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il potere dei gruppi transnazionali e il cambiamento avvenuto dopo la seconda guerra mondiale

LUCIANO CAGLIOTI

In un momento complesso come quello che stiamo attraversando, è ovvio che si tenti in qualche modo di capirci qualcosa, riportando una serie di considerazioni, di ipotesi, di scenari che sono il frutto di anni di osservazioni, letture, meditazioni, scambi di idee. Alla base di tutto vi è il desiderio di ricordare e collegare fra loro avvenimenti apparentemente lontani, talvolta insignificanti. Quando si opera in modo siffatto, vi è il rischio concreto di fare fatua dietrologia, ma vi è anche la possibilità non del tutto remota di svolgere almeno in parte quello che deve essere il ruolo di una persona che vive con gli occhi aperti e con il desiderio di capire, di cogliere fra gli infiniti segnali che la vita quotidiana presenta quelli che indicano una tendenza.
Il mondo moderno da sempre, ma in particolar modo dalla fine della seconda guerra mondiale, è ripartito fra due grossi tipi di organizzazione: quella degli Stati sovrani e quella dei gruppi multinazionali. Gli Stati sovrani presentano un rilevante interesse pubblico, ed hanno una loro struttura con Governo, Parlamento, Esercito, Magistratura, partiti ecc. Uno Stato sovrano deve difendere economia e occupazione, deve fornire ai più deboli, ai vecchi, ai malati la necessaria solidarietà, deve costruire scuole, ospedali, strade. Deve regolare import ed export, operare scelte su temi di grande spessore tecnologico quali quello dell’energia, deve mediare fra interessi diversi, deve attuare una politica monetaria coerente.
Un gruppo multinazionale che operi in settori di grande interesse tecnologico e socio-economico, quali ad esempio quelli dell’informatica, della biologia ecc., ha fra i propri scopi quello di prosperare. Per prosperare un gruppo siffatto trova dei vincoli soprattutto nel mercato. Può spostare capitali ingenti da un Paese a un altro, non solo ma può anche spostare la produzione da un Paese a un altro qualora questa operazione dovesse essere giudicata conveniente. In un simile contesto possiamo esaminare quelle che, a rigor di logica, sono le leve da azionare per conseguire vantaggi.
Un gruppo transnazionale non ha eserciti, non può mettere una bandiera sul forte, non ha ambasciatori, non ha un’organizzazione stabile tipo Stato. Se, come gruppo, ha dimensioni tali da far coincidere il proprio interesse con quello della Nazione cui fa riferimento il suo capitale, può avvalersi delle strutture dello Stato in questione: ambasciate, diplomazia, esperti di vario tipo ecc. In molti casi questo si verifica. Certamente si verificava in passato: ciò che va bene alla General Motors va bene agli Stati Uniti, diceva Henry Ford.
Nel dopoguerra la situazione è cambiata. Innanzitutto in senso quantitativo. La quantità di produzione è diventata immensa in tutti i settori, sia in quelli tradizionali sia in quelli che sono sorti nel frattempo in seguito allo sviluppo tecnologico. Ma è anche, e soprattutto, in senso qualitativo che si sono verificati i più grandi cambiamenti. Una prima considerazione riguarda il contenuto tecnologico delle attività. Mentre in una prima fase dello sviluppo industriale le attività riguardavano settori nei quali il contenuto tecnologico non costituiva elemento limitante, nel senso che esso era accessibile a Paesi di pari livello culturale, in questa seconda fase le tecnologie sono divenute il cardine delle attività, costituendo il punto di partenza di nuovi gruppi multinazionali (cfr.L.C. Limes 1997).
La verticalizzazione tecnologica dei settori ha favorito la creazione di monopoli di fatto, appena mitigati da concorrenza e da normative antitrust. Si è passati da settori come l’auto a settori come l’elettronica, il biotec, l’energia con le sue tecnologie di trivellazione, di offshore, nucleari, lo spazio e in misura tecnologicamente più modesta, ma di grande volume economico, la produzione e la trasformazione dei cibi. È di pochi anni la rivoluzione biotecnologica che ha portato al formarsi di nuove industrie, e al rafforzamento del sistema farmaceutico.
