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il mondo di oggi: l’inarrestabile corsa della locomotiva cinese

Eugenio Benedetti, imprenditore

Nel 1999 la Banca Mondiale pubblicò un’analisi a firma del famoso economista Yukon Huang, che fece clamore, in quanto prevedeva il deragliamento dell’economia cinese entro il 2015, dovuto a cinque fattori. Il primo era la penuria energetica. La Cina, che fino a metà del Novecento non importava neppure una goccia di petrolio, e non possedeva nessun giacimento degno di essere  valorizzato, era divenuto a fine del Novecento, il sesto importatore mondiale di petrolio, la cui carenza diventava sempre più drammatica.
A distanza di 14 anni, la Cina è divenuta il secondo importatore mondiale di petrolio, con 300 milioni di tonnellate importate nel 2013: dieci milioni di barili al giorno. E pure di fronte a una persistente deficienza della produzione nazionale ha potuto sopperire al suo crescente enorme fabbisogno di energia, mettendo in funzione 18 mila miniere che vomitano - è il caso di dirlo - 4 miliardi di tonnellate di carbon fossile all’anno, quanto tutto il resto del mondo messo insieme. Nonché ha installato 27 centrali di energia nucleare, con altre 15 in corso di costruzione. È inoltre entrata in funzione la gigantesca centrale idroelettrica della Diga delle Tre Gole sul Fiume Azzurro che, con 100 miliardi di chilovattore installati, produce energia come 18 centrali nucleari: costata 25 miliardi di dollari, è la più grande opera infrastrutturale nella storia dell’umanità.
Secondo fattore: la crisi della sicurezza sociale. L’abolizione delle pensioni ai contadini e la soppressione della gratuità di scuole e ospedali nelle campagne lasciavano prevedere un’escalation di sommosse rurali che, accoppiate ai conflitti con le minoranze tibetane ed uigure, e soprattutto alla dilagante corruzione a tutti i livelli dell’apparato statale, concorrevano a creare una spirale di destabilizzazione che avrebbe potuto rivelarsi fatale.
È stato necessario un pugno di ferro che ha riportato l’ordine in Tibet e nel Singkiang, coniugato ad un’efficace repressione giudiziaria del crimine (Amnesty ha calcolato una media di 1 milione di condanne e 50 mila  esecuzioni  capitali all’anno), ed ha così permesso di bloccare quel processo degenerativo che rischiava di far ripiombare il Paese nel caos dell’anarchia del primo Novecento, allorquando il potere imperiale era logorato dalle lotte intestine, con centinaia di mandarini «signori della guerra» eternamente in lotta tra loro, ribelli ad ogni autorità costituita.
Terzo fattore: la penuria d’acqua. Secondo gli analisti della Banca Mondiale, la Cina possedeva solo il 7 per cento della terra arabile del mondo, ma solo il 2 per cento era coltivato, per deficienza di irrigazione, di concimazione, di meccanizzazione ecc. Nonostante ciò, la politica di Mao Tse Tung aveva condotto la Cina all’autosufficienza alimentare: dal 1950 al 1998 la produzione cerealicola era cresciuta da 90 milioni di tonnellate a ben 392 milioni di tonnellate, rendendo il Paese indipendente dalle importazioni, strumento di ricatto negli anni Cinquanta e Sessanta, quando il Governo cinese era stato costretto a vendere le proprie riserve d’oro per pagare il grano dall’estero, e gli economisti americani profetizzavano l’imminente crollo di una nazione alla quale solo tre o quattro Paesi avevano concesso il riconoscimento diplomatico. Per tutto il resto del mondo, la Cina, tormentata dalle carestie e dalla crisi delle «Comuni Rurali», aveva ormai gli anni contati. La priorità all’economia manifatturiera avviata da Deng Xiao Ping e perseguita da Jang Zemin ed Hu Jintao, attraverso la «delocalizzazione» di 200 milioni di contadini verso la cintura costiera ad altissima  densità industriale, ha capovolto l’economia del Paese, relegando il problema della penuria d’acqua ad un ruolo insignificante, con «buona pace» degli analisti della Banca Mondiale.
