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povera lady, non è mai la prima

di ENRICO SANTORO  professore, avvocato

Una «lady» che si vede allo specchio dopo una lunga seduta dal coiffeur. Ma non si piace affatto. Questa oggi appare essere l’Italia dopo la pubblicazione avvenuta due settimane fa delle classifiche stilate da Transparency International, nelle quali il nostro Paese, collocato al posto numero 69, risulta terzultimo tra quelli europei nel tasso di corruzione percepita, dietro persino a Portogallo e Irlanda, avanti solo a Grecia e Bulgaria, alla pari con Romania e Montenegro, tra le Cenerentole nella lotta alla corruzione.
Purtroppo provando a cambiare l’angolo visuale l’effetto non cambia, anzi: con l’aiuto di un recente rapporto dell’Economist spuntano fuori altri «nei». Innanzitutto che il nostro è un Paese anagraficamente vecchio, il quarto per vecchiaia degli abitanti, non tanto per la qualità del sistema sanitario quanto anche per il basso tasso di natalità, con un conseguente carico di problemi legato alla difficile tenuta del sistema pensionistico e alle scarse potenzialità di innovazione. Il «look» complessivo è davvero insoddisfacente. L’indice di sviluppo umano italiano, indicatore usato dall’Onu che comprende addirittura il livello di alfabetizzazione degli adulti e la speranza di vita, ci vede al 25esimo posto.
Non va meglio sotto il profilo dell’istruzione: siamo preceduti da 24 Paesi per numero di iscritti all’università, tra cui Norvegia e Stati Uniti ma anche Corea, Grecia e Portorico, con probabile penalizzazione per le nuove generazioni. La crisi italiana emerge da altri ritardi: siamo al posto 36 se si guarda l’abilità del sistema economico nell’adottare nuove tecnologie; al posto 19 se si misura il grado di interazione tra imprese e ricerca scientifica; al posto 43 nell’indice di competitività globale, che sintetizza i parametri connessi al rendimento economico, all’efficienza governativa, a quella negli affari e alle infrastrutture economiche. E in quanto a prodotto interno pro capite ci precedono 35 Nazioni.
Ma c’è un dato ancora più grave di tutti gli altri. L’indice di libertà economica in Italia, sostiene l’Heritage Foundation stilando una graduatoria basata sulla capacità dell’intervento governativo di limitare i rapporti economici tra individui, vede l’Italia addirittura al posto 83. È la traduzione statistica di quel comune sentire ormai diffuso, di quella litania che fa concludere qualsiasi appassionata analisi tra conoscenti nel melanconico «Siamo in Italia!». Ebbene, se abbiamo davvero toccato il fondo non si può che risalire.
Anche se consapevoli che poco funziona nel nostro Paese, dai servizi essenziali a quelli più sofisticati, dalla burocrazia al credito, dobbiamo avere la convinzione che un riscatto etico è alla nostra portata, soprattutto se la politica e i governanti, con quel che rimane delle larghe intese, sapranno mantenere ferma la barra del timone sulla rotta che hanno concordato con i nocchieri europei.
Europei, ecco il punto. La dimensione continentale si ripropone ancora una volta come nodo centrale e come via d’uscita della crisi economica che in Italia è avvertita con forza maggiore a causa dei ritardi cui abbiamo fatto cenno - la colpa dei quali è totalmente interna -, e che può essere risolta solo trovando fattori di coesione su scala europea. Se il mercato di riferimento è il mondo, per avere un minimo di peso specifico vanno rivalutate le proporzioni economiche.
Con concorrenti come Cina, India, Brasile o Stati Uniti bisogna fare «massa critica» uscendo dai nazionalismi e accettando limitazioni di sovranità. Qualcuno ancora ritiene che la mancanza di una lingua comune e la necessità di legioni di traduttori a Bruxelles, per quanto l’inglese sia ormai diventato di dominio intercontinentale, renda ostici i progetti federativi. È difficile dargli torto e dispiace constatare quanti ritardi siano stati accumulati nella costruzione dell’Unione. Bisogna però avere fiducia, tener conto che sono stati compiuti passi avanti grazie alle scelte della Banca Centrale europea nella gestione dei problemi finanziari creati dalla crisi; riproponendo progetti di armonizzazione fiscale; e puntando a difendere e rilanciare le industrie strategiche dei Paesi europei, in primis del nostro, pure ipotizzando barriere doganali continentali se serve a gestire le sperequazioni legate a diversi metodi in altri continenti, relativi alle regole produttive.
A prescindere da logiche federative o confederative negli assetti istituzionali, in ambito europeo ciascun Paese o meglio ciascun cittadino dovrà rassegnarsi o impegnarsi con serietà e convinzione a interpretare come si deve la propria parte, valorizzando le proprie specificità e competenze, per sfruttare nel modo migliore le opportunità aperte dal mercato mondiale. Nell’Italia del dopoguerra questo accadde. Lo scenario si ripropone con la firma a Bali dell’accordo sulla liberalizzazione degli scambi commerciali: presenti 159 delegati degli Stati membri del Wto, accordo storico secondo il giudizio dell’Organizzazione mondiale per il commercio che ne ha dato l’annuncio il 7 dicembre scorso: un passo fondamentale, atteso dal 1995, che crea i presupposti di elasticità negli scambi che possono farne crescere il volume di oltre mille miliardi di dollari. Al riguardo però noi italiani stavolta dobbiamo essere cauti.
