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sovraffollamento carceri: cause, effetti e possibili rimedi

FABIO MASSIMO GALLO sezione lavoro Corte d’Appello

di Fabio Massimo Gallo, presidente della sezione Lavoro della Corte d’Appello di Roma

Con la sentenza pilota dell’8 gennaio 2013 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo-Cedu ha accertato la violazione da parte dell’Italia dell’articolo 3 della convenzione europea che riconduce nella proibizione della tortura anche il divieto di pene o situazioni disumane o degradanti derivanti dal sovraffollamento carcerario. Con detta sentenza la Corte ha condannato l’Italia al risarcimento del danno in favore dei ricorrenti, ed ha assegnato un anno di tempo per prevedere un meccanismo interno per il risarcimento del danno, ove non provveda ad adeguare le condizioni detentive al rispetto della persona, come dettato della decisione stessa; e poiché il termine annuale decorre dalla data del passaggio in giudicato della sentenza, 28 maggio 2013, il 29 maggio 2014 è la data di scadenza del termine concesso per evitare la decisione, di sicuro accoglimento delle centinaia di ricorsi proposti per lo stesso motivo nei confronti dell’Italia, la cui trattazione è stata sospesa dalla Corte in pendenza del termine.
Non è la prima volta che il nostro Paese viene condannato al risarcimento del danno per le insostenibili condizioni della vita in carcere, essendo già accaduto con la sentenza del 16 luglio 2009, ricorrente Sulejmanovic, ma in quella occasione, come sottolineato nel messaggio del Presidente della Repubblica, la Corte di Strasburgo non aveva fissato un termine per risolvere la questione, come invece ha fatto con questa nuova decisione, a riprova dell’accresciuta preoccupazione dei giudici europei per la situazione carceraria italiana.
È utile, a questo punto, un brevissimo excursus sulla Corte EDU, che non è organo dell’Unione Europea. Il diritto comunitario ha origine tanto normativa quanto giurisprudenziale, derivando in misura notevole dalle sentenze delle due Corti e dall’attività dei giudici nazionali, anche attraverso il dialogo tra Corte di Giustizia Europea, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e Corte Costituzionale di ciascun Paese membro. È proprio attraverso l’attività della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, istituita nel 1959, che ha trovato progressiva espansione la forza dei principi comunitari in tema di diritti fondamentali, prima ancora di arrivare al momento rappresentato dall’articolo 6 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 che al punto 2 recita: «L’unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati».
Il successivo punto 3 del Trattato UE afferma: «I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali». Tutto il cammino verso la realizzazione di un’Unione Europea è caratterizzato dalla ricerca di delicati equilibri tra il perseguimento di interessi comuni - in campo economico, militare, politico, giudiziario - e la resistenza di ciascuno Stato per difendere settori più o meno ampi della propria sovranità, con vicende difficili e discontinue, ove successi ed insuccessi si sono alternati per decenni in una situazione di incertezza ancora non del tutto superata, e rinfocolata dai problemi economici degli ultimi anni.
Analogamente, con slanci in avanti e battute d’arresto, si sono sviluppati i rapporti tra diritto nazionale e diritto europeo, connotati dalla resistenza delle Corti costituzionali di fronte alle decisioni della Corte EDU o della Corte di Giustizia, e dalla difficoltà - per il singolo giudice - di individuare la normativa comunitaria immediatamente esecutiva, senza cioè la necessità di una legge nazionale di recepimento, nonché i principi comunitari, anche derivanti da decisioni, ai quali conformare la normativa nazionale applicabile al caso concreto.
Per quanto riguarda l’Italia, va anzitutto ricordato che l’articolo 10 comma I della Costituzione stabilisce che «L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute».
Inoltre l’articolo 117, I, nel testo modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, prevede che «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». In tal modo è stata attribuita copertura costituzionale anche alle disposizioni convenzionali, compresa la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, con la conseguenza che il contrasto tra norma interna e Convenzione EDU costituisce oggi una questione di legittimità costituzionale, da sottoporre alla Corte Costituzionale se non risolvibile dal singolo giudice in via interpretativa.
Allo stato, il complesso rapporto tra giurisprudenza della Corte EDU, della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale, e la connessa questione dei poteri-doveri del giudice nazionale di fronte alle norme comunitarie e ai diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione EDU, possono sintetizzarsi come segue. Il giudice italiano ha il potere-dovere di applicare direttamente le norme europee provviste di effetto diretto, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato, ovvero dei diritti inalienabili della persona (tra tante, sentenze costituzionale n. 80 del 2011, e della Cassazione n. 4049 del 19 febbraio 2013).
In caso di contrasto tra la normativa nazionale applicabile e i principi fondamentali della Convenzione EDU non direttamente applicabili, al giudice italiano non resta altro rimedio che la questione di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 117 della Costituzione (ancora, Cassazione n. 4049 del 19 febbraio 2013). Le sentenze della Corte di Giustizia - non si riscontra identica affermazione per quelle della Corte EDU che, come già ricordato, non è un’istituzione della UE - prevalgono su quelle delle Corti costituzionali chiamate a pronunziarsi su principi generali analoghi a quelli comunitari, se le normative nazionali rientrano nella sfera di applicazione del diritto comunitario (Corte di Giustizia CE del 7 settembre 2006, C-81/05, Cordero Alonso).
Ciò posto, la sentenza Torreggiani della Corte EDU, equiparando il sovraffollamento carcerario alla tortura, ha comunque ribadito un principio generale cui il nostro Paese deve adeguare il proprio sistema carcerario, ed ha altresì espressamente rilevato il malfunzionamento cronico del sistema penitenziario italiano, oltre ovviamente alla condanna al risarcimento del danno. La motivazione della medesima sentenza ha poi dato ampiamente atto della lentezza della risposta italiana al problema, ed ha indicato, sia pure in linea generale, alcuni strumenti per evitare questa situazione, più rapidi della realizzazione di nuove strutture carcerarie, tutti in vario modo riconducibili a pene alternative rispetto alla detenzione in carcere. Il sistema normativo-giudiziario delineato impone di tenere conto di tale decisione.

