IPPOLITO NIEVO 2014. LE CONFESSIONI DI UN BERLUSCONIANO
Premetto che non parlerò mai male della persona di Silvio Berlusconi neanche sotto tortura; questo però non mi allontana dal dovere di ragionare criticamente sul Berlusconi politico. Si sono avvicinati nel 1994 a Forza Italia - non parlo solo per me, ma per quel popolo oggi disperso - coloro che avevano dato fiducia ai partiti della Prima Repubblica che, bene o male, avevano assicurato all’Italia pace, libertà e benessere, e che erano stati spazzati via. Un popolo sbandato, senza più un referente politico, pronto al destino che io consideravo amaro della «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto, una proposta fra l’altro obsoleta perché il comunismo era caduto nel 1989 e Occhetto riproponeva un Governo di estrema sinistra.
Spuntò dal nulla Berlusconi, conosciuto solo da quanti seguivano attentamente la tv. Ne avevo sentito il nome da Bettino Craxi che me ne aveva parlato bene. Apparve in quel momento con una promessa straordinaria, non solo di restituire a quel popolo un referente politico, ma di dare ad esso quello che aveva promesso Craxi già nel 1983, una grande riforma che facesse tornare questo Paese grande, importante, rispettato, libero e ricco, superando gli scogli di una Costituzione invecchiata, di una burocrazia sinonimo di corruzione a causa dei troppi passaggi burocratici tra i quali spunta la tangente per accelerare e indirizzare l’iter delle pratiche. Mi viene alla mente la «propina» istituzionalizzata in Messico. Ricordo che in quel Paese per avere un certificato occorreva un tempo immemorabile; se si pagava la propina, addirittura ufficializzata, il certificato si aveva subito.
Berlusconi entusiasmò per quella grande promessa e l’Italia, che non ha mai avuto una rivoluzione vera, stando ai suoi progetti si avviava alla prima grande rivoluzione liberale, che l’avrebbe trasformata in un Paese davvero occidentale, più vicino agli Stati Uniti e molto meno alla Bulgaria sovietica (ricordo che nel periodo della Segreteria Berlinguer, le ricetrasmittenti illegali della Gladio rossa del PCI erano collegate non con Mosca, bensì con Sofia).
Era ancora pesante la presenza «sovietica» in Italia; penso all’egemonia culturale sui mass media, sull’editoria, sul cinema, su tutte le arti, perché i comunisti, grazie ai finanziamenti illeciti dall’Unione Sovietica e non solo, allettavano cineasti, artisti, giornalisti, intellettuali, non soltanto con il denaro ma con i Premi e varie altre seduzioni. L’intera grande intellighenzia fascista attorno a Giuseppe Bottai passò armi e bagagli al PCI, penso a Renato Guttuso, Vasco Pratolini, Giulio Cesare Argan, penso ai Rossellini, ai De Sica, a quanti erano stati a loro agio professionale nel regime fascista.
Palmiro Togliatti fu l’autore di quella fruttuosa campagna acquisti. Se a un intellettuale, a un artista, a un attore si promettono premi e fama, egli crede di ottenere il traguardo per il quale s’ingegna e s’affatica: essere in qualche modo immortalato. La creazione artistica è una straordinaria sfida con la morte; non si parla ancora oggi di Dante, Boccaccio, Foscolo, Leopardi, Shakespeare, che attraverso le opere sono ben vivi dentro di noi? Abbiamo avuto una straordinaria fioritura artistica nel periodo in cui esistevano mecenati, duchi, principi, papi che finanziavano la creatività. Il PCI fece il mecenate collettivo e contemporaneamente paralizzò l’Italia, che aspettava una riforma liberale e un’occidentalizzazione piena. Per questo Berlusconi ebbe successo e ha continuato ad averlo. Parlava, fra l’altro, di un’esigenza che è diventata sempre più urgente, la riforma della giustizia, settore bloccato da una corporazione intoccabile, talmente potente da stravolgere l’elemento fondamentale del sistema occidentale, cioè l’equilibrio fra i poteri.
In Italia da tanti anni Montesquieu piange: questo equilibrio fra i poteri non c’è più, in gran parte per colpa della classe politica, perché, quando un potere esonda, non è responsabile solo esso ma anche gli altri poteri che non hanno saputo difendersi. Berlusconi ha continuato ad avere successo anche se il suo primo Governo fu coinvolto in vicende giudiziarie, da cui poi fu assolto perché il fatto non sussisteva. Tale errore giudiziario corredato da una serie di sbagli clamorosi, come l’invito a comparire recapitatogli a Napoli non dai carabinieri, bensì dal Corriere della Sera diretto da Paolo Mieli, alla fine risultò propizio a Berlusconi. Perché in quel momento da mancato salvatore diventò vittima, tant’è che il consenso non diminuì, anzi crebbe così tanto che nelle elezioni del 1996 apparentemente vinse Romano Prodi, ma Forza Italia ottenne più voti.
