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RAPPORTI IMMAGINARI MA DEMOCRAZIA PARTECIPATA E RIBELLIONE AI SOPRUSI

di MAURIZIO DE TILLA presidente dell’associazione nazionale avvocati italiani

I veri amici sono le persone su cui possiamo contare ogni volta che ne abbiamo bisogno. Gli amici che conosciamo tramite la «rete» sono effimeri, vanno e vengono, probabilmente molti di loro non li abbiamo mai nemmeno incontrati, non abbiamo idea di cosa facciano, a loro non interessa affatto della nostra vita e molto spesso non sono nemmeno consapevoli di essere nostri amici. Dunque è tutto immaginario, è una sorta di illusione che aiuta a vivere in un’epoca come l’attuale, in cui tutti temono di essere esclusi.
Sono parole di Zygmun Bauman nel libretto «Communitas. Uguali e diversi nella società liquida», che fa rilevare che «la rete rappresenta un surrogato della realtà, della vecchia antiquata comunità che offre molta sicurezza a scapito della libertà». Visto sotto un diverso profilo, la rete è uno dei più efficaci strumenti di dialogo e di democrazia partecipativa. Gianni Riotta nel libro «Il web ci rende liberi» si sofferma sugli effetti politici e partecipativi della rete. I «soci di network» sono un lievito per la democrazia. In particolare i social media durante la Primavera Araba hanno offerto agli attivisti, per la prima volta nella storia, l’opportunità di diffondere rapidamente informazioni, superando ogni restrizione dei Governi.
La gente che aveva interesse alla democrazia ha costruito fittissime reti di comunicazione e azioni militanti. I social media sono stati l’arena principale nell’arsenale della libertà. Secondo alcuni, però, i social media non sono stati la catarsi. Catarsi sono stati gli eventi che descrivevano. Ma vi è di più. Per autogovernarsi e diventare cittadini anziché sudditi è necessario poter accedere a informazioni adeguate specialmente riguardo alle politiche statali. Di qui il valore di una stampa libera.
Un tempo era un grave reato rivelare cosa veniva detto in Parlamento, ma ad un certo punto la trasparenza nel Governo è divenuta la norma. Le informazioni che dalle Istituzioni arrivano ai cittadini sono solo una parte di un flusso bidirezionale. Ci deve essere anche un modo, per i cittadini, d’influenzare la politica e i governanti. Perché questo possa accadere occorre che si formi un’opinione pubblica. Attraverso un dibattito civile e razionale sulle varie questioni si viene a creare una vera opinione pubblica.
Con questi concetti Horward Rheingold, nel libro «Perché la rete ci rende intelligenti» solleva il problema che la scienza delle pubbliche relazioni, assai bene corazzata, stia per deformare la formazione dell’opinione pubblica, manipolandola. Tutti noi viviamo in una «società dello spettacolo» con una manipolazione da parte di potenti che in gran parte possiedono e sfruttano i principali mezzi di informazione. In quest’ambito la rete può avere una funzione innovativa dei modi dell’informazione e salutare.
Horward Rheingold suggerisce di imparare a partecipare alle discussioni politiche e ad impegnarsi per alzare il livello del dibattito della sfera pubblica dei social media. Questo è il metodo da seguire: «Contestare le posizioni, non attaccare le persone, citare le prove, essere disponibili a cambiare idea, impegnarsi in azioni collettive basate su dati concreti». Solo così si può capire come devono funzionare le reti e trovare un posto adeguato nel loro interno. Ma vi sono ulteriori riflessioni. La condizione umana sta migliorando grazie alla tecnologia che permette di connettere ospedali, centri di cura e scuole. Un mondo connesso riduce le disparità. Ma il computer non esaurisce gli interventi necessari. D’altra parte può favorire abusi e spionaggi. Viene infatti sistematicamente violata la riservatezza nell’home banking, negli acquisti on line, nelle reti internet. Non vi sono più comunicazioni protette e garantite nella privacy. È questo il costo sociale della diffusione della rete.