 

La situazione carceraria: ragioni del problema

Esaminando ora in concreto la situazione all’interno delle carceri italiane, emerge che, secondo i dati del Ministero della Giustizia, Dipartimento amministrazione penitenziaria, al 31 ottobre 2013, di fronte a una disponibilità regolamentare di 47.615 posti, il numero delle persone detenute ammontava a 64.323, compresi i detenuti in regime di semilibertà. Che le condizioni di vita dei detenuti siano troppo spesso intollerabili è ormai un dato di comune conoscenza, ed è stato accertato, sia pure in riferimento alla vicenda processuale, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; ed anche nel messaggio di fine anno agli italiani il Presidente Giorgio Napolitano non ha mancato di richiamare l’attenzione sul problema.
La causa del sovraffollamento non risiede però nel numero dei detenuti che, come evidenziato dallo stesso Capo dello Stato nel messaggio suddetto, non è superiore alla media europea, mentre è avvilente il sovraffollamento, ossia il rapporto tra detenuti presenti e posti disponibili, che ci vedeva, nel 2011, nel penultimo posto con una percentuale del 147 per cento, seguiti solo dalla Grecia con il 151,7 per cento. Quanto al numero dei detenuti in rapporto alla popolazione, possiamo citare i dati dell’ultimo rapporto disponibile dell’Istat, del dicembre 2012, che indica 112,6 detenuti ogni 100.000 abitanti, rispetto a una media europea di 127,7; guardando oltre Atlantico, nel 2012 gli Stati Uniti d’America avevano 2.300.000 persone ristrette, con un rapporto di 761 detenuti ogni 100.000 abitanti.
Verosimilmente, allora, lo squilibrio non deriva da un eccessivo ricorso alle pene detentive, bensì dalla mancanza di un adeguato numero di edifici adibiti a carceri, in una parola dall’insufficienza dell’edilizia carceraria oltre che, in minore misura, dalla durata dei processi. È anche opportuno ricordare che su 64.323 detenuti, di cui 22.770 stranieri (il dato si riferisce al 31 ottobre scorso) quelli che hanno riportato una condanna definitiva sono 38.845, numero già molto vicino all’intera disponibilità di posti; gli altri ristretti sono considerati in regime di custodia cautelare perché in attesa di sentenza definitiva.
Si deve però evidenziare che la nozione di custodia cautelare include anche soggetti che hanno già riportato almeno una condanna in primo grado o addirittura in grado di appello, ricorrenti per cassazione, sicché il numero dei detenuti in attesa della prima decisione si riduce in concreto a 12.333 unità, cifra pur sempre rilevante ma pari al 19 per cento del totale. In tale contesto la ricerca di soluzioni alternative alla reclusione risponde indubbiamente alla necessità di adeguare il numero della popolazione carceraria all’effettiva capienza del sistema, ma non rappresenta un’esigenza di politica criminale per mitigare un sistema sanzionatorio i cui effetti non appaiono più duri della media europea. Va anche detto che alcune strutture sono in corso di realizzazione - 4.000 nuovi posti dovrebbero essere pronti per il mese di maggio 2014 - e altre non molte potrebbero, come alcuni vecchi carceri mandamentali, essere utilizzate immediatamente o riattivate con pochi interventi, ma non vengono messe in funzione per mancanza di personale, problema sul quale ritorneremo tra breve.