In quel frangente fu il sistema elettorale a favorire Prodi, perché Forza Italia, pur senza la Lega Nord, conseguì dal punto di vista numerico più voti della sinistra. Tra l’altro anche quella vittoria confermò il ruolo di vittima di Berlusconi, perché un mese prima del voto furono rese note, benché neppure sbobinate, le famose intercettazioni eseguite nel Bar Mandara, e furono arrestati un magistrato e due avvocati. L’episodio portò in seguito alla condanna dell’avv. Cesare Previti. Nella vicenda ebbe un ruolo la signora Stefania Ariosto già informatrice della Guardia di Finanza. Certo è che, stando ai sondaggisti, il «botto» del Bar Mandara spostò almeno 600 mila voti da destra a sinistra. Si parlò di giustizia ad orologeria e di persecuzione da parte del circo mediatico-giudiziario, con in testa il solito Corriere della Sera diretto da Paolo Mieli.
Nell’immagine di Berlusconi vittima, Paolo Mieli involontariamente ebbe un ruolo fondamentale perché il Corriere della Sera, che era diventato in qualche modo l’organo ufficiale di stampa della Procura della Repubblica milanese, animò il circo mediatico-giudiziario, dando l’idea allora ben diffusa che certi poteri, a cominciare dalla roccaforte postcomunista, si accanissero con Berlusconi per non fargli condurre in porto l’attesa rivoluzione liberale. Quindi Berlusconi anche nel 1996, essendo stata di nuovo rimarcata l’immagine di vittima dei vendicativi guardiani dello status quo, rimase una speranza forte, e non venne intaccato dalla relativa sconfitta di quell’anno, dico «relativa», perché, se si fosse votato con legge proporzionale, avrebbe vinto.
Berlusconi si avvia, perciò, a stravincere nella successiva tornata elettorale, tanto che cinque anni dopo, nel 2001, consegue un successo elettorale tale da poter finalmente realizzare quella grande riforma e quella rivoluzione attesa dalla maggioranza degli italiani. A quel punto può contare su diversi alleati, Gianfranco Fini, Pierferdinando Casini, Umberto Bossi. Ma a frenare il cammino di certe riforme furono proprio Casini e il Consiglio Superiore della Magistratura che si opposero a qualsiasi tentativo di riforma della giustizia. La riforma che - e questo fu il primo grave errore politico di Berlusconi e del suo entourage - in Italia non serviva al politico di grido, al leader, al potente, ma al cittadino comune, al pensionato di 85 anni che, in una causa civile intentata contro un’istituzione che gli doveva dei soldi, si vide fissare la prima udienza 9 anni dopo.
Insomma, la vera grande riforma della giustizia non è contro o a favore di qualcuno: è per quanti «quisque de populo» ne rimangono schiacciati o amaramente delusi, senza avere neppure la possibilità di far sentire le proprie ragioni attraverso i mass media. Bisognava spiegare agli italiani che la riforma della giustizia non era una rivincita della politica, perché questa dovrebbe cercare ben altre strade per prendersi le rivincite, cioè ben governare e ben opporsi se è all’opposizione; la riforma della giustizia doveva andare a favore dei cittadini, di tutti i cittadini; invece cominciarono errori grossolani a livello politico, e non solo errori ma, secondo me, anche cortocircuiti scaturiti dai cattivi consiglieri.
Berlusconi sbagliò nel cadere in quella rete in cui figurava come il padrone egotico interessato soltanto alle «leggine ad personam», spropositi tali da dare l’immagine di un legislatore teso ad una riforma della giustizia non attesa dalla gente, ma che potesse far comodo ai soliti privilegiati. Dunque, si diede l’immagine di un disegno riformatore né giusto né serio. Per di più quelle leggine ad personam fallirono tutte, salvo un paio; non furono neppure recepite dalla magistratura giudicante anche perché erano al limite della legittimità costituzionale.
