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diritti e risorse. come costruire nuovi rapporti tra il welfare e l’economia

del prof. IVAN CAVICCHI, docente di Sociologia dell’organizzazione sanitaria e di Filosofia della medicina presso l’università Tor Vergata di Roma

 

È cambiata la fase. Si è chiuso il welfarismo durato tutto il ‘900, si è aperto il post welfarismo con le crisi economiche, la recessione e le culture neoliberali e controriformatrici ecc. In ragione di ciò sono cambiati i rapporti tra diritti e risorse (etica ed economia), in pratica da una relazione complementare (vale a dire i diritti sono compossibili con lo sviluppo della ricchezza) siamo passati ad una relazione conflittuale (i diritti sono un costo per lo sviluppo economico, cioè improduttivi quindi incompatibili). Oggi il problema per tutti noi è: come i diritti nella post modernità tornino ad essere ricchezza e nello stesso tempo economia, cioè come in questo contesto si ricostruiscono rapporti di compossibilità tra welfare ed economia.

Dalla compatibilità alla compossibilità
Compossibilità e compatibilità sono due idee diverse: con la prima si intende un rapporto tra diritti ed economia, tra domanda e offerta, tra bisogni e servizi, tra professioni e malati ecc., senza contraddizioni. Con la seconda si intende un rapporto per esempio tra diritti ed economia, nel quale i diritti si adattano all’economia. Nella compatibilità c’è sempre qualcosa o qualcuno che si adatta a qualcosa di altro o a qualcun altro, nella compossibilità vi sono contraddizioni che, una volta rimosse, permettono la coesistenza delle cose diverse. Oggi le politiche di compatibilità, altrimenti definite di sostenibilità, debbono essere integrate con politiche per la compossibilità. Oggi le politiche di compatibilità sono diventate paradossalmente incompatibili con i diritti, cioè hanno superato la soglia di tolleranza. Non si può continuare a risparmiare tagliando sui diritti. Oggi dobbiamo voltare pagina e mettere in campo politiche di compossibilità, cioè politiche che rimuovano le contraddizioni esistenti tra domanda e offerta, tra ospedali e malati, tra professioni e cittadini, tra salute e malattia ecc.
 
La salute come ricchezza
Quando si parla di salute è bene distinguere l’idea di ricchezza da quella di pil, ovvero di prodotto interno. La salute contribuisce prima di ogni cosa alla ricchezza di un Paese, esattamente come l’ambiente, la cultura, la formazione scolastica, la qualità della giustizia ecc. Il prodotto interno è solo una misura di crescita o decrescita economica. Cioè esso sta nella ricchezza, non il contrario. In genere un Paese povero è un Paese malato. Oggi la compossibilità tra welfare ed economia significa un nuovo rapporto tra ricchezza e pil, vale a dire che, se produciamo salute, produciamo ricchezza, e se produciamo ricchezza, riduciamo l’incidenza della spesa sanitaria sul pil. Insomma si tratta di diminuire le malattie e quindi i malati. Oggi la sfida del post welfarismo passa per una ridefinizione della salute tanto come valore d’uso quanto come valore di scambio. Sul piano pratico questo significa ridefinire le nostre politiche per la prevenzione, i dipartimenti di prevenzione, le titolarità istituzionali, gli strumenti di programma. La salute in parte si tutela, cioè si difende, e per gran parte si costruisce. Questo cambia radicalmente il senso dell’articolo 32 della Costituzione. La nuova idea di riformismo è ricontestualizzare l’articolo 32 senza toccare una virgola.