 

Le conseguenze del sovraffollamento

Che la situazione di sovraffollamento, quali ne siano le cause, sia inaccettabile, è comunque un fatto che non può essere messo in dubbio. Se infatti all’afflizione connaturata allo stato di reclusione, e derivante dalla privazione della possibilità di movimento, della facoltà di organizzazione della vita quotidiana, dalla lontananza dagli affetti, dalle amicizie, dai propri interessi, si aggiungono i disagi non necessari provocati dalla ristrettezza degli spazi a disposizione, dalla conseguente inadeguatezza di tutti i servizi, dall’aumento di conflittualità tra i detenuti stessi, dalla maggiore difficoltà di svolgere qualsiasi attività giornaliera, si comprende agevolmente il motivo della condanna della CEDU nei confronti del nostro Paese.
Inoltre, come pure sottolineato dal Presidente della Repubblica nel messaggio alle Camere, il danno all’immagine nazionale sulla scena europea non è il solo, né il prevalente, motivo che impone di porre mano con decisione al problema. Considerazioni di ordine etico ed umanitario, peraltro ripetutamente segnalate anche da recenti interventi di diversi Pontefici, impongono infatti di non aggravare oltre il necessario le condizioni delle persone in carcere, di rendere più umano il trattamento e facilitare quanto più possibile il recupero morale e sociale dei detenuti.
È davvero paradossale che la patria di Cesare Beccaria e di Pietro Verri, pensatori che hanno insegnato all’Europa e al mondo intero il concetto di pena in senso moderno, si trovi esposta, sia pure non per dolo ma certo per colpa grave, a pesanti critiche sul piano morale e su quello giuridico per le condizioni di vita dei propri detenuti; i quali, giova ricordarlo, non rappresentano una percentuale superiore alla media europea.
La condizione di sovraffollamento delle carceri italiane comporta una serie di ulteriori effetti negativi, anzitutto rendendo più difficoltoso l’apprendimento di un mestiere, fattore essenziale per il recupero morale e il reinserimento sociale del detenuto, circostanza evidenziata anche dalla Corte dei Conti e puntualmente segnalata dal Presidente della Repubblica nel messaggio dell’8 ottobre scorso. Inoltre è intuitivo che condizioni di vita ai limiti della tortura, come ritenuto dalla Corte EDU, aumentano lo sconforto e il senso di abbandono dei detenuti, con ripercussioni a volte tragiche come i suicidi drammaticamente dimostrano.
Sul piano strettamente economico, è probabile una serie di altre condanne per risarcimento del danno da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in caso di perdurante inadempimento da parte italiana dei principi di cui alla menzionata sentenza. E non è da escludere una procedura di infrazione da parte della stessa Unione Europea. L’eccessivo numero di ristretti rende poi assai più arduo il controllo sull’attività svolta all’interno del carcere ove l’affollamento favorisce con tutta evidenza la prosecuzione di attività criminali da parte dei detenuti più aggressivi o «potenti», anche attraverso il dominio sul territorio come i recentissimi fatti di Mammagialla a Viterbo - la grande rissa di Capodanno tra detenuti per la supremazia nel carcere - hanno messo ancora una volta in luce.
Nell’affrontare la questione carceraria non bisogna infatti dimenticare che il sovraffollamento si riflette negativamente e direttamente sul Corpo della Polizia penitenziaria, il cui organico fissato per legge - decreto legislativo 146/2000 e decreto ministeriale 8 febbraio 2001 - prevede 534 unità per il personale dirigenziale, 1.376 funzionari con professionalità giuridico-pedagogica, 1.630 funzionari con professionalità di servizio sociale e 41.281 agenti. Di fronte a tale previsione, al 30 agosto 2013 risultavano in servizio 416 unità per il personale dirigenziale, 1.002 funzionari con professionalità giuridico-pedagogica, 1.058 funzionari con professionalità di servizio sociale e 37.590 agenti (fonte Dipar-timento Amministrazione penitenziaria).
A causa di queste rilevanti carenze (molti carceri sono privi di direttore e mancano quasi 3.700 agenti e più di 2.000 tra operatori con professionalità pedagogica e di servizio sociale) il rapporto del personale operativo, di fronte ad oltre 65.000 detenuti è largamente inferiore alla parità, e sarebbe inferiore anche rispetto al numero dei posti disponibili (47.000). Tale situazione, aggravata dall’impiego della Polizia penitenziaria in compiti ulteriori rispetto al servizio nelle prigioni (traduzione dei detenuti, sicurezza presso varie strutture del Ministero della Giustizia ecc.) rende particolarmente faticoso e logorante, sul piano sia fisico che psichico, il compito degli agenti di custodia effettivamente impegnati nel servizio carcerario, spesso con manifestazioni tragiche come dolorosamente ricordano i 7-8 suicidi annuali tra gli agenti.
Indubbiamente si potrebbero eliminare i servizi di traduzione detenuti, sicurezza del Ministero ecc. recuperando un certo numero di unità, ma non si arriverebbe mai a colmare la scopertura dell’organico. Inoltre, restituire il servizio traduzione detenuti ai Carabinieri sposterebbe semplicemente sull’Arma il conseguente problema, stante l’insufficienza di organici anche della Benemerita; affidare a privati quei compiti di protocollo, amministrativi e controllo visitatori oggi svolti dalla Polizia penitenziaria presso varie sedi del Ministero della Giustizia imporrebbe l’assunzione di altro personale, sia pure in regime di collaborazione coordinata e continuativa (ancora possibile per la Pubblica Amministrazione) con conseguenti ulteriori spese; e dunque, come si vede, alla fin fine tutto si riduce, ancora una volta, a una questione di disponibilità di mezzi finanziari.

