i primi cento giorni del governo renzi
Renzi ha completamente innovato il modo di governare. Eravamo abituati prima a governi che spiegavano perché non si poteva fare; ora invece si è ribaltato il ragionamento. Il Governo propone, annuncia riforme, indica soluzioni. Gli oppositori se ne devono «fare una ragione» e spiegare perché non si può fare. La vecchia politica «ben altrista» (ci vuole molto altro rispetto alle proposte annunciate) è archiviata.
Si è prodotto un terremoto nella geografia politica e sociale. I corpi intermedi (forze sociali ed economiche), partiti, informazione, fanno fatica a ricalibrare il proprio ruolo. È saltata la vecchia divisione tra destra, centro e sinistra. Renzi è ovunque. Interpreta le aspettative del Paese, coglie gli umori profondi della popolazione, individua i responsabili, li aggredisce, li mette fuori gioco.
I provvedimenti adottati nella prima fase del suo Governo si muovono secondo quella direttrice. È rischiosa. È però attesa. Dopo anni di promesse, dopo una lunga fase di rassegnazione il Paese vuole la svolta. È positivo che il Governo abbia innovato il rapporto con l’Europa. Ha rinviato il pareggio di bilancio al 2016. Ha abbandonato la linea remissiva sull’austerity voluta dall’Unione Europea, praticata da Mario Monti e proseguita da Enrico Letta.
Renzi ha addotto le «circostanze straordinarie» spiegate in negativo per la lenta uscita dalla recessione e in positivo per il piano di riforme adottato nel Documento di politica finanziaria (DPF) per ristrutturare la spesa pubblica, per privatizzare e per recuperare la produttività del lavoro. C’è molta sostanza nelle richieste italiane, sorrette come sono da una agenda riformatrice e responsabile. Non è irresponsabilmente piagnona né inutilmente diligente.
C’è il rischio di una risposta negativa. Ma c’è la consapevolezza che è difficile bocciare l’Italia quando a tanti Paesi, tra cui la Francia e la Spagna, è stato concesso più tempo e quando, eccettuata la Germania, siamo tra i più veloci nel rientro del deficit.
È interessante al riguardo ricordare il commento di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia. «Il punto–dice Stiglitz–è che non esistono riforme strutturali italiane che di per sé possano invertire le tendenze nel Paese e nel continente. Le riforme strutturali, necessarie, porteranno frutti solo se il quadro europeo sarà cambiato... Da economista dico che l’attuale dottrina dominante in Europa è incomprensibile. Vige infatti un approccio mistico alla crisi, mentre tutta l’evidenza empirica indica un’altra direzione... Nella scarsa flessibilità della Germania c’è un eccesso di moralismo applicato alla nuova economia. L’idea tedesca è che le riforme siano simili ad un processo di purificazione per peccatori-debitori. L’Italia dovrebbe emergere dopo questo decennio come un Paese puro, ma in realtà potrebbe uscirne come un Paese ferito e con profonde cicatrici tra perdita di capacità produttiva e capitale umano».
Il Documento di politica finanziaria accompagnato dalle leggi e dai decreti legge attuativi, si muove in quella direzione. Ma non è tutto oro ciò che riluce. Vediamone gli aspetti.
Renzi ritiene che tra il pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione da effettuare con più celerità e gli sgravi fiscali da avviare, l’aumento del deficit possa essere compensato domani da un irrobustimento del gettito fiscale. In questo quadro la richiesta all’Europa di un assenso al rinvio del pareggio di bilancio al 2016 non è un salto nel buio ma un investimento.
Più azzardate sono invece le misure di carattere economico. Gli sgravi fiscali sono limitati al 2014. Per il 2015 si vedrà. Non sono strutturali. Non modificano l’impianto dell’Irpef, che diventa sempre più iniqua, disattenta ai problemi delle famiglie, sorda nei confronti dei redditi più bassi, inidonea a premiare la professionalità e ad incentivare la produttività. L’intervento a favore delle imprese manifatturiere è una partita di giro (meglio, si potrebbe dire di raggiro) tra ciò che si dà e ciò che si toglie.