Perché? Finita la seconda guerra, l’economia mondiale crebbe come mai prima di allora e l’Italia riuscì a fare ancora meglio di tutti gli altri Paesi, esportando 5 volte più che in precedenza, anche perché poteva appoggiarsi su stabilità politica, salari contenuti, scarsa conflittualità sociale. Oggi sfogliando i giornali si capisce che nessuna di quelle condizioni è presente o a portata di mano. Mancano ad esempio le condizioni per veder valorizzate le nostre produzioni: se così non fosse, perché gli aderenti alla Coldiretti sentirebbero l’esigenza di trasportare i maiali dalla frontiera del Brennero fin davanti la Camera dei Deputati? Ricordano che nell’ultimo anno hanno perso 615 mila maiali a causa dell’arrivo di animali importati con cui si producono salumi che di italiano hanno poco o niente e che, oltre ai prosciutti di Parma e San Daniele, sono a rischio 100 mila posti di lavoro.
Due prosciutti su tre nei nostri supermarket vengono da terre lontane; negli stabilimenti si ammassano 5,7 miliardi di chili di grano ungherese e canadese; si importano 72 milioni di chili di salsa in concentrato dalla Cina, l’equivalente del 20 per cento della produzione italiana di pomodoro fresco; mentre gli yogurt con nomi italiani vengono prodotti con latte lituano o polacco, per non parlare dei vari oli nostrani che derivano da olive spagnole o greche.
Certamente queste produzioni - si passi il termine «bastarde» - costano meno e gli scaffali in cui sono appoggiate si svuotano prima perché i prezzi sono, e non potrebbe essere diversamente, più accattivanti a scapito della qualità. Ben vengano quindi iniziative come Eataly che possono attivare un’inversione di tendenza culturale, capace di restituire innanzitutto attrattiva e di conseguenza mercato alle produzioni italiane doc. Ma anche una rilettura delle norme s’impone. E poi logicamente occorrerà restituire potere d’acquisto alle famiglie. In questo senso siamo proprio indietro.
Un’indagine dell’Inps sostiene che dal 2001 ad oggi il prodotto interno italiano è sceso del 6,5 per cento e che, da quando è iniziata la crisi, il potere d’acquisto delle famiglie è sceso del 9,4 per cento, con 5 anni di calo e un vero e proprio tracollo nel 2012 con una diminuzione del 4,9 per cento, mentre il reddito disponibile lordo delle famiglie è sceso di 19 miliardi sotto il livello 2008. Nello stesso giorno i giornali richiamavano i dati dell’Istat secondo cui aumenta la fascia di famiglie a rischio di indigenza, con cifre che preoccupano, proporzionalmente alla constatazione che invece in altri Paesi europei la situazione sembra meno gravosa. Il calo di ricchezza reale italiano analizzato dal Fondo Monetario Internazionale è superiore anche a quello che si era registrato negli anni precedenti la seconda guerra mondiale.
Sei italiani su dieci a Natale hanno ridotto le spese, secondo un’indagine Confcommercio. Sono i consuntivi a dircelo, ma il budget per i regali è stato più esiguo di una cifra che si aggira tra i 100 e i 300 euro. La Coldiretti sostiene che gli italiani hanno tagliato anche sull’acquisto e la dimensione degli abeti natalizi. Non è d’accordo la Confesercenti, ma certamente sarebbe superficiale pensare che i budget di spesa degli italiani possano essere all’altezza di quelli di qualche anno fa. D’altra parte i dati sulla disoccupazione rappresentano l’antefatto di questa situazione: il Misery Index presentato dalla Confcommercio calcola un’area di disagio occupazionale che riguarda 4,3 milioni di persone, doppia rispetto al 2007, e ad esso fa eco la Confartigianato secondo cui dal 2008 sono stati perduti 400 mila posti di lavoro nell’edilizia, e il calo del 4,3 per cento delle imprese artigiane ha bruciato circa 123 mila posti di lavoro.
Il rilancio dei consumi per ora appare lontano, anche perché l’unica classifica in cui risaliamo posizioni è quella della pressione fiscale. Siamo arrivati al quarto posto nell’eurozona raggiungendo, secondo le cifre fornite dalla Banca d’Italia, la ragguardevole percentuale del 44 per cento contro una media del 41,6 per cento nell’ area dell’euro, preceduti soltanto da Belgio, Francia ed Austria, dove però i servizi pubblici corrispondenti non sono certamente sconquassati ed inefficienti, oltre che costosi, come quelli italiani.