 

Alcune soluzioni ipotizzabili

Il Presidente della Repubblica ha individuato, nel più volte citato messaggio alle Camere, una serie di possibili interventi tra i quali l’adeguamento dell’edilizia carceraria, che però richiede tempi non brevi, e la riduzione del numero complessivo dei detenuti attraverso innovazioni di carattere strutturale quali: l’introduzione di meccanismi di probation, la previsione di pene limitative della libertà ma non carcerarie ad esempio la reclusione presso il domicilio, la riduzione dell’area di custodia cautelare in carcere, lo sforzo per far sì che i detenuti stranieri possano espiare la pena nei loro Paesi di origine, l’attenuazione degli effetti della recidiva. Solo come rimedi straordinari il Capo dello Stato ha infine indicato l’indulto e l’amnistia per fronteggiare l’emergenza in attesa della adozione di soluzioni strutturali.
Ci sia ora consentita qualche riflessione sulle ipotesi sopra riportate, muovendo dalla considerazione che la detenzione, da applicare certamente con parsimonia e sempre nel rispetto della dignità umana, risponde pur sempre ad una serie di esigenze sociali. Anche abbandonando la teoria dell’espiazione, occorre infatti ricordare che la pena detentiva assolve a molteplici funzioni, prima fra tutte assicurare ai cittadini la fiducia nelle istituzioni ed evitare che «cives ad arma ruant», cioè cedano alla tentazione di farsi giustizia da soli, il che è lo scopo primario di ogni sistema di diritto. La pena deve anche avere una certa funzione deterrente, sempre a tutela della collettività, e impedire la commissione di altri reati da parte del reo. Il bilanciamento tra tali esigenze di difesa sociale cui si affianca la funzione rieducativa, e il rispetto della persona del detenuto rappresentano il punto focale di tutta la questione. Orbene, se da una parte è indispensabile assicurare la dignità, la sicurezza e la salute dei detenuti, dall’altra è parimenti fondamentale che i cittadini non perdano la fiducia nello Stato, che deriva anche dalla certezza della pena.
È sotto gli occhi di tutti la contraddittorietà di prese di posizione politiche che di volta in volta invocano maggiore rigore ogni volta che un detenuto in semilibertà, in permesso ecc. evade o commette altri reati generando reazioni nell’opinione pubblica; ogni volta che un indagato per omicidio colposo viene lasciato a piede libero o posto solo ai domiciliari; ogni volta che gli autori di delitti di ampia risonanza vengono condannati a pene ritenute troppo miti. E che alternativamente invocano riduzioni della custodia cautelare, la scarcerazione anticipata di tizio o caio a seconda della simpatia politica o umana che ispira, magari per la popolarità acquisita nel mondo dello spettacolo, l’allargamento di forme di reclusione non detentive.
Il recente decreto legge 23 dicembre 2013 n. 146, cosiddetto decreto Svuota carceri, con la scelta di estendere temporalmente i periodi di liberazione anticipata, presenta - al di là di ogni considerazione di opportunità - i caratteri di un provvedimento clemenziale atipico, destinato ad aggravare in modo significativo il lavoro dei magistrati di sorveglianza e del relativo personale amministrativo, e che sortirà l’effetto di porre in libertà, si stima, al massimo 7.000 persone su un’eccedenza di circa 20.000. È di questi giorni, per contro, la proposta di introdurre il reato di omicidio stradale, iniziativa del tutto superflua tecnicamente e nel concreto, ma destinata a placare in qualche modo l’allarme sociale derivante dall’aumento di tali condotte.
Quanto alla possibilità di far scontare ai detenuti stranieri nel Paese di origine la pena inflitta in Italia, è intuitivo che tale soluzione, indubbiamente ragionevole, non dipende evidentemente solo da scelte del nostro Legislatore, ma richiede la collaborazione degli Stati di provenienza, ottenibile attraverso accordi internazionali di non facile né rapida realizzazione.

 