E qui cominciò - si era nel 2004 - il graduale calo del consenso. Nel 2001 Berlusconi aveva riportato una maggioranza bulgara, ma una serie di progetti legislativi promessi furono rinviati alle calende greche. Un abbozzo, peraltro apprezzabile, di grande riforma venne varato, ma poiché il consenso era scemato, quando si arrivò al referendum confermativo essa fu bocciata. È vero: abbiamo fatto una grande riforma, ma strada facendo l’abbiamo infarcita di leggi impopolari e odiose, perché erano fatte per una persona, e che poi non sono nemmeno servite ad essa.
La verità è che siamo di fronte a un micidiale paradosso, forse agli abbagli di un entourage che ha mal consigliato Berlusconi o che ha privilegiato solo i propri interessi. A questo punto, dilapidato il tesoretto elettorale del 2001, si tornò al voto: il consenso era calato e Prodi vinse una seconda volta, per poco, perché Berlusconi, oltre a figurare oggettivamente come vittima di una serie infinita di avvisi di garanzia che avevano creato l’idea di un’ossessione giudiziaria verso di lui, ebbe la fortuna di trovarsi di fronte un centrosinistra assolutamente improbabile, una sorta di ammasso confuso e confusionario formato da una parte della vecchia DC, dall’estrema sinistra e addirittura da trotskisti ultra-bolscevichi, una maggioranza senza capo né coda, che non poteva reggersi.
Il Governo Prodi cadde dopo appena due anni, e Berlusconi nel 2008 reiterò una straordinaria vittoria simile a quella del 2001; a quel punto poteva fare tutto perché, ancora una volta, il consenso aveva sfiorato il 40 per cento, considerato che aveva ottenuto poco meno di quanto ha avuto Matteo Renzi nelle recenti elezioni europee. Di Renzi oggi si è parlato come di un grande miracolo, ma il portento era stato già Berlusconi, e non alle europee ma alle politiche, conquistando una maggioranza schiacciante alla Camera e al Senato. Perché il consenso, come al solito, a lungo cadde?
A quel punto alcuni analisti e alcuni osservatori, tra cui io stesso, ipotizzarono un paradosso, che Berlusconi politico avesse le caratteristiche di un match winner straordinario nel vincere le elezioni, che fosse veramente unico a raccogliere consenso elettorale, ma che poi fosse incapace di tradurre siffatto consenso nel decisionismo necessario per governare un Paese pieno di problemi e di contraddizioni. Mi viene in mente Benito Mussolini che, alla domanda di un giornalista straniero su quanto fosse problematico governare gli italiani, rispose che governare gli italiani non era difficile, era inutile. Insomma, poste le responsabilità di alleati come Fini o Casini, nonché della corte intorno a Silvio, certo che non si possono negare le carenze di Berlusconi, il quale forse, in tutta buona fede, ha creduto che la vocazione a governare una grande azienda fosse il viatico giusto per dirigere nel modo migliore un grande e complesso Paese.
Gli eventi hanno dimostrato che l’equazione era sbagliata. Fra l’altro il fatto che si sia circondato di gente come Gianni Letta già indica una «non volontà» di decidere hic et nunc, perché Gianni Letta è il nostro «Rinvia sempre a domani quello che si può fare oggi». L’imperativo di Letta è di marciare tranquillo, non farsi nemici, trattare anche col diavolo, pur di essere ben voluto un po’ da tutti. Gianni Letta è il contrario della democrazia vera, civile ma confliggente, composta di parti contrapposte che si misurano con coraggio su scelte diverse. Altro che sorridere a tutti, altro che il presenzialismo militante a casa di tutti quelli che contano. Ma cos’è che in quest’ultima fase ha fatto perdere il consenso a Berlusconi?
Poiché l’Italia è un Paese strano, e il nostro popolo anch’esso alle volte è difficilmente interpretabile - Mussolini docet - non sono le riforme che non si fanno, non sono le promesse che non si mantengono, no, proprio no, è il caso Ruby a distruggere il consenso al PDL e a Berlusconi; neanche l’uscita dal PDL di Gianfranco Fini, che è stata comunque una ferita (in proposito, forse ci si poteva muovere in maniera più elastica, non trattarlo a quel modo, non farlo andare via), è stata incisiva. In qualche modo Fini ha rafforzato l’immagine di un Berlusconi vittima di poteri forti come la Magistratura, il Quirinale ed altri, che, s’è mormorato, avevano promesso o comunque spinto Fini allo strappo.