De-finanziamento strutturale
Oggi soprattutto le politiche finanziarie non si accontentano più di raggranellare un po’ di risparmio in costanza di sistema pubblico; oggi si vuole controriformare di fatto il sistema pubblico per riallocare risorse in esso impiegate altrove. Cioè si vuole de-finanziare il sistema quindi svalutare radicalmente il valore della salute. Oggi non solo il cittadino è esposto senza difese preventive alle malattie, ma è la vittima di tagli lineari che riducono le sue protezioni sociali. Il «Def», ovvero il «Documento di Economia e Finanza» ha programmato, in rapporto al pil, una riduzione di spesa sanitaria fino al 2017, e vi sono stati tentativi di cambiare sistema ridiscutendo l’universalismo cioè il sistema selettivo e le priorità. Al de-finanziamento strutturale bisogna rispondere con una diversa proposta di sanità pubblica, quindi con una riforma del sistema-salute che risponda soprattutto a due problemi strutturali: la regressività culturale del sistema e la diffusa anti economicità causata da tale regressività.

Regressività culturale
Per «regressività» intendiamo un cambiamento non fatto, cioè il mancato ripensamento dei modelli di tutela, il mancato adeguamento culturale dei servizi, il mancato ripensamento del lavoro e delle professioni, il mancato ripensamento delle facoltà di medicina ecc., un mancato progetto di produzione della salute. La regressività vuol dire che, se tutto intorno cambia e la sanità sta ferma, è come se la sanità tornasse indietro. Intorno alla sanità è cambiato il mondo ma la sanità è rimasta culturalmente ferma nonostante nel 1978 sia stata fatta una riforma per ripensare la tutela, a partire dal valore primario della salute. Quella riforma è rimasta per gran parte sulla carta, è stata attuata soprattutto nelle sue componenti ordinamentali e organizzative ma non tanto rispetto ai modelli di tutela e all’obiettivo primario della salute. Per cui si è accumulato un grande debito nei confronti del mutamento. Allora, anziché attuare la riforma, si preferì, sbagliando, prendere la strada ammnistrativa della gestione. Si pensò che sarebbe bastato gestire meglio una vecchia tutela per risolvere i problemi della crescita della spesa. Invece avremmo dovuto ripensare culturalmente le forme della tutela, semplicemente perché il mondo era cambiato.

Esempi di regressività
Due soli esempi pratici: l’ospedale è un contenitore riorganizzato, tante volte tagliato, chiuso, ridotto in tutti i modi ma senza mai ridiscutere il suo modello culturale di fondo, cioè si è riorganizzato il contenitore a contenuti culturali sostanzialmente invarianti; il medico continua ad essere formato in modo vecchio e continua ad essere un modello di medico che si riferisce ad altri tempi, ad altri contesti, a un’altra società. Non è un caso se negli anni ha preso forma quella che ormai si chiama «questione medica», che altro non è che la crisi di un ruolo, cioè l’espressione di uno spaesamento e di un disadattamento grave. Contenzioso legale e medicina difensiva sono gli effetti gravi di questo spaesamento.

Antieconomicità
È l’effetto collaterale più importante della regressività. L’antieconomicità consiste nello spendere soldi senza avere in cambio sufficienti benefici o, peggio, quando si spendono soldi e in cambio si hanno contro-benefici. Il contenzioso legale e la medicina difensiva sono contro-benefici dovuti soprattutto a problemi di regressività. Le cattive transazioni tra domanda e offerta sono esempi di antieconomicità. Professioni inadeguate, nel senso che le loro pratiche non sono adeguate ai contesti che cambiano, sono esempi di antieconomicità. Una governance sbagliata, cioè una fraintesa concezione aziendale crea soprattutto problemi di anti economicità. Non fare salute è l’antieconomicità per eccellenza.

Diseconomie
Cosa diversa sono le diseconomie, cioè gli sprechi, gli abusi, i cattivi usi, l’inefficienza ecc. Le antieconomicità si risolvono riformando i modelli quindi le politiche, le diseconomie si risolvono razionalizzando i modelli che si hanno. Oggi nel post-welfarismo non basta più razionalizzare vecchi modelli di tutela; quello che serve è riformare tali modelli in modo che siano progressivi ed economici.