Riflessioni finali

Sia pure con la consapevolezza di battere in breccia per l’ennesima volta il principio di effettività della pena, con conseguente insoddisfazione di gran parte della cittadinanza e senso di frustrazione per forze dell’ordine e magistratura, un provvedimento generalizzato di clemenza, indulto o amnistia, o entrambi secondo la scelta del Legislatore, appare attualmente da prendere seriamente in considerazione come l’unica risposta possibile, in tempi rapidi, a una situazione che ci scredita agli occhi del mondo e stride con la nostra coscienza di Paese civile. Tra l’indulto che estingue la pena, e l’amnistia che estingue il reato, dovendosi ricorrere ancora una volta a una soluzione emergenziale, appare più costruttivo il ricorso all’amnistia, per gli effetti indotti e per la maggiore semplicità di applicazione, a tutto vantaggio della speditezza del risultato e del risparmio di energie degli organi giudiziari.
Trattando dei problemi di qualsiasi settore dell’amministrazione della giustizia, infatti, non bisogna mai dimenticare quali sono le risorse umane effettivamente disponibili: così, di fronte a un organico complessivo di 10.151 magistrati tra giudicanti e inquirenti stabilito dalla legge n. 181 del 2008, sono in servizio in Italia alla data del 7 gennaio 2014 complessivamente 9.118 magistrati, inclusi 649 in tirocinio che non svolgono funzioni giurisdizionali, e il numero effettivo dei posti vacanti negli uffici è pari a 1.498. Non meno gravi le carenze per il personale amministrativo: infatti, mentre la dotazione organica del personale amministrativo non dirigenziale, prevista per legge, è pari a 43.702 unità, di cui 37.778 per personale amministrativo e 5.924 per personale NEP, le presenze lo scorso mese di settembre ammontavano a 31.971 per il personale amministrativo e 4.682 per il personale NEP; infine, la dotazione complessiva nazionale dei dirigenti è fissata in 420 posti, ma le presenze sono 238.
Stabilire quali reati, quali pene residue possano costituire oggetto dei provvedimenti di clemenza è ovviamente compito del Parlamento. Possiamo però ricordare che nel 2006, dopo l’ultimo provvedimento di indulto, la popolazione carceraria scese a 40.000 unità, per poi ritornare a 60.000 dopo appena due anni, nel 2008, con il rientro di gran parte dei soggetti che, usciti per effetto dell’indulto, avevano ripreso l’attività delinquenziale. Si può realisticamente affermare, dunque, che il numero di 60.000-65.000 detenuti, sostanzialmente stabile negli ultimi sette anni, è fisiologico in rapporto alla popolazione effettivamente presente in Italia, inclusi gli stranieri, e di conseguenza un nuovo provvedimento generale di clemenza servirebbe solo a tamponare, una volta di più, l’emergenza ma non risolverebbe assolutamente il problema.