Rimangono in piedi le clausole di salvaguardia che tutelano il bilancio: se non si realizzeranno i tagli della spesa pubblica e se non si otterrano risultati nella lotta all’evasione il Governo potrà e dovrà aumentare le entrate per tre, sette e dieci miliardi rispettivamente nel 2015, 2016 e 2017.
Sono anche previsti tagli lineari alle detrazioni fiscali nell’ordine di un punto percentuale (dal 19 al 18 per cento) per compensare i mancati risparmi derivanti dalle agevolazioni fiscali contabilizzate nella manovra in 488,4 milioni nel 2014, per 772,8 nel 2015 e per 564,7 a partire dal 2016. Le misure di copertura del decreto, trovate a fatica, sono una tantum. È problematico un intervento a favore degli incapienti e il prosieguo nel 2015 e nel 2016 del bonus fiscale.
Il pilastro della manovra è l’intervento sulla spesa pubblica. Il terreno è molto insidioso. Le ipotesi dei tagli si rincorrono come in un gioco di specchi. Il rischio è che non si faccia nulla sulla spesa pubblica. Invece occorre operare subito, senza pasticci, senza ulteriori rinvii.
Ecco le ipotesi del decreto: risparmi su beni e servizi per 2,1 miliardi con lo spettro dei tagli lineari; un taglio di 400 milioni per i programmi militari; una modesta riduzione dei costi della politica; un tetto unico a 240 mila euro per i dirigenti della Pubblica Amministrazione; l’aumento della tassazione delle rendite al 26 per cento con l’eccezione dei titoli di Stato; l’aumento dell’aliquota dal 12 al 26 sulle rivalutazioni delle quote Bankitalia; il taglio delle municipalizzate per portarle da 8 mila a mille in un triennio.
In positivo nella manovra c’è per dieci milioni di lavoratori il bonus da 80 euro medi in busta paga da maggio; la riduzione del 10,2 per cento dell’Irap per aziende e professionisti; l’esclusione dai vincoli delle spese per l’edilizia scolastica; i pagamenti di un’altra tranche di otto miliardi per i mancati pagamenti della Pubblica Amministrazione; il rinvio alla definizione del patto per la salute della razionalizzazione della spesa sanitaria; i tre miliardi nel 2016 di maggiore recupero della lotta all’evasione fiscale.
È una manovra necessaria ma non decisiva. La partita del Governo si gioca sui tagli alla spesa pubblica. La quota di copertura che si può attribuire alla spending review è molto modesta. È la dimostrazione che non bastano l’attuale decreto né Renzi; più in generale, che non c’è la capacità dei diversi governi di rilanciare l’economia affrontando il nodo dei costi e dell’efficienza della macchina pubblica. Quando si arriva al dunque tagliare la spesa pubblica resta, per la politica italiana, un’azione molto difficile, quasi impossibile.
È importante che il Governo abbia chiare le difficoltà, ed interessante che il presidente del Consiglio abbia preso di petto la burocrazia e chiamato per nome e per cognome le caste che vogliono mantenere, costi quel che costi, i propri privilegi. Ha parlato, suscitando molti consensi, di «fare ora una violenta lotta alla burocrazia».
Un dato è sconcertante: sono state attuate solo 343 misure decise dai Governi Monti e Letta su un totale di 1.043. Per duecento sono addirittura scaduti i termini. In particolare l’attuazione dei provvedimenti del Governo Monti ha raggiunto il 58,4 per cento; Letta si ferma al 17,7 per cento. Ma tutto ciò non è sufficiente a vincere la battaglia. Ed è velleitario intitolare il decreto legge «Misure per la competitività e la giustizia sociale per una Italia coraggiosa e semplice». Il coraggio va praticato. Le scelte difficili sui tagli di spesa vanno fatte. Sono utili ai cittadini, sono dolorose per i detentori dei privilegi.
La spesa pubblica non si riesce né a ridimensionare né a riportarla sotto controllo. Si annida soprattutto negli enti decentrati (Comuni e Regioni, in particolare). Il federalismo fiscale ha tradito le proprie motivazioni di fondo. Si è caratterizzato in un aumento incontrollato della spesa, accompagnato da forme accentuate di corruzione finanziate con un incremento delle tasse senza precedenti.