Costi standard
Nella contabilità industriale essi sono uno strumento di controllo dell’efficienza aziendale, nella sanità, dove il controllo delle performance dipende da una moltitudine complessa di variabili, essi rischiano di essere impiegati come strumento di pianificazione al ribasso del finanziamento. I problemi più seri dei costi standard sono collegati alla complessità delle cure dei malati: tali costi non tengono conto della percentuale di scarti legata alla variabilità naturale del processo di cura, e questo nella sanità è un limite gravissimo. I costi delle cure per ragioni intuibili non possono essere standardizzati più di tanto, e devono prevedere dei margini di interpretazione perché soprattutto la variabilità dei malati costituisce un grosso fattore di complessità. Infine il grande problema che i costi standard pongono sono gli scostamenti fra valori standard e valori effettivi.

Pseudo costi standard
Le Regioni stanno tentando di aggiustare gli attuali criteri di distribuzione ponderata. I costi standard sarebbero definiti non per singole prestazioni, ma per macro livelli prestazionali, il che è quello che in qualche modo già si sta facendo. Quindi si sta ragionando più nella logica dei tetti di spesa articolati per livelli assistenziali, ma non in quella corretta del costing product dei costi standard. La Toscana ha proposto di seguire un’altra linea, quella di definire una correlazione tra «attribuzione di risorse» e «standard di qualità» per ciascun livello assistenziale. Ma anche questo è al di la del costing product.

Esiti e risultati
Si tratta di passare dalla mera redistribuzione capitaria del fondo alle Regioni ad una vera e propria politica di allocazione delle risorse orientata agli esiti e ai risultati. La quota capitaria ponderata rientra nella logica dei volumi peraltro criticata proprio da Robert  Kaplan, come i costi standard e i drg, ma non in quella degli esiti. Se la tutela è «l’uso e il consumo» di prestazioni mediche, allora si tratta di allocare risorse in relazione ai risultati che un certo uso e un certo consumo producono. Ogni problema di allocazione prevede un elenco di risorse produttive disponibili in date quantità e un criterio di scelta fra vari «modi di uso» delle risorse stesse. La scelta allocativa di risorse deve essere orientata al miglior risultato del miglior uso, perché dal miglior uso dipende il miglior risultato. In pratica bisogna commisurare le risorse in ragione del loro uso efficace.

Privatizzazione del sistema
Dopo 12 anni di titolo V le Regioni, incalzate negli anni dalle misure restrittive, hanno contenuto la spesa sanitaria o comunque ne hanno rallentato la crescita non facendo più efficienza ma tagliando prevalentemente sui diritti dei cittadini. I dati pubblicati dall’Istat e dall’Ocse, indicano un calo negli anni recenti del 2,4 per cento. La responsabilità delle Regioni è quella di aver risposto ai mutamenti economico-sociali spingendo di fatto il sistema verso la regressività, cioè rendendolo sempre più antieconomico. In pratica sono state prevalentemente le Regioni che, insieme ad altre forme di privatizzazione (intramoenia, mutue integrative, fondi integrativi ecc.), hanno ceduto un bel pezzo di sanità pubblica al settore privato. Un quarto della spesa sanitaria è a carico delle famiglie. Siamo oltre i 30 miliardi di euro di spesa privata innescando la rincorsa all’intermediazione finanziaria.

Mutue e fondi integrativi
Con i fondi integrativi, che in realtà sono fondi parzialmente sostitutivi e paralleli, l’operazione che i loro fautori intendono fare è trasformare una sanità universale in una sanità selettiva e sancire di fatto una diseguaglianza tra cittadini forti e cittadini deboli, assistere al massimo i primi e al minimo i secondi, e sostituire il terzo pagante pubblico con un terzo pagante privato. Il fondo integrativo non è altro che un terzo pagante con una natura privatistica. Oggi più dell’80 per cento della spesa privata non ha intermediazione finanziaria, cioè è pagata direttamente dal cittadino al fornitore privato di prestazioni sanitarie. Quindi si tratta di un bel business che fa gola a tanti. Va trovato un equilibrio tra tutela universalistica e mutue integrative; le soluzioni devono essere chiaramente integrative e non sostitutive e in ogni caso essere complementari.

