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DIRITTO FALLIMENTARE - ETICA SOCIALE E INTERESSE COLLETTIVO PER SALVARE I VALORI DELL'IMPRESA IN CRISI

Dobbiamo formare professionisti che sappiano individuare la realtà della crisi dell’impresa e la strada per uscirne; banchieri che investano nel domani vincendo le paure e la ricerca di sicurezza dell’oggi; debitori che suscitino fiducia nei loro creditori perché insieme si vince

In materia di diritto fallimentare nello scorso numero di Specchio Economico abbiamo cercato di rispondere al quesito perché le procedure fallimentari continuano a durare in media sette anni, sostenendo che non basta una legge per cambiare il sistema. Se si esaminano infatti i tratti essenziali degli strumenti che il legislatore ha introdotto nella speranza di fornire concrete e valide risposte ai consueti interrogativi che ogni creditore si pone e che attengono al quantum e al quando del pagamento, oltreché all’entità delle spese da sostenere per la procedura, si rileva ad esempio che il cosiddetto «piano attestato» si risolve in un accordo riservato che «si tiene nel cassetto», in ragione della sfiducia che debitore e creditori ripongono nella circolazione delle notizie sulla crisi di quell’impresa che l’adotta. Tale strumento viene usato nei casi di crisi più lievi, nei quali debitore e pochi creditori spesso istituzionali come banche ecc., cercano di evitare in tempo l’aggravamento della crisi.
Il piano prevede, per il creditore o i creditori che vi aderiscono, sacrifici che si basano sulla fiducia nell’impresa, tali da consentire alla stessa di continuare a stare nel mercato rispettando i pagamenti e le obbligazioni assunte nei confronti degli altri creditori. Tale accordo verrà reso pubblico soltanto nel caso in cui, malgrado il piano, l’impresa non riesca ad evitare il fallimento e consentirà l’esecuzione della revocatoria dei pagamenti effettuati in attuazione del piano stesso.
Il ricorso a tale strumento non è ottimale, perché molti piani vengono attestati sul presupposto di situazioni di fatto dell’impresa che si rivelano più gravi di quanto preso in considerazione. Ovvero la ragionevolezza dell’iter di risanamento previsto nel piano viene smentita dalla realtà. Infatti la modifica su cui sta lavorando il legislatore impone all’attestatore una più rigorosa valutazione della realizzabilità del piano. È evidente che occorre investire anche sulle qualità professionali degli attestatori, affinché possano essere analizzate più efficacemente la realtà dell’impresa e la reale fattibilità del piano. Ma si sa che anche la cultura specialistica necessita dei propri tempi.
Un altro strumento, come già rilevato, è l’accordo di ristrutturazione dei debiti previsto dell’articolo 182 bis della legge fallimentare, il cui inserimento nel Registro delle imprese e la fase di omologazione dello stesso assicurano, invece, pubblicità, controlli e garanzie ai creditori dell’impresa in crisi; i quali, grazie alla nuova disciplina, possono beneficiare della prededucibilità dei loro crediti, sorti in relazione alla concessione della nuova finanza necessaria per il rilancio dell’impresa. Un terzo strumento è costituito dall’istituto della «transazione fiscale» introdotto con il decreto legge n. 78 del 2010.
A tali strumenti si affianca poi, per i casi più complessi e per le situazioni di crisi più gravi, la riformata procedura del concordato preventivo prevista dagli articoli 160 e seguenti della legge finanziaria, mediante la quale l’imprenditore in crisi può proporre ai creditori un accordo sulla base di un piano che può presentare molti contenuti innovativi, come la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni di finanza straordinaria; l’attribuzione delle attività dell’impresa che presenta il concordato a un assuntore; la suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei; ed anche trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse.
Nell’applicazione di tali strumenti, sono emerse anche le consuete difficoltà frapposte dai creditori, ivi compresi quelli istituzionali, e spesso la loro intransigenza finisce per essere inversamente proporzionale all’importanza del credito. Il raggiungimento di accordi, che salverebbero l’impresa e il futuro degli stakeholders che lo circondano, sono spesso pregiudicati dalle iniziative esecutive di piccoli creditori che si precipitano ad iscrivere ipoteche giudiziarie per rendere privilegiati i loro crediti.
All’inizio degli anni 2000, all’esito di studi e analisi di esperienze anglosassoni ai quali era seguita la pubblicazione, nel 2000, di un codice di comportamento tra banche e imprese per affrontare i processi di ristrutturazione atti a superare le crisi di impresa, l’ABI, Associazione Bancaria Italiana, aveva raccomandato il principio del cosiddetto pari passu (in uguali proporzioni), ovvero il rischio bancario avrebbe dovuto ricevere uguali garanzie, evitando contrapposizioni spesso inutili. In tal modo si potrebbero incontrare la presenza attiva delle banche nel piano di risanamento e la successiva conclusione di accordi utili al fine di evitare la liquidazione fallimentare.
Oggi l’unica soluzione per far fronte a tali contrasti è costituita dall’opera di mediazione del professionista che guida la procedura, finalizzata alla cessione dei crediti più litigiosi e garantiti, ai creditori maggiori così da favorire il perfezionamento dell’accordo di risanamento. L’altro elemento che incide in maniera negativa sulla conclusione di tali accordi è rappresentato dal comportamento ostativo di alcuni fornitori strategici dell’impresa in stato di crisi, i quali, approfittando della loro posizione di rilievo per la vita dell’impresa, dettano di fatto le regole del gioco, minacciando di interrompere la fornitura, a meno che non vi sia l’anticipato pagamento della stessa.
Un’esperienza italiana vicina nel tempo, quella relativa al caso Parmalat che ha visto quale protagonista, in qualità di amministratore straordinario, Enrico Bondi, dovrebbe far riflettere ed essere presa, dunque, quale punto di riferimento in tema di simili problemi. In quell’occasione, infatti, gli accordi con i fornitori di latte e con i trasportatori fecero sì che i prodotti a marchio Parmalat non venissero a mancare dagli scaffali dei supermercati neanche per un solo giorno.
Conseguentemente, per effettuare i pagamenti cash non si dovette fare ricorso al credito bancario poiché, in assenza della necessità di pagamenti degli interessi passivi e dei debiti in scadenza, il flusso di cassa generato dalle operazioni fu più che sufficiente per onorare l’impegno a pagare i fornitori per cassa. L’impegno e il sacrificio comune, oltre che dei fornitori e dei trasportatori, anche dei dipendenti che hanno continuato a lavorare pur nell’incertezza di essere retribuiti a fine mese, sono stati l’arma in più, purtroppo sempre più rara al giorno d’oggi, che ha permesso di salvare una consistente azienda produttiva italiana.
Di fronte ai grandi impegni che il periodo complesso che stiamo vivendo ci impone, il legislatore, questa volta tempestivamente, ha indicato la strada da percorrere per conservare e potenziare i valori dell’impresa, specie quando è in difficoltà. Dobbiamo investire sull’etica sociale, sulla visione comune dei valori prevalenti e dell’interesse collettivo al salvataggio delle imprese in crisi, in particolare curando la formazione di professionisti che sappiano individuare la realtà della crisi dell’impresa e la strada da percorrere per uscirne; di banchieri che abbiano la profondità di prospettiva necessaria per investire sul domani, vincendo le paure e la ricerca di sicurezza dell’oggi; di debitori che, con il loro comportamento etico e responsabile, determinino fiducia nei loro creditori, consapevoli che solo insieme si vince.

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