Comuni e Regioni, con le dovute limitate eccezioni, si comportano come insaziabili sanguisughe. Particolarmente evidenti sono gli sprechi delle municipalizzate. Costituiscono un ingestibile carrozzone che grava per 22 miliardi di euro l’anno sulle casse degli enti locali. Sono 7.712. Producono sofferenze nel 63,9 per cento dei casi. Sono veri e propri poltronifici. Assumono lavoratori senza professionalità con procedure illegali e clientelari. L’Atac a Roma riesce ad avere da solo un disavanzo annuale simile a quello del Comune.
Renzi vuole intervenire. Ha ragione. Deve fare i conti con molte resistenze. Non può contare sull’Anci e sulla Conferenza Stato-Regioni che sinora hanno chiuso gli occhi sugli sprechi e sulle ruberie chiedendo invece in termini ricattatori solo nuove risorse per garantire ipocritamente i servizi sociali. Scandaloso, ad esempio, è il dimissionamento dell’assessore al Bilancio al Comune di Roma che aveva definito una manovra costruita sui tagli della spesa con conseguente riduzione delle tasse (Roma con Alemanno era la città più tassata d’Italia; con Marino è diventata la città più tassata d’Europa). La lobby delle autonomie locali è molto forte nel Governo ed in Parlamento. Renzi deve avere il coraggio di introdurre elementi di discontinuità attuando un nuovo percorso tanto ambizioso quanto elettoralmente rischioso.
Come vincere queste resistenze? Renzi deve saper distinguere tra le critiche motivate da proposte alternative (come sono di norma quelle delle parti sociali) e quelle demagogiche e antagoniste. Le difficoltà economiche, amministrative, burocratiche si superano meglio se il Governo abbandonerà l’atteggiamento di insofferenza nei riguardi dei corpi economici e sociali intermedi.
Le deleghe per la riforma fiscale e per la riforma del lavoro richiedono il coinvolgimento delle parti sociali. Non è una constatazione nostalgica. Le resistenze si superano, le riforme si fanno se si è capaci di socializzare le proposte per dare una svolta al Paese in modo da riprendere il cammino per lo sviluppo.
La lotta all’evasione fiscale va fatta con la «moral suasion»: la delega fiscale deve ripristinare un equilibrio tra diritti e doveri tra il cittadino, il legislatore e l’amministrazione finanziaria. Lo Statuto del contribuente va applicato e rispettato. La riforma del lavoro deve essere coerente con l’impegno a ridurre l’area del precariato. Il mitico «Jobs Act» deve muoversi per favorire l’occupazione, privilegiando la flessibilità e sanzionando la precarietà. È stato efficacemente sottolineato da Massimo Giannini su «Repubblica» che l’Italia ed il Governo non possono guardare solo al modello Nestlè, che propone ai suoi dipendenti il precariato a vita.
Renzi deve diffidare per i consensi troppo facili e disinvolti. Non può essere il protagonista di uno spettacolo nel quale è l’«one man show». Deve dialogare. Deve, per vincere, convincere e avvincere. Con efficacia. Scalfari ha ricordato, dedicandola un po’ a tutti noi, una poesia di Giuseppe Giusti, Il brindisi di Girella:
«Barcamenandomi/tra il vecchio e il nuovo/buscai da vivere/di farmi il covo./La gente ferma/piena di scrupoli/non sa coll’anima/ giocar di scherma/non ha pietanza/dalla Finanza./Io, nelle scosse/delle sommosse/tenni per àncora/d’ogni burrasca/da dieci o dodici/coccarde in tasca./Quando tornò/lo statu quo, /feci baldorie, /staccai cavalli, /mutai le statue/sui piedistalli./E adagio adagio/tra l’onde e i vortici/su queste tavole/del gran naufragio/gridando evviva/chiappai la riva./Viva Arlecchini/e burattini/evviva guelfi/e giacobini/viva gli inchini/viva le maschere/d’ogni Paese/evviva il gergo/e chi l’intese».