Il lavoro nel sistema sanitario
Il lavoro nella sanità è stato completamente dimenticato come fattore di cambiamento, e oggi è diventato il vero nemico da abbattere della controriforma. Lo si vede dai tagli lineari, dal blocco della contrattazione e del turn over, dall’espulsione dei sindacati dalla  concertazione, dall’espropriazione dei più elementari diritti dei lavoratori. Oggi nella sanità ciò che non regge più sono le definizioni burocratiche di lavoro e di professioni, la confusione e l’ambiguità degli statuti giuridici, le forme contrattuali appiattenti, i modi retributivi che pagano il lavoro formale ma non quello effettivo, le organizzazioni del lavoro parcellizzate, il controllo burocratico sull’operatore. Cioè oggi non regge più che il lavoro sia una variabile indipendente dai suoi risultati. Per cui oggettivamente si pone un problema di emancipazione da vecchie concezioni.

Quale lavoro?
Dobbiamo sburocratizzare il lavoro cioè ridefinirlo ma non partendo dai compiti, dalle mansioni, dai profili, dagli atti, che per l’appunto sono definizioni burocratiche, ma  dall’agente, cioè da colui che lavora e che è definito attraverso i contesti culturali, sociali, economici, scientifici, deontologici nei quali dovrà operare, e che garantirà  che tutto quello che l’ha definito sarà in ogni atto che compirà. Nuove definizioni di professione sono possibili  integrando in un «reticolo professionale»  le principali componenti che decidono il lavoro professionale. Una professione reale non è mai indipendente da contesti reali in cui opera, e meno che mai dalle capacità cognitive dell’operatore. Una professione non è fatta solo da competenze. Essa dipende soprattutto da chi l’esercita, l’agente per l’appunto, e dove si esercita il contesto di lavoro.

Retribuzioni e attribuzioni
La proposta che avanziamo è di pagare l’agente con  una  «retribuzione» e con un’«attribuzione», quindi con un doppio salario. Il primo è mensile in forma fissa, il secondo è periodico in forma variabile. Il salario variabile sostanzialmente è un salario di esito e può aumentare senza limiti a condizione però di finanziarsi con i risultati. I risultati dovranno essere nello stesso tempo di salute, clinici ed economici. Questo comporta un ripensamento dei contratti. Oggi i contratti sono  come condominii di professioni stivati in  tante stanze su livelli a volte confusi,  con effetti di appiattimento e di indistinzione molto preoccupanti. L’idea del silos, cioè di contratto unico di comparto, ha fatto oggettivamente il proprio tempo, ciò che serve è conciliare il comune contesto di lavoro con le specificità delle professioni. Un’idea potrebbe essere quella di un contratto come un frame work, cioè quale cornice contrattuale comune ma in grado di accogliere le diverse specificità professionali. Fatto questo, si tratta di ridefinire un altro genere di operatore cambiando la transazione contrattuale: in cambio di autonomia garantire responsabilità accettando di essere verificato e misurato con gli esiti. «Autore» non è altro che un operatore pagato in questo modo, ma l’autore è anche un operatore che si emancipa dall’essere semplicemente un esecutore di compiti. Questo è un esempio di emancipazione concreta, che produce più salute con minori costi.

Riformare la tutela
«Tutela» vuol dire l’uso e il consumo di medicina per fini di salute. Riformare la tutela non è una riforma ordinamentale, cioè la «riforma della riforma della riforma…», ma una riforma culturale dei modelli, delle pratiche e delle professioni, da cui dipende l’uso e il consumo di sanità e la produzione di salute. Se vogliamo rispondere al de-finanziamento del sistema pubblico dobbiamo ripensare l’uso e il consumo di sanità, dobbiamo riformare soprattutto il rapporto tra domanda e offerta ripensando la governance e le organizzazioni, ma soprattutto il lavoro che in queste organizzazioni si svolge. In questo modo avremmo pagato il nostro debito con il cambiamento. Letteralmente «tutela» vuol dire «difesa». Oggi il diritto alla salute non solo si difende, ma si costruisce. Per difendere il diritto alla salute si deve costruire il diritto stesso.  

Tags: Marzo 2014 sanità professioni sanitarie tutela della salute Ivan Cavicchi

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