Un secondo punto riguarda, oltreché la sempre maggiore internazionalizzazione, la concentrazione crescente della produzione in un numero sempre minore di mani. Tutte le volte che leggiamo di un accordo, di una fusione, di una joint venture, di una privatizzazione, ci troviamo di fronte a una diminuzione del pluralismo dei gruppi produttori. Sempre meno gruppi controllano una frazione sempre maggiore della produzione mondiale. Se si considera che avvengono con frequenza acquisizioni incrociate di partecipazioni, si può concordare sul fatto che un gruppo non elevatissimo di persone decide gli scenari della produzione mondiale.
Tagliando grosso, la quota del capitale transnazionale nel prodotto interno mondiale è passata dal 17 per cento della metà degli anni 70 al 24 per cento nel 1982, ad oltre il 30 per cento nel 1995. Ma vi è un’altra variabile che spesso viene citata, soprattutto da Le Monde Diplomatique, ed è il cosiddetto Club dei 200, che descrive le dimensioni raggiunte dai primi 200 gruppi bancari e industriali del mondo. Si poteva apprendere che le prime 200 imprese del mondo detenevano nel 1960 il 17 per cento del prodotto lordo mondiale; secondo lo stesso giornale del marzo 1994, questa percentuale era salita al 24,2 per cento nel 1982, e al 26,8 per cento nel 1992.
Come dire che la tendenza a un accentramento sempre maggiore si è andata consolidando. E certo i dati sopra esposti sono riduttivi se si considera che non tengono conto degli avvenimenti degli ultimi anni. Ci riferiamo, oltreché ai mutamenti profondi sopravvenuti nei rapporti Est-Ovest, al processo di privatizzazione di imprese, banche ecc., fenomeno internazionale, scattato un po’ ovunque sia in Occidente sia nelle zone emergenti.
In pratica l’impresa globale non ha più un centro, essa non è altro che una rete costituita da differenti elementi complementari, sparpagliati nel pianeta e che si articolano secondo una pura razionalità economica che obbedisce a due concetti chiave: rendimento e produttività. Così un’impresa francese può avere la sede in Svizzera, installare i propri centri di ricerca in Germania, comprare i macchinari nella Corea del Sud, produrre in Cina, elaborare la campagna di marketing in Italia, vendere negli Stati Uniti, avere delle società a capitale misto in Polonia, Messico e Marocco; basta vedere gli interventi di Ignacio Ramonet su Le Monde Diplomatique. È chiaro che in un contesto del genere non vi è più un centro dell’impresa e, soprattutto, non si può più identificare l’interesse dell’impresa con quello di un solo Stato sovrano.
Un esempio per tutti: gli addetti di una impresa vengono ad essere integrati, loro malgrado, nel mercato internazionale del lavoro. Ed è certo che il livellamento viene fatto ai livelli più bassi e convenienti, sia sotto il profilo della remunerazione che sotto quello della protezione sindacale, sociale, ambientale. Anche se non mancano strategie illuminate volte a diminuire possibili attriti. Nel Sud del mondo si trova manodopera a buon mercato, nel Nord l’automazione, la robotizzazione, la nuova organizzazione del lavoro portano a un massiccio ridimensionamento degli occupati, donde le ricorrenti crisi.
Le nuove strutture industriali gravitano su tre aree: quella dell’Europa occidentale, la Nordamericana, quella del Sud-Est asiatico. Quest’ultima, in particolare, si è creata praticamente dal nulla quando, finite le guerre in Corea e Vietnam, le tecnologie soprattutto giapponesi, ed ora soprattutto coreane, hanno fatto da starter per lo sviluppo dell’intera area. Qualcosa di analogo potrebbe accadere, adesso che il processo di pace sembra avviato nelle zone medioorientali e nordafricane, sempreché si proceda nei timidi passettini denominati «Primavera araba» e che la forza tecnologica israeliana si estenda in territori oggi ancora ostili.
Ogni gruppo, momento per momento, ottimizza il complesso sistema: in particolare il sottosistema costituito da materie prime, capitali, tecnologie, forze di lavoro. Questo continuo processo di ottimizzazione tende a prescindere da considerazioni relative al Paese o ai Paesi che costituiscono la base di origine del gruppo. Ecco quindi una sempre crescente separazione, per non dire un contrasto, fra Stati sovrani e Stati multinazionali. Se ci riferiamo allo stato attuale di questa situazione, vediamo Stati sovrani che devono garantire ordine pubblico, trasporti, sanità, solidarietà verso i più deboli, intersecati da Stati multinazionali che adottano decisioni in un’ottica che tende sempre più a prescindere dagli interessi degli Stati.
