Renzi deve riuscire a passare dalla fase dell’antitesi a quella della sintesi. Solo così si potrà realizzare un’Italia con meno debito e con più prodotto interno; solo così si potrà operare in una Europa della crescita e del lavoro.

Tags: Settembre 2014 Renzi Giorgio Benvenuto

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