Quarto fattore: l’inquinamento, causato dalle centrali a carbone. È  questo, occorre riconoscerlo, un problema persistente, tuttora non eliminato, anzi aggravatosi al punto di «oscurare il sole» in tutte le principali città cinesi, come ben sanno coloro che hanno viaggiato in Cina. Ma per «città» non possiamo più intendere un criterio europeo, in termini di vastità e di popolazione, perché la Cina è costellata di megalopoli sterminate. Uscendo da Canton per andare ad Hong Kong non c’è più soluzione di continuità: sono 100 chilometri di fabbriche, contornate da città satelliti, migliaia di torri in cui abitano centinaia di migliaia di operai che lavorano nelle industrie adiacenti, senza interruzione, giorno e notte, e così intorno a Shanghai, a Pechino, a Nanchino, a Chunking, città che superano i 20, i 30 milioni di abitanti ciascuna.
Non ci sono più limiti, eppure queste enormi cinture industriali funzionano a pieno regime, 16 o anche 24 ore al giorno, e sfornano un fiume di prodotti di qualità crescente. Chiunque sia stato in Cina ed abbia visitato i giganteschi Centri commerciali, ha visto e trovato solo prodotti cinesi, dalle minestrine di legumi liofilizzati ai succhi e concentrati di frutta, dai vini ai gelati, dalle lampadine agli pneumatici, dalle carni e pesci inscatolati agli abiti e calzature confezionati in tessuto sintetico. Tutto è «Made in China» mentre un fiume di altri prodotti di qualità, dai televisori ai computer, dai telefonini ai componenti elettronici per tutti gli impieghi, inondano ormai i mercati del mondo a prezzi irresistibili, e per i cinesi il benessere vale più dello smog.
Gli Stati Uniti, massimo partner commerciale della Cina, importano merci cinesi per 500 miliardi di dollari all’anno, e ne esportano per meno di 100 miliardi: uno squilibrio commerciale senza precedenti, un surplus di valute che alimenta il prodotto interno cinese e ne gonfia le riserve valutarie oltre ogni previsione. Sono cose che già sapete: basta leggere i giornali per seguire l’ascesa mirabolante di questo «pianeta giallo» che 50 anni fa, quando io, unico italiano o quasi, viaggiavo in Cina, sembrava sull’orlo della catastrofe, assediato economicamente dal mondo intero, e persino rinnegato dall’Unione Sovietica, con le portaerei americane che pattugliavano lo Stretto di Taiwan e Ciang Kai Shek che annunciava gli sbarchi imminenti delle proprie milizie, a sostegno delle rivolte in fiamme dappertutto. E 20 milioni di morti per carestia nelle regioni del Nord. Nella storia del mondo non si è mai registrato un miracolo più inaudito della resurrezione cinese.
Il rapporto della World Bank del 1999 completava il quadro apocalittico con un drammatico quinto fattore di destabilizzazione: la crisi del sistema bancario cinese, troppi crediti incagliati in aziende di Stato decotte. Si dipingeva una «brutta copia» dell’economia fallimentare dell’Unione Sovietica, che aveva portato la Russia alla bancarotta negli Anni Novanta, con enormi sperperi di danaro in imprese deficitarie, cattedrali nel deserto, costi astronomici di ogni produzione statale, dilagante burocrazia e stagnazione generale di ogni attività. Vero, tutto vero. Ma come si è passati da tanto «sfasciume» all’incredibile realtà della Cina odierna, che si avvia a spodestare gli Stati Uniti dal trono di prima potenza economica del mondo, mentre ha già toccato nel 2013 il primo posto mondiale per il volume degli scambi commerciali?
Con 2.200 miliardi di dollari di esportazioni contro 1.940 miliardi di importazioni, con un surplus di 260 miliardi nonostante la crisi mondiale, ben il 13 per cento in più rispetto al 2012. Cosa è successo, in questi tredici anni, per capovolgere un «trend» che correva verso il disastro? La storia narra che nel 1847 l’inviato di Sua Maestà britannica, Lord Macartney, in visita alla Corte imperiale cinese con l’offerta di stipulare un trattato commerciale, si sentì rispondere dall’imperatore Cianlong: «Possediamo già tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Non so che farmene dei manufatti del Vostro Paese». Questa è storia, e furono necessarie tre guerre, le famigerate «Guerre dell’Oppio», per costringere la Cina ad aprire i propri porti e i propri mercati alle navi e alle merci europee. Come disse una volta Ciu En Lai all’Onu: «Non basteranno mille anni per far dimenticare l’infamia delle guerre dell’Oppio».
