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parte 1: codice deontologico dei medici, una spaccatura nella storia della medicina italiana

Prof. IVAN CAVICCHI, docente di Sociologia dell’Organizzazione sanitaria di Filosofia della Medicina dell’Università Tor Vergata di Roma

Premessa. Il 19 maggio a Torino la Fnomceo, vale a dire la Federazione nazionale degli ordini dei medici, ha approvato il nuovo codice deontologico. Dopo un’amplissima consultazione che ha visto coinvolti centinaia di ordini provinciali, giuristi e bioeticisti, l’esito della votazione ha sancito una spaccatura che non ha precedenti nella storia della medicina italiana. Dieci ordini provinciali si sono pronunciati contro, due ordini provinciali si sono astenuti, per un totale complessivo di medici rappresentati oscillante intorno a 60 mila. Il rischio che si corre, se non si riparerà questo strappo, è che, in ragione dell’autonomia dell’ordine provinciale, si possano adottare nel Paese codici deontologici diversi. Coloro che non hanno votato il codice hanno dichiarato di voler adottare quello precedente del 2006.
Eppure questo codice ha introdotto notevoli novità quali: la medicina potenziativa (articolo 76), volta non a curare ma a migliorare lo stato di benessere, sino a superare gli stessi limiti della natura; la medicina militare, articolo condiviso con il Ministero della Difesa; l’applicazione delle tecnologie informatiche alla sanità; la partecipazione del medico alle organizzazioni sanitarie; un occhio più attento all’ambiente, alla prevenzione del rischio clinico e alla sicurezza delle cure; un discorso sul controllo del dolore e sulle cure palliative; torna, in alcuni articoli, il termine «paziente» quando si parla di «cure», e quello di «persona assistita» negli articoli di più ampia accezione.
Ma allora, come si dice a Roma: se l’acqua è tanta, perché la papera non galleggia? Cosa è successo nell’assemblea nazionale della Fnomceo? Perché una spaccatura così grave, che mostra in modo inequivocabile la crisi in cui si trova il medico italiano? La goccia che ha fatto traboccare il vaso, da quel che si legge, sembra essere l’articolo 3 nel quale, secondo chi ha votato contro, si sostiene che i doveri del medico sono derivabili dalle esigenze gestionali delle aziende; se fosse vero significherebbe consegnare la deontologia nelle mani del management. Di parere diverso sono coloro che hanno votato a favore e che vedono in questo articolo nulla di più di una normale relazione tra il medico e i suoi contesti lavorativi. Ma quel che stupisce, a parte la discussione su questo articolo 3, è che tutte le parti in causa sembrano ignorare che il problema di questo codice è la sua «vetustate»; il rimasticare, nonostante le novità introdotte, una vecchia idea di deontologia riproponendo una figura di medico del tutto inadeguata con la realtà.

Il criterio di pertinenza. Ancora non è stato inventato un modo per misurare la qualità di un codice deontologico. Potremmo però ricorrere al «criterio di pertinenza» cioè valutare se il codice è pragmaticamente adeguato alla realtà del medico. Quindi il criterio che dichiaro quale postulato dei miei ragionamenti e del quale intendo avvalermi è «pertinenza come validità».
Ma come si fa? Semplice: si assume la realtà del medico, cioè i suoi problemi, limiti, contraddizioni, possibilità, quindi tutti i fenomeni che lo riguardano («explananda»), come pietra di paragone e li si confronta con gli articoli del codice. Il codice è pertinente se risponde agli explananda scelti, cioè se li spiega deontologicamente quale realtà. Propongo, come secondo postulato ai miei ragionamenti, di riassumere l’insieme degli explananda con l’espressione «questione medica».
Da dove partire? Partirei dai presupposti del codice dai quali sono dedotte le sue regole, con una doppia finalità: valutare se il codice è coerente con i suoi presupposti; valutare se i presupposti sono pertinenti con la questione medica. I presupposti che esaminerò in questo articolo sono sostanzialmente due: la sua premessa strategica e la sua definizione di deontologia. La premessa strategica dichiarata dalla Fnomceo è quella di «aggiornare» le regole del precedente codice deontologico del 2006. Il suo scopo quindi non è «riformare» ma «migliorare», rieditare in forma aggiornata il codice precedente, che a sua volta aveva migliorato e rieditato quello di ancor prima ecc., come si fa con i trattati che si aggiornano ma senza mutarne mai il modello.
Si tratta quindi di capire se il codice riesce a fare un buon lavoro di aggiornamento, se l’aggiornamento del codice è pertinente con la «questione medica», se basta aggiornare per avere la pertinenza desiderata.

