CORSERA STORY. MARIO CERVI E GLI ANNI D’ORO DEL CORRIERE DELLA SERA
L’opinione del Corrierista
L’ex direttore de Il Giornale Mario Cervi ha pubblicato un libro, edito da Mursia, che costituisce la sua biografia giornalistica, ricca di una grande quantità di notizie e di particolari sull’ambiente in cui ha lavorato per tantissimi anni. Una miniera soprattutto di insegnamenti, uno di quei libri la cui lettura andrebbe prescritta non solo nelle scuole di Giornalismo, ma in tutte le redazioni, soprattutto in quelle televisive. Cervi ha scelto un titolo, «Gli anni del piombo» senz’altro azzeccato, anche se ai giovani occorrerà spiegare che non si tratta solo degli «anni di piombo», quelli in cui anche il suo grande direttore e collega Indro Montanelli fu «gambizzato» dalle Brigate Rosse; ma soprattutto degli anni in cui i giornali venivano ancora stampati fondendo il piombo all’interno delle linotype per unificare i caratteri in righe e imprimerli sulla carta.
Io avrei preferito un altro titolo, quello che Cervi ha scelto per il primo capitolo, precisamente «Gli anni d’oro al Corriere della Sera», nel quale «si confessa, a proposito del mestiere di giornalista, che tutto iniziò, come accade spesso delle cose in Italia, con una raccomandazione»; «si narra di quanto possa essere facile entrare nel palazzo del Corriere, ma di quanto poi sia difficile salirne le scale»; «si passano in rassegna caratteri e carriere dei direttori di Via Solferino degli anni Cinquanta e Sessanta con curiosi aneddoti e qualche cattiveria».
Tre dei cinque capitoli del libro sono dedicati al periodo trascorso da Cervi al Corriere della Sera, un quarto alla «grande avventura» da lui vissuta seguendo Montanelli nell’uscita dal grande quotidiano di Via Solferino, nella fondazione e poi nella direzione de Il Giornale; in un quinto capitolo è descritta la sua attività di storico, ossia la stesura a quattro mani, sempre con Montanelli, della «Storia d’Italia». Non può non condividersi quello che scrive Cervi, soprattutto perché dettato dal buon senso dei tempi andati.
Ma talvolta il buon senso non evita conoscenze parziali di fatti e persone e, in un giornalista, descrizioni inesatte o incomplete. Un esempio, il fatto che io non sono stato raccomandato da nessuno; un altro: il suo giudizio sul presidente del Consiglio Fernando Tambroni, quello dei «fatti di luglio» del 1960, che egli descrive «ambizioso e mediocre notabile democristiano delle Marche», quando invece era ritenuto, proprio dal Corriere della Sera, l’enfant prodige della politica italiana, il pupillo del Capo dello Stato Giovanni Gronchi, l’esponente di spicco della sinistra dc e dell’incipiente apertura a sinistra, che fu costretto poi dalle circostanze ad accettare i voti del MSI.
Al giudizio negativo su Tambroni corrisponde quello positivo su Alfio Russo, che, giunto a dirigere il Corriere dopo i «fatti di luglio», impose al giornale un cambiamento di linea politica a 180 gradi, contro l’apertura a sinistra e l’ingresso nella maggioranza del Psi, e per il ritorno al defunto quadripartito centrista. Sponsorizzato incautamente, presso gli editori, da Gaetano Afeltra dopo il loro primo fallito tentativo di nominare direttore Giovanni Spadolini, dopo appena qualche mese Russo costrinse Afeltra a lasciare il Corriere; e subito attuò, quarant’anni prima dei politici, lo spoil system assumendo al Corriere una carovana di amici provenienti da La Nazione, che egli aveva diretto: Gianfranco Piazzesi, Paolo Bugialli, Giovanni Grazzini ed altri ancora.
Preziosa la testimonianza di Cervi su come veniva fatta al Corriere della Sera negli anni 50 e 60 la cronaca giudiziaria. Nel libro è contenuto lo stralcio di un’udienza del processo Fenaroli per l’omicidio di Maria Martirano, pubblicato il 1 giugno 1963: pagine intere all’epoca contenevano la riproduzione, domanda e risposta, degli interrogatori degli imputati o dei testi, delle dichiarazioni del pubblico ministero e degli avvocati. A questa tecnica era ricorso per primo il più grande cronista di giudiziaria del dopoguerra, Arnaldo Geraldini, già inviato speciale del Giornale d’Italia al seguito del Duce e nel dopoguerra direttore del Momento-Sera, primo giornale italiano a pubblicare i fatti di cronaca nera in prima pagina.
Geraldini era il cronista giudiziario da Roma del Corriere della Sera e il capo della redazione romana del Corriere d’Informazione, quotidiano del pomeriggio del primo. Era una «colonna» della stampa romana, tutti i cronisti giudiziari, compresi Lelio Antonioni e Guido Guidi de La Stampa e Fabrizio Menghini del Messaggero, si rivolgevano a lui per avere qualche notizia. Durante la clamorosa inchiesta giudiziaria sulla morte di Wilma Montesi, trovata cadavere l’11 aprile 1953 sulla spiaggia di Torvaianica e per la quale fu arrestato Piero Piccioni - figlio di Attilio Piccioni, fondatore della Dc, più volte ministro, addirittura presidente incaricato del Consiglio -, il telefono di Geraldini squillava in continuazione: lo chiamavano i genitori della vittima, gli inquirenti, i testi «segreti», i colleghi giornalisti.
Ne ebbe consigli, notizie e indicazioni utili anche Cervi quando fu inviato a Roma da Milano per seguire da vicino certi grandi processi. Ma non gli è stato grato. «Un cronista della redazione romana incaricato di seguire l’inchiesta non aveva soddisfatto né il direttore Missiroli né il redattore-capo Mottola. Mi fu chiesto d’incaricarmene e mi precipitai a Roma, trovandomi immerso in un clima giornalistico assatanato–racconta Cervi–. Poiché trascorrevano giorni vuoti ma ogni giorno ci voleva qualcosa che giustificasse un titolo, le fantasie si sbrigliavano». E conclude: «Tutto questo era inventato», «l’istruttoria Montesi fu una Caporetto della stampa italiana ma fu anche uno specchio del Paese, non fornì alcuna prova della responsabilità di Piccioni ma portò in superficie un inquietante sottobosco politico-affaristico-mondano della società italiana durante il miracolo economico».
Tante volte redattori milanesi del Corsera e del Corinform, desiderosi di mettersi in luce o scomodi per quella redazione, si fecero inviare a Roma a «scippare» incarichi ai redattori romani. Potrei citare Alberto Cavallari, Valter Tobagi, Guido Vigna. Apprendo dal libro che l’estromissione di Geraldini dal processo Montesi e l’invio di Cervi furono dovuti ad altro: al desiderio di Missiroli, e degli editori, di non insistere sulla presunta colpevolezza del figlio di un altissimo esponente di Governo.
V. C.
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