Ma torniamo a noi: la risposta è semplice, lampante e storica: le multinazionali americane hanno investito in Cina 11.500 miliardi di dollari in 13 anni; è stato questo il motore gigantesco che ha rivoluzionato l’economia cinese, cristallizzata in uno stato quasi arcaico, costipata nella «camicia di forza» di una burocrazia fossile, ingessata nelle maglie di divieti, restrizioni, prescrizioni di una legislazione senza regole, poiché la Rivoluzione maoista aveva cancellato tutte quelle precedenti ma non le aveva sostituite con nuove regole adeguate  per dare impulso a un capitalismo privato entro il binario di un’economia statale. Ecco il problema che Deng Xiao Ping ebbe ad impostare con lungimiranza e i suoi eredi e successori hanno perseguito e realizzato con tenacia e sagacia.
Grazie a questa gigantesca iniezione di capitali (altro che il Piano Marshall americano del nostro dopoguerra) sono nate e si sono moltiplicate migliaia di fabbriche in una proliferazione produttiva in tutti i settori che non ha paragoni nella storia del mondo. Per attivare queste migliaia di fabbriche si è dato corso ad un gigantesco spostamento di manodopera umana: si calcola che oltre 200 milioni di contadini sono emigrati dall’hinterland cinese verso le regioni costiere, da Hong Kong ad Harbin, trovando immediato assorbimento nei cantieri di costruzione delle fabbriche, poi nelle fabbriche stesse, in tutti i campi dell’industria.
Risultato: oggi il 60 per cento delle esportazioni cinesi sono controllate dalle multinazionali americane i cui proventi hanno consentito di accumulare un «tesoretto» di 3.660 miliardi di dollari di riserve valutarie, un quarto delle riserve valutarie mondiali, che la Bank of  China prioritariamente investe nella sottoscrizione dei titoli pubblici degli Stati Uniti, e vogliamo sottolineare che nel 2006 erano solo mille miliardi. Il Governo cinese oggi detiene una tale quantità di «Buoni del Tesoro», i Treasury Bonds della Federal Reserve nord-americana, da poter essere teoricamente in grado di azionare una bancarotta degli Stati Uniti, cosa che ovviamente non farà mai perché i due Paesi sono ormai legati da un tale connubio, più che da un intreccio di interessi, da una tale confluenza di profitti reciproci, da sfidare ogni concorrente (reale od ipotetico).
Il duopolio cinese-americano è un’entità planetaria che non ha confini, e la sua corsa d’accrescimento non ha limiti; al contrario dell’Europa ancora morsa da una crisi strumentale per cui è difficile vedere l’uscita dal tunnel, la corsa della locomotiva cinese non ha freni, e ha toccato nel 2013 il 7,6 per cento  di aumento netto del prodotto interno.
Nel 1990 la quota della Cina nel commercio mondiale era del solo 1,9 per cento; nel 2000 era ancora al 3 per cento; oggi siamo al 10 per cento. Chi si augura un rallentamento di questa crescita sarà smentito dai fatti. Cina e Stati Uniti d’America costituiscono un’unica ipereconomia integrata e interdipendente: la loro superfusione è permanente ed irreversibile, non facciamoci illusioni. La ripresa dell’economia americana, dopo la crisi del 2009, non ci sarebbe se non ci fosse la Cina a finanziarla mediante la sottoscrizione di un terzo del debito pubblico americano. Parallelamente, l’espansione industriale e commerciale della Cina non ci sarebbe senza le multinazionali americane che sostengono il 60 per cento delle esportazioni cinesi, avendone creato le industrie.
Occorre quindi prenderne atto, e adeguarsi, se vogliamo inserirci. Ma come? Di tanto in tanto si levano voci: Pechino vorrebbe un dollaro forte, poiché la debolezza del biglietto verde «svaluterebbe» (si fa per dire) le riserve cinesi investite in America, con il rischio di alimentare l’inflazione in Cina. Nulla di più sbagliato, gridano coloro che sono favorevoli ad una rivalutazione dello yuan cinese, poiché il cambio quasi fisso tra la moneta cinese e quella americana  crea per la Cina il risultato di importare inflazione dai Paesi slegati dal dollaro. Ed ecco il coro di quanti chiedono una diversificazione, verso altre valute, di questa enorme massa di denaro liquido che la Bank of China continua ad ammassare.