Lacunoso e contraddittorio. Il lavoro di aggiornamento del codice, valutando tutti i cambiamenti importanti della medicina e della sanità, risulta essere lacunoso e contraddittorio. Lacunoso perché ignora tante cose, è disattento nei confronti dei tanti cambiamenti della realtà sociale, medica e sanitaria. Un esempio per tutti: ignora il fenomeno più significativo che ha investito la medicina dei nostri giorni, vale a dire la «femminilizzazione della professione», per cui omette di aggiornare le proprie regole sulle discriminazioni di genere, sui soprusi di cui le donne medico sono vittime, ma anche sui nuovi problemi che questa «nuova maggioranza» pone in termini di rappresentanza. Contraddittorio in tanti articoli ma soprattutto in quelli che da una parte traslano nei comportamenti professionali i valori tipici dell’economicismo di questi anni, anche se essi sono stati il più formidabile fattore di condizionamento dell’autonomia del medico (articolo 6); dall’altra esaltano il valore dell’autonomia quale valore incondizionabile (articoli 3, 4, 13, 79).
Si è discusso molto sull’articolo 3, a proposito del rischio di condizionare le «attività» del medico con le «innovazioni organizzative e gestionali» il che, se fosse evolutivo di professionalità, non sarebbe un problema; ma il vero nodo è nell’artcolo 6, nel quale l’interdipendenza tra professione e gestione è apertamente dichiarata. In questo articolo gli atti della professione sono vincolati ai principi del marginalismo, quindi all’uso ottimale delle risorse, ai principi dell’appropriatezza e a quelli dell’efficacia, che sono principi e, in quanto tali, inconfutabili, ma che, attuati nelle realtà aziendali, diventano tutto e il contrario di tutto. Gli errori del codice sono due: assumere questi valori in modo decontestualizzato cioè acriticamente, e non subordinarli, proprio perché trattasi di valori con un’alta ambivalenza e ambiguità, a regole deontologiche precise di salvaguardia dell’autonomia professionale.