Sembra incredibile, ma Ruby ha pesato assai più dei deficit politici come il non saper andare al potere, premessa del governare davvero. Certo, Berlusconi al potere non c’era mai andato, e direi che il giovane Renzi, invece, sembra che abbia nel dna quest’arte, viste le nomine da lui fatte in grandi strutture come Eni, Poste ecc. e visto come tiene a bada gli ultraconservatori postcomunisti. Renzi ha il senso di come arrivare al potere, e di come, arrivato al potere, si deve governare; se non si ha il potere, si fanno solo chiacchiere. Torno al vero tonfo del berlusconismo: il caso Ruby.
Il nostro è un Paese culturalmente ancora bigotto; abbiamo una tradizione comunista e una tradizione cattolica, entrambe convergono; non dimentichiamo che gli unici problemi che ebbe Palmiro Togliatti con il proprio partito furono quelli relativi alla sua compagna Nilde Iotti. Chi aveva mai contestato Togliatti dentro il PCI? Ma lo fu quando si mise con la Iotti, costretto a scapparsene qua e là, e con lei cominciò a fare viaggi a Praga, ospite di Rudolf Slansky, perché a Roma il partito bigotto non tollerava quella scandalosa relazione extraconiugale.
Altro che il libero amore di Aleksandra Kollontaj, l’impronta dello stalinismo si vide anche nel partito-parrocchia. Enrico Berlinguer, sul quale è stato realizzato recentemente addirittura un film panegirico che omette gran parte della verità storica dai dollari del Pcus alla Gladio rossa, era un uomo ancora bloccato a Lenin, anche lui abbastanza bigotto tanto che tra le icone da lui offerte al culto del popolo rosso c’era nientemeno che Santa Maria Goretti.
Ricordo che un mio amico dell’epoca, insieme al quale lavorai all’Università Sapienza di Roma, il prof. Carlo Salinari, grande comunista, per avvalorare il compromesso storico berlingueriano scrisse che la Lucia manzoniana dei «Promessi Sposi» andava considerata una figura progressista, se non proprio rivoluzionaria. La tesi che la cattolicissima e cara Lucia fosse una figura di sinistra e tipica del femminino rosso rivelava questa tendenza naturale al Marx-bigottismo.
D’altra parte, abbiamo tutta la storia cattolica intrisa di bigottismo, e chi era convivente fino a pochi anni fa non era ammesso a ricevere i sacramenti. La morale cattolica non ha mai combattutto la trasgressione e l’eros in quanto tali, ma ha sempre condannato lo scandalo che ne poteva derivare: insomma, ipocritamente, fai quello che ti pare, ma non farlo vedere. Basterebbe rileggere quel meraviglioso scritto di Torquato Accetto, «Della dissimulazione onesta», per avere un’immagine nitida delle basi culturali dell’italica ipocrisia.
Anche rispetto a questa cultura bigotta ed ipocrita, Berlusconi avrebbe dovuto realizzare la rivoluzione liberale. Penso alle contraddizioni del moralismo; vengono trattati come mostri coloro che vanno con le minorenni, ma non si è mai visto un simile scatenamento mediaticogiudiziario contro gli omosessuali, altre icone della sinistra, che da sempre in Italia vanno a caccia di minorenni. Si condanna la pedofilia ed è giusto essere più che severi, ma nessuno si occupa della ebofilia, assai più diffusa ed ugualmente imperdonabile. Insomma, il bigottismo scatta dove è più facile che scatti, mentre in altri settori regnano silenzio e omertà.
Il caso Ruby e quello delle cene galanti ha scatenato un bigottismo che in qualche modo è anche giustificabile e comprensibile. Siamo in un momento di crisi economica, in cui tanti arrivano con fatica a fine mese, non c’è lavoro, per la prima volta si registrano suicidi non per debiti ma per crediti, si assiste al fenomeno incredibile di imprenditori che si tolgono la vita per crediti verso uno Stato e un’Amministrazione pubblica che non paga ma esige le tasse, come l’Iva da versare su fatture emesse per somme non incassate.
In quest’atmosfera malata, pettegola ed iniqua, funziona invece alla grande un circo mediatico-giudiziario che crea uno scenario grottesco e ripugnante: cene con queste donnine pagate, alberganti tutte in un condominio harem, all’Olgettina. Balli osceni e labbra tumide al peccato, come didascalie miranti a scatenare curiosità e riprovazione. In una situazione di crisi, di scontento e di malumore, le vicende private di Berlusconi sbattute in prima pagina - ma Silvio non lo sapeva che in Italia importante non è la castità, ma non dare scandalo? possibile che non gli abbiano consigliato di studiare a memoria Torquato Accetto? - hanno scompaginato tutto il PDL. Ed i consensi non li perde solo il PDL ma lo stesso Berlusconi, tant’è che, secondo l’esito impressionante di un sondaggio, oggi nel centrodestra l’uomo più popolare sarebbe Matteo Salvini, entità politica fino a ieri irrilevante.