È quindi indispensabile porre mano, al più presto, a un massiccio piano di edilizia carceraria, per adeguare la disponibilità effettiva di posti letto e relativi servizi al prevedibile numero medio di detenuti. Si ha notizia di un piano del DAP per ampliare di 21.000 posti la capienza delle strutture esistenti, portandole così a coprire appieno le prevedibili esigenze. Tale iniziativa, a parte i necessari tempi di realizzazione, avrebbe un costo di 350 milioni di euro, somma ingente che però corrisponde sostanzialmente al rimborso elettorale di tutti i partiti italiani per un paio di tornate elettorali. A titolo di curiosità, ricordiamo anche che uno studio del Ministero dello Sviluppo Economico del 2012 ha individuato in circa 10 miliardi di euro l’anno la spesa per il mantenimento degli enti inutili.
Il recupero delle spese di giustizia, a tutt’oggi problematico a dir poco, potrebbe essere un’ulteriore fonte di provvista a vantaggio dell’edilizia carceraria. Forse, indagando con buona volontà nelle pieghe del bilancio statale e agendo sul funzionamento della Pubblica Amministra-zione, non sarebbe impossibile adottare l’unica soluzione realmente in grado di contemperare le esigenze di tutela della società con quelle del rispetto per la dignità e la salute dei detenuti. Tanto più che un ambiente carcerario più umano consentirebbe, come già ricordato, di portare avanti con maggiori speranze di successo l’opera di riabilitazione morale e di reinserimento sociale voluta dalla nostra Costituzione.
Nel breve periodo sarebbe anche importante agire per aiutare concretamente gli ex detenuti, usciti con o senza benefici, a reperire un lavoro, una sistemazione o almeno un sostegno sociale che consentano loro di non cedere alla tentazione di ricadere immediatamente nella commissione di reati. Opinioni divergenti si riscontrano tra gli operatori del diritto sulla reale efficacia di una politica di depenalizzazione ai fini della diminuzione della popolazione carceraria. Da una parte viene evidenziato che il 95 per cento dei ristretti è in carcere per produzione e spaccio di sostanze stupefacenti, rapine, estorsioni, furti reiterati; il rimanente, per violenza sessuale, associazione mafiosa, omicidio, reati per i quali una depenalizzazione è impensabile.
D’altra parte si obietta che le pene detentive per alcuni reati minori, che assai raramente vengono espiate in carcere, possono però influire in sede di esecuzione entrando nel computo ai fini del cumulo, facendo scattare la soglia ostativa alla concessione della sospensione o delle pene alternative: pertanto, sia pure indirettamente, la depenalizzazione di alcuni reati minori ancora oggi puniti con pene detentive potrebbe agire positivamente sul numero dei detenuti. In ogni caso una seria depenalizzazione consentirebbe quanto meno un recupero di costi, di energie e di strutture, a tutto vantaggio dell’efficienza della giustizia e della rapidità delle decisioni, riducendo in particolare gli spazi della cosiddetta custodia cautelare, che sempre suscita perplessità, più o meno fondate.
Certo, la soppressione degli articoli da 394 a 401 del Codice penale, attuata - sia detto, ad onor del vero, unitamente ad altre ipotesi di reato - con la legge 25 giugno 1999 n. 205, non ha prodotto grandi risultati in tal senso: articolo 394, sfida a duello; 395, portatori di sfida; 396, uso delle armi in duello; 400, offesa per rifiuto di duello e incitamento al duello; articolo 401, provocazione al duello per fine di lucro.   

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