Definizione di deontologia. Per quanto riguarda la «definizione» di deontologia (articolo 1) che il codice ci fornisce, è necessario valutare se le premesse dalle quali essa è dedotta sono pertinenti con la realtà. Per essere pertinenti, le premesse della definizione dovrebbero riferirsi agli explananda, ma in realtà esse si riferiscono a principi tautologici. Il codice «identifica le regole» ispirandosi «ai principi di etica medica che disciplinano l’esercizio professionale del medico (articolo 1). In questo modo la definizione di deontologia che viene proposta è teorica e, in quanto tale, fuori dalla realtà e quindi non pertinente. Dov’è il problema? Proprio la «questione medica» è la dimostrazione che i «principi» e i «valori» tautologici, dentro contesti finanziariamente complessi sono fortemente condizionanti le autonomie professionali per cui, a confronto con la realtà, diventano «petizioni di principio» e nulla più. Inevitabilmente un codice che non si rapporta ai problemi dei medici ma alle petizioni di principio finisce per essere irrealistico e rituale.
Con ciò non sto dicendo che nel codice non si debbano definire principi e valori, ma solo che non basta enunciarli; serve cioè accompagnarli con dei «condizionali» che ne garantiscano l’uso e l’applicazione razionale e ragionevole. I principi, per di più, anche quelli dell’etica medica, enfatizzano per loro natura i fini presupponendo una giustificazione che oggi in sanità non può più essere data, cioè che «i fini giustificano i mezzi». La «questione medica» dimostra esattamente il contrario, vale a dire, che nella pratica ordinaria oggi sono «i mezzi che giustificano i fini». Oggi i principali problemi dei medici nascono dal fatto che la loro autonomia è subordinata all’impiego dei mezzi disponibili. Nonostante le petizioni di principio circa l’autonomia professionale, la deontologia del codice risulta purtroppo inquinata dall’economicismo, e in qualche caso ad esso subordinata. Oggi partire dai principi e non dai problemi è un’operazione discutibile anche perché si pensa che la deontologia sia una, cioè quella che corrisponde a certi principi, ma è molto riduttivo parlare di «deontologia» al singolare, perché i fenomeni che interessano il medico sono tanti, al punto da sollecitare più «etiche deontologiche».
Se dietro ad un codice vi è sempre un insieme di fenomeni ai quali corrispondono etiche deontologiche diverse, allora il difficile è trasformare questo insieme in un sistema di regole non contraddittorio. Per armonizzare le regole tra loro ci vuole questa volta un’idea-ideale di medico che coordini in modo evolutivo l’elaborazione deontologica. A partire da questa idea-ideale di professione si tratta di convocare e armonizzare tutte le etiche che servono per scopi deontologici.
Nel codice questa nuova idea-ideale non c’è. Cosa fa il codice? Assume implicitamente quella del medico di ieri aggiornandola, non quella del medico di domani, cioè riformandola; cioè assume un’idea tradizionale di professione che, proprio perché tradizionale, è, rispetto ai mutamenti in essere, inevitabilmente regressiva. Cosa avrebbe dovuto fare il codice? Avrebbe dovuto: abbozzare una idea-ideale di medico per il terzo millennio; delegare alla sua autonomia la mediazione tra principi e realtà, tra fini e mezzi, tra etica, scienza ed economia; condizionare con precisione la sua autonomia a criteri di «razionalità» e di «ragionevolezza», in grado entrambi di garantire tanto il raggiungimento del «giusto fine», quanto l’impiego del «giusto mezzo».
L’idea di «autore», che tutti mostrano di apprezzare in teoria, è una idea nuova di medico, un ideal tipo, calibrata sul terzo millennio, che, in cambio di autonomia, assicura responsabilità facendosi valutare sui risultati. Il medico autore può riprendersi l’autonomia perduta proponendosi quale mediatore ragionevole tra i principi, i valori e la realtà, tra i fini della medicina e i mezzi della sanità, tra l’azienda e la società. Se non sarà sua, la mediazione sarà di altri, cioè egli sarà suo malgrado mediato. Ricorrendo a una metafora che i medici conoscono bene, si potrebbe definire l’autore come il «genotipo professionale» (corredo professionale, assetto funzionale, identità, possibilità, limiti) attraverso il quale si definisce il «fenotipo» cioè i suoi tanti atti e comportamenti professionali senza essere costretti, come fa il codice inutilmente, a defaticanti specificazioni. Il «genotipo professionale» del medico, cui il codice si riferisce, è quello che si forma tra l’800 e il ‘900, per cui il «fenotipo professionale» che esso descrive, pur aggiornato qua e là, è superato.

