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Codice deontologico dei medici, una spaccatura nella storia della medicina italiana

il prof. Ivan Cavicchi, docente di Sociologia dell’Organizzazione sanitaria di Filosofia della Medicina dell’Università Tor Vergata di Roma

Ampiamente illustrato nel numero di Specchio Economico dello scorso mese di luglio/agosto, il nuovo Codice deontologico dei medici offre ancora una serie di spunti da esaminare e commentare. Ad esempio il fatto che l’unico articolo dedicato alla relazione di cura, precisamente l’articolo 20, è, riferendosi all’assistito, indiscutibilmente regressivo.

Relazione e giustapposizione
Il Codice chiama «relazione» quella che da secoli è una «giustapposizione» tra ruoli diversi, del medico e del paziente, nella quale si parla di libertà di scelta, di condivisioni ma in modo «contro stante», cioè nelle «rispettive autonomie e responsabilità». Il Codice inoltre parla di «alleanza di cura» ignorando che ormai la «reciproca fiducia» in molti medici e in molti cittadini non c’è più, e che il «mutuo rispetto» è stato scalzato ormai diffusamente con il contenzioso legale. E poi la «chicca» finale, a dimostrarci quanto poco chiaro sia per il Codice il significato di relazione: «Il tempo della comunicazione–cioè il tempo per informare il malato–è tempo di cura», cioè oltre il tempo della cura c’è un tempo per informare sulla cura.
In un vera relazione di cura il malato e il medico sono inter-relati, sussistendo tra loro un rapporto di implicazione stretta, per cui non esiste un tempo per curare e un tempo per informare, esiste una relazione che «informa» in tutti i sensi l’intero processo di cura. In una società che si fonda sulle relazioni, le interconnessioni, le reti, i network con un malato-esigente fortemente relazionale (empowerment), il Codice ripropone sostanzialmente una medicina senza relazioni con la società, cioè giustapposta e contro stante. L’unica relazione che il Codice definisce con il malato è quella legale.

Professional ethics tra principi e utilità
La deontologia (professional ethics) riguarda i comportamenti degli operatori e quindi le facoltà, i doveri e le responsabilità proprie ai loro status professionali. Essa rientra in quel genere di etiche definite «secondo il ruolo», e che definiscono la famosa «identità professionale» con due funzioni: per la società indica i doveri da attribuire ad una professione, per gli operatori indica delle regole da seguire per risolvere i loro problemi pratici. Abbiamo visto nel primo articolo che oggi, con buona pace di Kant, i «principi» non bastano a definire un’etica professionale. Oggi i Codici deontologici in ragione dei problemi pratici che hanno gli operatori, sono sollecitati a regolare i comportamenti professionali sulla base delle utilità, come le chiamava Jeremy Bentham, (Deontology or scienze of morality 1834), nel senso che la misura etica degli atti professionali si dovrebbe basare sul «valore effettivo» che questi hanno di promuovere utilità per i malati e per gli operatori. Oggi nella sanità le utilità da promuovere sono tante, comprendono cioè tutto ciò che concorre alla cura e alla produzione di salute. Il compito della deontologia - letteralmente «ciò che si deve fare» - è assicurare, in base ai risultati di utilità auspicati, una linea di condotta professionale pertinente con la realtà medico-sanitaria. Un Codice, se non è pertinente con i problemi pratici dei medici e dei malati, non produce utilità, cioè è inutile.
Oggi «ciò che si deve fare» per un operatore dipende molto da «ciò che l’operatore può fare», quindi da come è formato, da come è organizzato, dai rapporti con altre professioni, dai metodi che usa, dai contesti in cui lavora, dai limiti che lo condizionano, dal genere di malato che ha di fronte. «Ciò che si può fare» dipende pragmaticamente da «ciò che si è in grado di fare», per cui la deontologia non è più «ciò che si deve fare», cioè quella che si deduce dai principi di etica medica (articolo 1), ma diventa la condizione di base per indicare «ciò che si potrebbe fare se...». Se il Codice fosse pertinente con la realtà «il medico potrebbe...». Cioè la deontologia che oggi serve non è quella che ci propone il Codice, ma quella nuova delle utilità e dei condizionali. La deontologia è la prima utilità e il primo condizionale per la professione. «Condizionale» in termini pratici vuol dire che un medico è relativo a ciò che lo esprime e permette.

