l’insostenibile leggerezza del pil: dal feticismo alla sostenibilità

«Il prodotto interno o Pil misura tutto eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta». Abbiamo aperto, circa un mese fa l’ultima edizione del «Premio Vincenzo Dona, voce dei consumatori» con queste parole, lette da Francesco Pezzulli, uno dei più celebri doppiatori italiani, e tratte dal celebre discorso che Robert Kennedy pronunciò, nell’Università del Kansas, il 18 marzo del 1968. La straordinaria attualità di quelle parole ha impressionato i presenti: sappiamo tutti, infatti, che viviamo tempi nei quali si fa più intenso il dibattito sul «feticismo del Pil», per usare le parole di Serge Latouche, ospite d’onore del nostro evento.
Abbiamo voluto focalizzare l’attenzione sul modello di sviluppo al quale ispiriamo le nostre esistenze e sulla sostenibilità, concetto evocato quotidianamente nei dibattiti pubblici, nei proclami della politica, nella comunicazione d’impresa, negli auspici dei cittadini. Non siamo nuovi a questo tipo di riflessioni: già nel 1996 l’Unione Nazionale Consumatori ispirava l’educazione dei consumatori al «consumo sostenibile»; qualche settimana fa, infatti, ho trovato un vecchio opuscolo sul tema, pubblicato dalla nostra associazione alla fine degli anni Novanta. Mi è sembrato quasi un segno del destino: concetti come riduzione degli sprechi, scelta di prodotti riciclabili, attenzione alle etichette e risparmio energetico sono oggi di straordinaria modernità, tanto da decidere di dedicare questa edizione del Premio al loro approfondimento, ma già allora erano prospettati come l’unica strada plausibile per migliorare la vita sociale e ambientale.
Oggi, rispetto agli anni Novanta, si è compreso che questa «nuova» sensibilità è diventata una vera e propria esigenza, evocata ormai quotidianamente, tema che purtroppo torna di attualità quando la natura prende il sopravvento: abbiamo tutti negli occhi la devastazione senza precedenti che ha colpito prima le Filippine e poi la Sardegna. Purtroppo rimane il fatto che siamo uno strano Paese, abituato a parlare di prevenzione quando si contano le vittime della nostra stessa trascuratezza. Così, anche nell’ambito del nostro evento, ci siamo chiesti se «sostenibilità» e «green economy» sono parole al vento o vera opportunità, e nel far ciò abbiamo coinvolto nella riflessione istituzioni, imprese, addetti ai lavori e opinion leaders, nella convinzione che sia fondamentale per la discussione il contributo di tutti gli attori del mercato. Credo si possa dire che dalla mattinata è emerso un messaggio ottimistico: ragionevolmente riteniamo che il Paese possa ripartire dalla green economy, dalla sostenibilità e fondiamo questa convinzione sull’osservazione del mondo circostante, ma anche sulla quotidiana attività di ascolto di consumatori sempre più interessati, seriamente interessati, ai temi dell’impatto ambientale dei prodotti e dei loro stessi comportamenti.
Questo rende ancora più necessarie le scelte dei consumatori e dobbiamo ammettere che essere etici è oggi più difficile di quanto non lo fosse in passato: posso affermare che, nonostante la crisi, il prezzo non è più l’unica bussola che indirizza i comportamenti di consumo. Sembra ormai chiaro che oggi diventa un imperativo per tutti ripensare il modo di produrre, di vendere, di fare acquisti, di consumare e di gestire i rifiuti. Ecco perché, tornando al nostro Premio, abbiamo promosso una mattinata nella quale la narrazione dal palco del Teatro Argentina ha riguardato le molte storie della sostenibilità attraverso le voci dei protagonisti, chiedendo loro di raccontarci un’esperienza, un’idea, svelando magari, anche per grandi aziende che inevitabilmente hanno un significativo impatto sull’ambiente, il loro impegno e la loro visione.
Abbiamo rilanciato il dibattito sull’efficienza energetica, sul riscaldamento globale, sul ciclo dei rifiuti, sulla sostenibilità alimentare, sullo spreco, sullo sviluppo, sulla cultura; abbiamo coinvolto i nostri ospiti chiedendo loro di agire, di votare, di decidere se è possibile una crescita diversa o una decrescita - meglio sarebbe dire una a-crescita - che possa renderci felici e sostenibili. Abbiamo forse testimoniato che un’altra strada è possibile, ed è quella di una minore complessità, di un’economia «no frills», senza fronzoli. Insomma, è davvero necessario offrire ai consumatori prodotti in over-packaging, centinaia di referenze nel banco frigo di un supermercato, o dozzine di gusti diversi per le cialde del caffè?
Io credo che per troppo tempo abbiamo confuso la crescita con lo sviluppo: si può ripartire se sapremo convincerci che sostenibilità fa rima con semplicità, accessibilità, coraggio, creatività, innovazione. Tutto sommato, più ci penso e più mi sembra di poter dire che sostenibilità fa rima con italianità. Una strada sostenibile è possibile per imprese lungimiranti, istituzioni aperte, consumatori intelligenti.
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