Giusto, anche Wen Jiabao dichiarò nel 2012 che la Cina sarebbe pronta a investire nei bond emessi dall’ESM, il Fondo Salva-Stati europeo, ma l’ESM ha emesso finora obbligazioni a lungo termine per soli 10 miliardi di euro. Sono giochetti, funambolismi finanziari che nulla risolvono, mentre la rinuncia agli eurobond dimostra che, sia da un punto di vista economico che politico, la scarsa integrazione europea rappresenta un ostacolo a se stessa. E allora? L’economia cinese cresce e continuerà a crescere, e la forza economica cinese nel lungo periodo troverà riflesso nei mercati valutari: per ora l’inflazione in Cina è relativamente contenuta, e uno yuan più forte frenerebbe le esportazioni,  ciò che contrasterebbe con gli obiettivi del Governo.
Qual’è allora il futuro? Non occorre avere la palla di vetro di una chiromante per prevedere una Cina sempre più forte. Basterebbe credere nello slogan della «crescita sostenibile» lanciato da Xi Jinping nel recente Terzo Plenum del Popolo, che ha fissato un programma ben preciso:
1) sbloccare il divieto del «Figlio unico»;
2) logica conseguenza: entro il 2020-2030 la popolazione salirà dai 1.350 milioni attuali ad oltre a 1.700 milioni;
3) portare a vivere in città, entro queste date, altri 400 milioni di cinesi;
4) aumento «in proporzione» dei consumi interni, il che consentirà di arginare la diseguaglianza sociale, grazie al parallelo aumento delle produzioni dei beni di consumo e dei servizi interni;
5) arricchimento della classe media, obiettivo primario di questa nuova gigantesca urbanizzazione.
Le Riforme adottate dal Terzo Plenum del Popolo cinese contengono infatti l’obiettivo di convogliare il 30 per cento degli utili delle imprese statali (che hanno superato il livello di 500 miliardi di dollari all’anno) in una Rete di sicurezza sociale che si prefigge la copertura universale di un nuovo Piano Sanitario e di un nuovo Sistema Pensionistico, unitamente alla liberalizzazione dei tassi di interesse sui depositi bancari: tutto ciò determinerà un parallelo incremento dei redditi dei salari e il conseguente aumento della capacità di spesa e consumo da parte dei privati. Sarà così possibile traghettare il Paese da una crescita economica pianificata, basata solo su investimenti ed esportazioni, ad una fiorente società di consumi, entrando in una nuova strategia di sviluppo e di benessere armonizzati.
Veniamo ormai al nocciolo del nostro esame. Da un lato ci sono le società cinesi, nella maggior parte dei casi si tratta di grandi gruppi statali che intendono internazionalizzare il proprio business. È gente con le spalle forti, le loro casse traboccano di liquidità. Dispongono di un accesso privilegiato al credito bancario. Producono con forti economie di scala. E dietro di loro c’è un Governo che sostiene politicamente la loro spinta a globalizzarsi. Dall’altro lato, ci sono le aziende straniere di tutto il mondo che stanno uscendo con le ossa rotte dalla grande crisi economica e finanziaria e che versano in condizioni opposte rispetto alle controparti cinesi: hanno i bilanci a pezzi e, nonostante le potenti iniezioni di liquidità operate dai loro Governi, incontrano difficoltà a finanziarsi. Fanno fatica a trovare sbocchi di mercato alle proprie merci.
Gli acquirenti cinesi cercano nei mercati esteri tutto ciò che non hanno: innanzitutto energia e materie prime, da dare in pasto alla loro vorace industria manifatturiera. E poi, una serie di preziosi beni immateriali che scarseggiano in Cina: tecnologia, know how, brevetti, reti di distribuzione, strutture logistiche, marchi stranieri; conquistare un marchio europeo o americano, vittima della crisi finanziaria ma dotato ancora di forte visibilità che consenta di lanciare nei mercati mondiali le merci fabbricate in Cina. A titolo puramente esemplificativo, i cinesi stanno andando all’assalto di marchi nel settore automobilistico (la Volvo e la Peugeot, la Hummer), nelle catene dei grandi magazzini per elettrodomestici, (la Laox), nel settore nautico (Ferretti), nell’alta moda (Caruso), ma questi sono solo i primi assaggi. La caccia cinese al marchio investirà certo anche l’Italia, quando diverse aziende italiane come Armani, Versace, Prada ecc. dovranno affrontare il problema del passaggio generazionale: i cinesi saranno certamente i primi ad approfittarne. Gli strumenti li hanno, e come.