Aggiornamento o riforma
Ciò che esprime il medico nel Codice abbiamo visto che è vecchio e retroverso, per cui l’aggiornamento per questo Codice consiste nell’aggiungere al vecchio solo qualcosa di più, nel ribadire qualcosa che è a rischio, nel difendere delle prerogative. Ma se nel terzo millennio vale la logica condizionale «il medico sarebbe tale se..», come si fa a riproporre quella del secondo millennio, «il medico è in quanto tale»?
Il Codice aggiunge, alla propria edizione precedente, pseudo novità come la medicina militare, la medicina potenziativa e la cui logica sarebbe discutibile: non si capisce perché altri settori della medicina ad alta complessità che operano sui fronti deontologici estremi, come ad esempio l’oncologia, non trovino specifica menzione. Ma la vera operazione che esso compie quasi in maniera ossessiva è ribadire la titolarità del medico attraverso l’attribuzione delle «esclusive e specifiche competenze» (articoli 3, 11, 13, 44) come se questa titolarità fosse in pericolo.
Ma oggi la titolarità o la centralità, che dir si voglia, non passa per le competenze, comunque ribadite dagli ordinamenti e comunque oggetto di forti conflitti tra le altre professioni, e meno che mai passa per il Codice che resta norma secondaria e volontaria. Oggi, secondo me, se puntiamo a risolvere «la questione medica», la titolarità passa per altre strade: per un’idea nuova di professione; per una idea nuova di autonomia e di responsabilità più che di centralità; per nuovi rapporti cooperativi tra autonomie con le altre professioni.
Oggi la titolarità del medico, a mio parere, passa per «l’autore», cioè per un altro genere di medico, che non difende strenuamente l’esclusività delle proprie competenze nei confronti del mutamento che l’assedia, perché la deontologia non è «Fort Apache» e il mutamento non è «Cochise» e i suoi indiani. «Repetita iuvant» va bene, ma dal punto di vista pratico non serve molto ribadire, mentre tutto è in discussione, le norme degli ordinamenti sulla titolarità delle competenze; serve semmai ripensare gli ordinamenti che ormai fanno acqua da tutte le parti.
Ribadisco quindi l’imprescindibilità della coevoluzione delle professioni. Nel momento in cui una storica divisione del lavoro e una storica forma di cooperazione tra professioni, in via irreversibile di ridiscussione grazie alle riforme che altre professioni hanno introdotto nei loro ordinamenti professionali, colpisce che il Codice dedichi ai rapporti intra e interprofessionali tra «colleghi» ben due titoli (10,12), mentre ai rapporti con le altre professioni uno striminzito articolo di circostanza (66). Questo è un altro esempio di come il Codice sia retroverso e quindi poco pertinente con la realtà che muta.