Tale pressione mette in crisi le famiglie e le imprese italiane, specialmente se medie e piccole, dice l’analisi sul sistema finanziario pubblicata in autunno dal Fondo Monetario Internazionale, che giudica sufficiente lo stato di salute delle banche ma rimarca il momento «delicato» delle imprese e le loro condizioni di «fragilità» connesse a livelli «già elevati» di insolvenze. Per questo l’istituzione di Washington sprona la penisola a «proseguire con forti azioni politiche per mitigare l’impatto di queste fragilità».
Ma riuscirà l’operazione? Pressione fiscale alta e fragilità spesso si traducono in evasione: il Centro studi Adb di Kris Network of Business Ethics, elaborando dati forniti da Ministeri, Banche centrali, Istituti di statistica e Polizie tributarie di tutta Europa, sostiene che la fedeltà fiscale italiana è scesa del 17 per cento e che, per livello di evasione, pari ad oltre 200 miliardi l’anno, siamo davanti a Grecia, Romania, Bulgaria, Estonia e Slovacchia. La cura rischia di uccidere il malato.
La lotta all’evasione in Italia prosegue ma purtroppo è troppo alto il ritardo sul piano del riordino legislativo, della mancanza di riforme in grado di operare sui conflitti d’interesse per favorire una naturale emersione delle transazioni. Il ricavato dalla tobin tax, la tassa sulle transazioni finanziarie, è stato meno di un quinto di quanto stimato. Per il Governo Monti avrebbe dovuto dare un gettito di un miliardo nel 2013, ma il gettito è fermo a 159 milioni. «Proseguire nell’azione iniziata» sembra quasi una frase di circostanza: lo conferma il consuntivo tracciato dal 47esimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese del Censis, nel quale viene dipinta un’Italia fiaccata dalla crisi, dalla quale i giovani se ne vanno contribuendo al raggiungimento di una crescita degli espatri pari al 28 per cento. Difficile arginare la fuga se 4,3 milioni di persone non trovano occupazione, se una famiglia su quattro fatica a pagare le bollette, se il 70 per cento assicura che avrebbe difficoltà ad affrontare una spesa improvvisa.
La pioggia di liquidità immessa dalle banche centrali per salvare il mondo dalla crisi, sostiene il McKinsey Global Institute, non ha arricchito le famiglie. Ha ridotto i costi degli Stati che avevano debiti e i rendimenti di chi aveva obbligazioni, ed anche i costi di chi aveva mutui, prevalentemente i giovani, ma non di chi li aveva estinti, per lo più anziani e ceto medio. Molte banche hanno tenuto i soldi per sé frenando qualsiasi sogno espansivo, e siamo in presenza di una crisi di liquidità generalizzata. Spuntano, sembra paradossale, monete alternative, con circuiti di ticket riservati ai clienti di alcune catene commerciali, e persino i bit coin, moneta elettronica introdotta su internet nel 2008 da uno sviluppatore di cui si conosce soltanto il nickname, che non è controllata da alcuna istituzione monetaria e si basa solo sul vincolo fiduciario tra le persone che acquistano e vendono. L’iniezione di liquidità ha salvato dal default,  ma non ha rilanciato l’economia.
Per quanto riguarda l’Italia, va ricordato che lo sforzo di rientrare nel parametro europeo che impone di mantenere entro il 3 per cento il rapporto tra deficit e prodotto interno complica ulteriormente le possibilità di ripresa. Certo, non bisogna dimenticare che il debito pubblico complessivo da noi accumulato negli anni, che supera i 2 mila miliardi, è davvero spaventoso. Ciò che spaventa di più è l’incapacità della classe politica di avviare un’inversione di tendenza. La legge di stabilità conferma il vuoto assoluto di progetto.
Un anno fa, parlando di vie d’uscita dalla crisi facevamo cenno al turismo come risorsa privilegiata. Poco o nulla è stato fatto o previsto: l’Alitalia, anziché essere usata su lunghe tratte, è stata messa in concorrenza con compagnie low cost che sanno far meglio quel mestiere e le è stata tolta capacità strategica, buttando al vento i soldi del risanamento. Pompei continua a crollare e non si pensa ad estendere ad essa e ad altri siti turistici patrimonio dell’Unesco la «formula Colosseo», affidando a privati che ne sapranno ricavare un giusto utile la gestione intelligente di un patrimonio culturale nazionale che è tra i più nutriti al mondo.
E che può rappresentare un volano formidabile per la ripresa economica. Nell’ultimo rapporto Federculture si rammenta che la cultura produce il 5,4 per cento del prodotto interno e dà lavoro a 1,4 milioni di persone. Cifre che potrebbero moltiplicarsi se si trovasse la capacità di redistribuire, e non solo ridurre, - la spesa pubblica, facendo gli investimenti in infrastrutture, formazione e progetti capaci di restituire speranza al sistema economico. La grande paura è che l’attuale classe dirigente non sia all’altezza di pensare in grande come dovrebbe.  

Tags: Gennaio 2014 Enrico Santoro

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