Secondo alcuni attenti osservatori la rivoluzione informatica appiattirà le tradizionali gerarchie burocratiche sostituendole con organizzazioni in forma di network. Le comunità virtuali che si formeranno su internet travalicheranno le giurisdizioni territoriali e svilupperanno modelli di governance propri. Siffatta rivoluzione informatica sta cambiando la natura e la diffusione del potere. Sono aumentati sia il volume sia la velocità dell’informazione, che non è più possibile accentrare o controllare. Il risultato è un’esplosione di informazioni.
Nel 2010 vi sono stati 988 miliardi di gigabyte. Si temeva un controllo governativo centralizzato, come quello raccontato in «1984», il romanzo di George Orwell. Ma il controllo non è stato possibile nemmeno in Cina. Joseph S. Nye jr. nel libro «Smart power» fa rilevare che vi sono numerosi nuovi attori transnazionali che agiscono come una «coscienza globale», dando voci a interessi pubblici più generali che esulano dalla sfera di competenza dei singoli Stati.
L’abbattimento dei costi di comunicazione nell’area di internet ha aperto il campo a organizzazioni debolmente strutturate, prive di un’ampia rete centrale, e persino a singoli individui. Il potere basato sulle informazioni non è una novità, il ciberpotere lo è. E quanto più è potere, tanto più va disciplinato con una regolamentazione di portata internazionale. Nell’ambito della rete si inserisce, poi, il dilemma: sicurezza o privacy? Leggiamo già da tempo che siamo tutti spiati e controllati. E che qualsiasi privacy non ha più tutela rispetto ad esigenze superiori e, anzitutto, la sicurezza dello Stato. Negli USA è scoppiata un’aspra polemica alimentata dal Guardian e dal Washington Post che hanno rivelato l’esistenza di enormi programmi per la sorveglianza di telefoni e di internet. In risposta ai due giornali così ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama: «Dobbiamo sempre ricordarci che non si può avere il 100 per cento della sicurezza e della privacy e nessun svantaggio. I controlli compiuti sono legali e utili per combattere il terrorismo».
Il problema fondamentale è quindi l’uso che si fa dei dati che vengono acquisiti e conosciuti spiando e controllando i cittadini. Spesso vi sono indebite utilizzazioni dei dati a fini politici e industriali che non hanno nulla a che vedere con la «sicurezza». Michele Ainis, sul Corriere della Sera, parla di regole da rispettare: «Primo: serve un preavviso. Quando lo Stato si arroga il diritto di origliare, noi abbiamo il diritto di saperlo. Secondo: il preavviso si giustifica solo in situazioni di emergenza. Terzo: ogni emergenza è per definizione temporanea, ed è regolata dal diritto». Secondo Ainis si può violare la privacy ma con preavviso e in casi eccezionali. Nessuno lo ascolterà. Sappiamo da tempo che siamo tutti spiati. E fra i «tutti» rientrano Capi di Stato, membri di Governo, industriali, politici ecc. Non comprendiamo, quindi, perché ci si scandalizza se il cellulare del cancelliere tedesco Angela Merkel è stato spiato. Per riuscire a vivere una vita off line bisognerebbe abbandonare la via digitale. Il che è utopistico.
L’unica cosa che ci rattrista è che si parli ancora di sanzioni per la violazione della privacy. È una grande ipocrisia. Si sostiene che i Servizi segreti con le loro intercettazioni e le loro spiate svolgono una funzione necessaria e utile nella lotta contro il terrorismo e la criminalità. Ma ciò non può giustificare un sistema generalizzato di spionaggio, che indaga nella vita privata di cittadini che non hanno nulla a che vedere con i fenomeni criminali. Né gli Stati democratici possono abusare con l’uso strumentale delle intercettazioni che non solo violano la privacy, ma limitano sotto tutti gli aspetti le libertà individuali e democratiche. È incompatibile con i diritti umani l’attività di spionaggio di massa. Per alcuni l’origine del problema sta nella convergenza di interessi di Governi ed aziende.
I fini commerciali delle corporation e quelli politici degli amministratori coincidono. Entrambi, con fini diversi, vogliono l’accesso ai dati personali degli utenti per sapere cosa leggono, guardano, mangiano, studiano, pensano. Invero, esistono anche fini di controllo per combattere il terrorismo. Ma il problema fondamentale è come vengono usati i sistemi di sorveglianza e controllo e come si conciliano con i diritti dei cittadini.    

Tags: Gennaio 2014 libri Maurizio de Tilla

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