Mi sembra di aver criticato a sufficienza, nel mio piccolo, questi comportamenti; non lo dico adesso, ho denunciato via via queste anomalie, ho alimentato in continuazione le agenzie di stampa con i miei appunti critici, ho fatto addirittura tutto da solo una campagna di stampa sull’assenteismo dei nostri parlamentari, altro comportamento scandaloso: fanno, come si dice, «carte false» e imbrogli per farsi eleggere e poi non partecipano e non assistono neppure alle sedute del Parlamento. Ho portato avanti un’altra campagna di stampa contro l’altra follia tutta pidiellina dei doppi, tripli, quadrupli incarichi, prendendomi insulti e male parole. Eppure, rimango convinto che già svolgere bene un solo incarico sia un’impresa non da tutti.
Se si guarda bene, quelli più presenti in Parlamento generalmente non vengono rieletti, perché tale presenza è un valore non considerato dal centrodestra, il quale, a detta dei suoi vertici, ha sempre ritenuto che la presenza sia un dato irrilevante. Se qualcuno ti candida e ti fa eleggere, devi assistere, devi essere presente. Ai vertici la presenza non interessava. Ma la domanda che mi sento fare è: come se ne esce? Io sono contrario al tentativo di un rinnovamento di Forza Italia; bisogna avere il coraggio, la pazienza, la calma e la tenacia di ripartire dalla base e dal territorio, per costruire un contenitore nuovo di zecca. Se non si riparte da tale obiettivo è finita, è inutile creare un contenitore nuovo se non scaturisce da un lavoro politico nel territorio nel quale però esista finalmente una selezione, un test d’ingresso alla politica che valuti la personalità specchiata, la vocazione, la preparazione, le capacità non solo di apparire ma di essere. Insomma, non credo si possa risalire, ripercorrendo le stesse strade sbagliate di prima.
Credo lo capisca anche Dudù, il nostro ultimo emblematico totem. La politica, ci ha insegnato Niccolò Machiavelli, è l’arte suprema perché sintetizza tutte le altre arti; quando egli afferma che il «Principe» deve essere artista, vuol significare che il politico collettivo, cioè il Parlamento, deve avere doti e capacità in vari settori, e poi con la sintesi politica attuarle. Se si tenta di rinnovare Forza Italia con il personale politico esistente, senza cercare il rinnovamento verticale, senza partire dal territorio, inseguendo magari una leadership diversa, non si arriva da nessuna parte. Perché Forza Italia è Berlusconi e noi, pur volendogli bene perché è persona gradevolissima, simpaticissima, con mille pregi, tant’è che abbiamo criticato il politico, non l’uomo, sappiamo che la sua stagione è finita.
L’uomo a questo punto ha altri problemi, direi che è meglio lasciarlo in pace perché fra poco sarà raggiunto da un’altra sentenza di condanna non più ad 8 mesi di reclusione e ad assistere tre volte a settimana i vecchietti. Sarà una condanna probabilmente intorno ai 7 anni di reclusione, proprio sul caso Ruby che ha schiantato lui e tutto il PDL. È inutile fingere, affermare che sarà giusta o ingiusta; neanche discuto di questo, il caso esiste e prevedo che con Berlusconi saranno veloci. La giustizia è stata veloce anche con certi giornalisti coraggiosi; ci sono stati casi in cui è stata sporta una querela a marzo e a giugno c’è stato il rinvio a giudizio.
Presumibilmente il caso Ruby si concluderà il prossimo ottobre con una condanna passata in giudicato. Poi, sono in arrivo altri procedimenti, a riprova che il calvario accompagnerà l’amico Silvio ancora per anni. Con Berlusconi la giustizia sarà rapida. Per cui non credo assolutamente alla possibilità che il successo di Forza Italia, senza più Berlusconi, possa in qualche modo ripetersi; Forza Italia era Berlusconi, finirà una volta eliminato lui per via giudiziaria.
Bisognerebbe, infine, parlare della corte attorno all’ex Cavaliere. Come è stato possibile che un uomo di valore come lui abbia potuto circondarsi di certe persone? Come è possibile che si sia cacciato, dal punto di vista politico e della propria immagine esterna, in tanti gratuiti pasticci, quasi in preda ad un «cupio dissolvi»? Certi personaggi, che io avevo conosciuto prima di Berlusconi, li avevo evitati sin dal 1997.