Esiste la China International Corporation che dispone di una dote di 575 miliardi di dollari ed ha l’obiettivo di collocare parte delle riserve valutarie cinesi in investimenti alternativi e più redditizi rispetto ai titoli del Tesoro americano di cui Pechino è il principale sottoscrittore mondiale. Il fondo CIC è stato costruito sul modello del GIC (Government Investment Corporation) di Singapore, un fondo di 350 miliardi di dollari dell’ex colonia britannica, che mantiene la massima segretezza sui propri investimenti. Ma non è solo il CIC a comprare aziende, partecipazioni azionarie e materie prime in giro per il pianeta. Ci sono istituzioni pubbliche molto attive sui mercati internazionali, come il Safe (State Administration Foreign Exchange), il Fondo Pensioni Cinesi, strutturato sul modello di quello americano.
Con questi ed altri strumenti operativi, in possesso di capitali praticamente inesauribili la Cina si appresta a fare shopping nell’intero pianeta. È un fenomeno inarrestabile che proseguirà a ritmo forsennato in tutti i Paesi.  E in Italia? Da noi è nata in dicembre scorso la prima SPAC (Special Purpose Acquisition Company) che ha raccolto 130 milioni di euro da 53 investitori, è una formica, ma è sulla strada giusta. I fondatori? Gianni Mion, manager di lungo corso della Benetton, Sergio Erede, Roberto Italia ed un paio di banchieri. La SPAC intende operare nei settori dell’abbigliamento, del design di lusso, dell’alimentare, del biomedicale e nella meccanica di alta precisione. Hanno già aderito Del Vecchio (Luxottica), Nissin (Bolton), Moretti, De Rigo, una sicav di Julius Baer, la Fineurop, il fondo «BC Partners» ed altri minori.
La strategia sarà quella di entrare in «società obiettivo» con quote di minoranza, per poi pilotarle verso la fusione con società investitrici cinesi, senza l’alea di una quotazione di mercato o del lancio di un’Opa, né bisogno di reperire capitali che le banche di questi tempi fanno fatica a concedere. Individuare  una «eccellenza del made in Italy» da portare in Cina, tenendo presente la lezione di Ford: «È facile costruire un’auto ma è più difficile costruire un marchio». Forti di questa esperienza, quattro ditte italiane, da me introdotte in Cina 50 anni fa (la IDRA di Brescia, la CIFA di Milano ed altre due di cui non sono autorizzato a fare nomi) si sono fuse con successo con imprese cinesi, dando vita ad autentici colossi industriali che esportano in tutto il mondo.
È questa una strada, fra le tante certamente percorribili, che oggi io mi permetto di segnalare, ricordando un articolo, che ebbi l’onore di fare apparire sul «Quotidiano del Popolo» di Shanghai nell’agosto del 1965, durante la mia Mostra industriale, la prima esposizione italiana in Cina dopo il 1949, e di cui ho pubblicato recentemente il documento. Narravo, in quell’articolo, l’aneddoto di un topolino che, rosicchiando le funi che tenevano legato un elefante del Circo, riuscì a liberarlo dai ceppi della sua prigionia; forse l’elefante cinese ha ancora bisogno del topolino italiano per correre sulle praterie del mondo.
Nella città di Jiuquan, ai confini occidentali della Cina, alla soglia del deserto del Gobi, secondo la leggenda spuntò la prima pianta di rabarbaro, ma nessun monumento la celebra. Qui sorge il Centro per le Ricerche Spaziali con la piattaforma di lancio per i satelliti più importanti della Cina: all’ingresso della città c’è un messaggio dipinto su un tabellone enorme, scritto in ideogrammi e caratteri latini, in cinese e in inglese. Il messaggio dice, semplicemente: «No Hurry (senza fretta), No Fear (senza paura), Peacefully (pacificamente)  we conquer the world (conquistiamo il mondo)». Dopo 5 mila anni di attesa, di studio e di lavoro, il momento per la Cina è arrivato. Diamoci da fare per aiutarla, non potrà venirci altro che bene.   

Tags: Aprile 2014

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