Deontologia e epistemologia
Infine c’è un altro aspetto del Codice che vale la pena di considerare, e cioè i rapporti tra deontologia ed epistemologia. Se la prima è «ciò che si deve fare», la seconda è «come fare ciò che si deve fare». Se il medico, come dice il Codice, è l’insieme delle sue competenze (articolo 3), il problema di come il medico usa le competenze è epistemologico.
Ispirandosi alla logica del restayling e non a quella del rebuilding, anche in questa circostanza il Codice è indubbiamente regressivo. I fenomeni che ho riassunto con l’espressione «Questione medica», oltre che porre problemi deontologici, pongono anche grossi problemi epistemologici. Ma il Codice nei loro confronti si mostra incomprensibilmente indifferente. Esso si limita a richiamare logore epistemologie «basate» sulle evidenze scientifiche disponibili, sull’uso ottimale delle risorse, sull’efficacia clinica tenendo conto «delle linee guida diagnostiche terapeutiche», dei «protocolli diagnostico-terapeutici» e dei «percorsi clinico-assistenziali» (articolo 13), ignorando che, soprattutto grazie all’idea di «malato complesso» e alle contraddizioni economiche che certo evidenzialismo ha provocato, le linee guida, l’ebm e tutto il resto sono di fatto in ridiscussione. Invito a leggere su QS del 27 maggio scorso l’articolo di Luca Pani e Saverio Vasta sui limiti dell’ebm in rapporto agli studi clinici randomizzati, ma anche - mi sarà consentita una piccola rivalsa -, il mio saggio sull’ebm di ben 14 anni fa, pubblicato in «La medicina della scelta».
Non si tratta, sia chiaro, di mandare al macero le procedure basate sull’evidenza, ma di accettare l’idea che il proceduralismo al quale esse si ispirano non è più considerato, per fortuna, una garanzia assoluta di pertinenza clinica. 14 anni fa, attaccato come un eretico da tutte le parti, io sostenevo questo e oggi finalmente, grazie alla presa di coscienza sulla complessità in gioco, ho la soddisfazione di vedere che l’epistemologia nella realtà clinica si sta spostando, come io proponevo, sempre di più dal valore della «procedura» alla capacità, all’abilità e alla ragionevolezza di chi procede.

Contraddizioni
Insomma la tendenza è rimettere al centro, di nuovo, il soggetto che opera, quindi l’autore e l’agente. Del resto, se le relazioni, come io credo, non sono solo banalità deontologiche ma nuovi modi epistemologici per conoscere, giudicare, agire, come si fa a non ridiscutere la vecchia epistemologia proceduralista fondata sulla negazione delle relazioni? A questo proposito nel Codice vi è una contraddizione esemplare, tra gli articoli 13 e 15, cioè tra un articolo che subordina tutte le pratiche mediche alle evidenze scientifiche disponibili, e un altro che dà la possibilità al medico di praticare «la medicina non convenzionale», ma senza sottoporla al vincolo delle evidenze scientifiche disponibili, per vincolarla unicamente al rispetto «del decoro e della dignità del cittadino».
Da sempre sono convinto che disporre di più scuole di medicina sia una ricchezza. Faccio solo notare che: se vale l’articolo 13, le medicine complementari, non essendo validate dalle classiche evidenze scientifiche, non dovrebbero essere accettate; se vale l’articolo 15, è inutile scrivere l’articolo 13 perché le medicine complementari hanno altri generi di evidenze. Come uscire dalla contraddizione? Semplice: se il Codice accoglie, come è giusto che faccia, le medicine non convenzionali, ne deve accettare anche le rispettive epistemologie: olistica, relazionale, personalizzata, biotipale ecc. In questo caso l’articolo 13 dovrebbe, oltreché riferirsi alle evidenze scientifiche, accogliere anche altri generi di evidenze come quelle relazionali, e ricomporre a beneficio del malato un’epistemologia molto più ricca.
Concludendo: per quanto riguarda il discorso delle utilità e dei condizionali deontologici di un’eventuale professional ethics e la necessità di ridefinire co-evolutivamente le autonomie delle professioni e i loro rapporti, e infine le questioni epistemologiche, il Codice all’analisi risulta contraddittorio, regressivo e per questo non pertinente.

 

Sunto della lettera aperta al presidente della Federazione nazionale degli ordini di medici, chirurghi e odontoiatri Amedeo Bianco:

Caro Amedeo,
ho studiato il nuovo Codice deontologico che avete approvato. La mia conclusione che sento il dovere di segnalarti è che è privo di quelle basilari garanzie che ne dovrebbero fare uno strumento, insieme ad altri, di governo della realtà particolarmente problematica del medico. La bassa pertinenza del Codice non sarebbe un problema insormontabile (gli ultimi codici sono stati obiettivamente a bassa pertinenza dal momento che i processi che li attraversano vengono da lontano), ma oggi è diverso perché quella che mi ostino a chiamare «questione medica» sta degenerando in una pericolosa delegittimazione senza ritorno.
Se un Codice deontologico non è pertinente con la realtà del medico, è inutile; proporre ai medici di servirsene per risolvere i loro problemi è come abbandonarli alla loro difficile condizione professionale. Mi sono chiesto come sia possibile approvare un Codice inutile, come sia possibile che la Fnomceo, cui non mancano risorse finanziarie, professionali, apparati, un super presidente come te e un quadro dirigente esteso come quello degli ordini provinciali, possa bucare una scadenza così importante.
Il Codice è diventato un rito formale interno del sistema ordinistico, funzionale alle necessità dei suoi apparati, gestito come una pluralità di interessi ma non di competenze effettive e per questo funzionale alle esigenze interne di legittimazione degli incarichi. Ritenere che la deontologia sia un «affaire» esclusivo di una commissione di medici è un grave errore, come voler costruire una casa senza l’ausilio delle tante specialità. Oggi la deontologia è per antonomasia complessità filosofica, scientifica, organizzativa, economica, e i medici della commissione devono discuterne con chi ha imparato ad usarla; non si scrive un Codice deontologico senza un «progetto di medico» la cui definizione non spetta alla commissione ma agli organismi dirigenti della Fnomceo; si era iniziato a definire questa nuova professione nel giugno del 2008 a Fiuggi, con la prima conferenza nazionale della professione medica, ma quell’idea fu a mano a mano abbandonata; in questi anni abbiamo assistito su questioni primariamente deontologiche quasi ad un disimpegno e al crescere di una sorta di sindacalizzazione della deontologia. Ma la «questione medica» nonostante il contributo dei sindacati, resta deontologica.
L’atteggiamento di molti medici verso il Codice deontologico è spesso nichilista, lo percepiscono come strumento senza nessun valore pratico, e troppi sono i medici che non conoscono il significato di deontologia. Questo Codice ci dice soprattutto dei problemi dell’ordinistica italiana e per questo ritengo non facile scrivere una deontologia pertinente se l’ordinistica non si sforza di essere pertinente con la realtà. Sono convinto che «aggiornare» vecchi Codici non sia sufficiente, i problemi strutturali dei medici richiedono un pensiero riformatore, ma su questo la pensiamo diversamente, tu sei per la manutenzione del sistema, io per la sua riforma.
Ho sempre pensato che i manutentori della sanità siano tali non perché sia necessario, ma perché non hanno idee per fare diversamente. La conseguenza della logica della manutenzione è ritenere, come fa il Codice, che sia possibile inseguire la perduta centralità del medico e recuperare ciò che si è perso senza mai mettersi in gioco.
Questo Codice deontologico, tradendo i suoi problemi di pertinenza, sembra dire che la «questione medica» non è primariamente deontologica. E questo è folle. A Fiuggi nel 2008 tutti eravamo convinti che il medico fosse finito in una antinomia devastante tra una nuova domanda di salute e i forti limiti non solo finanziari imposti alla sua autonomia di giudizio. Dalla mia analisi emerge che il codice accetti di stare nell’antinomia, non di superarla, limitandosi ad «aggiornare» un vecchio modello di deontologia; imbocchi la strada dell’adattamento della professione ai contesti di lavoro inseguendo un pericoloso ideale compatibilista.
Il rischio è che i doveri del medico siano sempre più definiti in modo extra o para deontologico, fuori dagli ambiti ordinistici. Ma se le deontologie saranno definite oltre gli ordini, che senso ha per un medico pagare contributi per un ordine che non c’è più? So che chi scrive lettere aperte crea problemi e complica la vita, e che questa lettera sarà digerita dallo stomaco potente dell’ordinistica e che tutto continuerà come deve continuare. Mi spaventa l’idea che i nostri medici possano tirare a campare per altri anni con un Codice inservibile. A questa lettera non è seguita nessuna risposta. A tutt’oggi siamo in attesa di sapere come si comporterà la Fnomceo nazionale.

Ivan Cavicchi   

Tags: Settembre 2014 professioni sanitarie Ivan Cavicchi medici

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