Questione «malato». Una questione che ha fatto discutere è stata come definire il malato: «paziente» e «persona». Il lessico del codice, a questo proposito, è vario con alterni significati di base e alterni significati contestuali, ma il significato medio che prevale è «assistito». Nel codice questo termine è ripetutamente usato sia come sostantivo che come attributo. Si tratta di un vecchio concetto di malato, che oggi è stato radicalmente rivisto dalle teorie del «nursing», e che rientra negli ambiti concettuali e operativi delle scienze infermieristiche. Ma, a parte ciò, il problema di come definire il malato non è banalmente nominalistico, perché chiama in causa i rapporti complessi tra semantica, deontologia e realtà.
Mi spiego meglio con una domanda: i significati che il codice attribuisce al malato, nelle sue varie denominazioni, sono pertinenti nei confronti del malato reale? Premetto che a mio parere, come ho detto tante volte, la «questione medica» si spiega principalmente, oltre che con l’ingresso sulla scena del limite economico, anche con quello di una figura culturalmente e socialmente nuova di malato, il famoso «esigente». Entrambi i fenomeni, anche se in modo diverso, condizionano l’autonomia professionale del medico e, interagendo, hanno un effetto finale spiazzante. L’esigente è una metafora di ciò che è «altro» dal paziente, e per il medico costituisce un problema perché è un rilevante cambiamento antropologico, sociale e politico della sua «controparte di ruolo» che si emancipa dal suo vecchio status di «beneficiario» e che chiede al medico di essere un altro genere di medico; un rilevante cambiamento ontologico della sua premessa cognitiva dalla quale prende forma il ragionamento clinico, e che chiede al clinico di essere un altro genere di clinico. In sintesi: per essere pertinente, un codice deontologico non può ignorare ciò che chiede il malato. E qui cominciano i dolori.

L’assistito. Il codice, perseguendo solo uno scopo di aggiornamento e non di riforma, e quindi escludendo dai propri explananda la ridefinizione culturale di malato, si preclude qualsiasi possibilità di essere pertinente. Il suo paradosso è che il malato nuovo, indipendentemente da come chiamarlo, non è tra gli explananda che definiscono la deontologia. Il codice quindi, è come se ignorasse i cambiamenti che riguardano il malato, limitandosi a chiamarlo «assistito» e dedicandogli in questo senso pochi articoli (titolo 4), nulla di più. Al contrario il malato, se non altro perché gli Ordini nascono storicamente per la tutela dei cittadini, non può che essere il primo explanandum di un moderno codice deontologico, per almeno due ragioni: perché rappresenta il bisogno, la domanda e quindi il fine della medicina, e perché come ontologia egli è la premessa di qualsiasi cognizione, atto, comportamento, del medico.
Se la premessa è quella «dell’assistito», quindi un classico paziente in «carne ed ossa» cioè con un’ontologia bio-clinico-organicista, è inutile chiamarlo persona, come è inutile parlare di relazioni, di umanizzazione, di personalizzazione, di centralità del malato, perché la cognizione clinica prima e gli atti clinici poi, saranno dedotti tutti da questa premessa, e tutto si ridurrà ad una sciatta e banale amabilità paternalistica. Purtroppo il codice si riferisce ad un malato che non c’è più, per cui esso è visibilmente non pertinente.
Ma c’è un altro aspetto che stranamente è sfuggito ai commentatori e che, a mio parere, invece è molto significativo, proprio perché conferma il discorso appena fatto: il codice non si limita a ribadire il vecchio concetto di «assistito», ma estende questo concetto costruendo una figura per certi versi inedita di «assistito assistito», cioè di un soggetto sottointeso perché «assistito» da un «rappresentante legale».
Questa figura di «assistente legale dell’assistito» non è completamente nuova: essa era già presente nel codice del 2006, ma in quel caso richiamata per questioni strettamente legali quali la sfiducia, il consenso relativo a minori e incapaci, il trattamento dei dati (articoli 12, 28, 37). Con il nuovo codice il «rappresentante legale» dell’assistito ne prende addirittura il posto, chiamato in causa su questioni di informazione, comunicazione, consenso, dissenso, rappresentanza (titolo 4), ma anche su questioni che attengono le procedure diagnostiche e gli interventi terapeutici (articolo 16), il rapporto fiduciario (articolo 28), i doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili (articolo 32). Il codice così mostra di accettare in pieno la logica della medicina difensiva, altrimenti detta della «resilienza»(capacità dei metalli di resistere agli urti), rinunciando all’unica cosa sensata che si potrebbe fare, e che è quella non solo di attrezzarsi legalmente per «resistere» al contenzioso legale, ma anche di costruire una nuova relazione culturale con il malato e quindi con la società per prevenire il contenzioso legale.
(CONTINUA)

Tags: Luglio Agosto 2014 Ivan Cavicchi medici

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