Se un’impresa automobilistica cessa una produzione in Italia e l’inizia, si fa per dire, in Belgio, fa i propri interessi ma crea difficoltà occupazionali all’Italia e un vantaggio al Belgio. Se si considera che da oltre un trentennio, caduto il Muro di Berlino, il pianeta è un villaggio globale senza frontiere, possiamo prevedere uno sviluppo tipo vasi comunicanti, nel quale il benessere nei Paesi ricchi calerà mentre salirà quello dei Paesi come l’Est europeo: perché pagare un ingegnere 3 mila euro al mese in Italia, se in Albania si può avere un esperto di livello non troppo inferiore per un decimo? Vi è un aspetto del mondo moderno che merita di essere sottolineato: esso è costituito dalla sempre crescente uniformità dei modelli dominanti.
Nel mondo sviluppato ed anche, con minore intensità, in quello in via di sviluppo, abbiamo le stesse pubblicità, gli stessi prodotti, la stessa musica, la stessa televisione, gli stessi film, lo stesso sport, la stessa moda. In altre parole, il modello cui ci ispiriamo è unico, sia pure con le ovvie ed inevitabili variazioni locali. Vi è una palese, ovvia, alleanza fra gruppi produttori e pubblicità che viaggia sui canali televisivi di tutto il mondo in forma aperta e in forma surrettizia. I media, anche attraverso il loro corredo di telenovele, insegnano ovunque come ci si veste, cosa si mangia, come ci si comporta, come scegliere un avvocato, un’automobile, una penna, come si combattono le lotte di amore o aziendali.
I gruppi sembrano avere una loro completa autonomia rispetto a chiunque, unico limite essendo l’equilibrio di forze che si realizza fra diversi protagonisti. Ed anche questo limite si va restringendo, a causa delle partecipazioni incrociate. Poniamoci un problema: cosa dovrebbe fare un gruppo che ha interessi in una pluralità di Paesi, per difendere dovunque tali propri interessi? Ogni Paese ha un proprio Governo, una classe dirigente, e le decisioni del Governo e le opinioni della classe dirigente possono giovare o, invece, contrastare gli interessi del gruppo. In tema di licenziamenti, nel senso di restrizioni in materia, in tema di protezionismo commerciale, in tema di sicurezza sul lavoro, di politica previdenziale, ambientale: mille sono i punti sui quali può nascere una divergenza.
Per evitare divergenze, o quanto meno per mitigarle, i gruppi in genere pongono attenzione ai rapporti con la classe dirigente, con i partiti, con i Governi. Come? Cercando di curare le informazioni necessarie, di finanziare persone, movimenti, fondazioni ecc. Tenendo in grande attenzione collegamenti trasnazionali fra persone e collegamenti internazionali dell’informazione. Tutto ciò premesso, vale la pena di sottolineare alcune situazioni ed alcuni avvenimenti che, nel loro insieme, ci aiutano a capire qualcosa dell’attuale situazione italiana.
Una volta terminata la fase di ricostruzione post-bellica, l’Italia sviluppò una consistente qualità e quantità di ricerca in seguito alla quale aveva conquistato la leadership scientifico-tecnologica in alcuni importanti settori. In dettaglio: nel settore dei materiali plastici, in particolare il polipropilene, nel quale la scuola di nuovi polimeri del Politecnico di Milano conquistò il Premio Nobel; nel settore degli antibiotici Rifamicina ed Adriamicina, messi a punto da Ariamone della Farmitalia Carlo Erba e da Piero Sensi della Lepetit Italia; nel settore dell’energia nucleare attraverso il CNEN di Felice Ippolito, settore nel quale primeggiavamo al mondo; nel settore delle proteine da petrolio; nella politica energetica condotta dall’Agip, poi Eni; nello sviluppo dei computer l’Olivetti produsse il primo computer portatile del mondo; nello sviluppo dei sulfamidici presso l’Istituto Superiore di Sanità.
Eravamo i primi, siamo rotolati in fondo attraverso avvenimenti e personaggi spesso inquietanti, e le conseguenze furono una continua, colossale svendita di strutture industriali italiane. Svendita che si è sempre verificata, ma che ha trovato il suo massimo dopo il 1990 e nei tempi attuali.   

Tags: Gennaio 2014 Luciano Caglioti

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