CORSERA STORY. UN TASSELLO MANCANTE: TOBAGI E IL CORINFORM
L’opinione del Corrierista
Manca sicuramente un tassello, importante almeno a mio parere, alla ricostruzione della tragica vicenda di Walter Tobagi compiuta il 28 maggio scorso nella trasmissione televisiva «La storia siamo noi» condotta per Rai Tre da Giovanni Minoli, direttore del programma Rai Educational. Una trasmissione che, anche grazie alla ricchezza e alla profusione di mezzi finanziari e umani di cui dispone, si distingue per serietà, rigore e utilità nel melenso, caramelloso, approssimativo e fuorviante panorama delle trasmissioni tv italiane.
Giornalista, inviato speciale del Corriere della Sera, presidente dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti, Walter Tobagi fu assassinato la mattina del 28 maggio 1980 in Via Andrea Salaino a Milano, a breve distanza dalla sua abitazione situata in Via Andrea Solari, da un commando di giovani, alcuni dei quali appartenenti alla Milano bene; si stava recando a prendere l’automobile per raggiungere la redazione del Corriere, in Via Solferino 28. Aveva solo 33 anni, era sposato e aveva due figli, Luca e Benedetta.
In tutte le ricostruzioni di quella triste vicenda fatte in tanti anni non si è mai parlato dei suoi rapporti con la redazione romana del Corriere d’Informazione, testata pomeridiana del Corriere della Sera, nella quale io lavoravo dal 1956; e nella quale egli cominciò, nei primi anni 70, la propria attività sia nel giornalismo politico sia in quella carriera sindacale che l’avrebbe condotto a una tragica fine.
Il gruppo di ragazzi che negli anni Sessanta collaboravano al giornale La Zanzara del Liceo Parini di Milano, e nel quale Tobagi aveva cominciato a scrivere, aveva suscitato nel mondo giornalistico in generale e in quello politico romano poco più che una divertita curiosità: non si sarebbe immaginato che qualche anno dopo Tobagi, a causa di quella sua passione per la politica, sarebbe diventato uno dei protagonisti più sfortunati del giornalismo italiano.
Prima che lo conoscessi, aveva già intrapreso la professione giornalistica: dopo La Zanzara, e anche per merito di questa, era entrato nel quotidiano socialista Avanti! di Milano, poi era stato assunto nel quotidiano cattolico Avvenire uscito il 4 dicembre 1968 e diretto da Leonardo Valente, ex giornalista della Rai. All’epoca il Corriere della Sera e il Corriere d’Informazione erano diretti da Giovanni Spadolini, subentrato nel 1968 ad Alfio Russo; redattore capo del secondo giornale era Vittorio Notarnicola, capo della redazione romana Mario Bernardini. Nel 1972 a Notarnicola a Milano subentrò Antonio Alberti, a Bernardini a Roma subentrai io. E fu proprio Alberti, su richiesta del suo amico Leonardo Valente, che cercava di inserire una serie di giovani nella redazione del Corinform, ad inviare a Roma da Milano, dove era stato nel frattempo assunto al Corriere d’Informazione, Walter Tobagi.
Me lo affidò perché svolgesse inchieste nel mondo politico; non un trasferimento definitivo ma a tempo, inchiesta dopo inchiesta. Accolsi Tobagi con grande apertura, amicizia e collaborazione; ero di 15 anni più grande di lui e da 16 ero al Corsera. Gli assegnai una scrivania nella mia stanza, alla mia destra: una grande scrivania di noce, elegante, modellata, fatta eseguire appositamente, su disegno dell’architetto Franco Borsi - come tutta la pregiata e severa boiserie -, per la nuova sede di Via del Parlamento 9 di proprietà del Credito Italiano, nella quale ci eravamo trasferiti nel 1965 dal modesto appartamento di Via della Mercede 37, di proprietà degli editori Fratelli Crespi.
L’unico problema era costituito dal fatto che Tobagi era bravo, intraprendente, acuto, ma non conosceva nessuno nel mondo politico romano nel quale aveva in programma di compiere inchieste: un genere giornalistico che esige una vasta rete di conoscenze e di amicizie personali con persone bene inserite, informatissime ma anche disposte a raccontare; e delle quali occorre conquistare la simpatia e soprattutto la fiducia. Dal 1956 mi occupavo di politica per il Corriere d’Informazione in sostituzione dell’anziano Virginio Enrico, poi dei neoassunti Alberto Ronchey e Arrigo Levi che, dopo una breve permanenza, si erano fatti inviare a Mosca, il primo da La Stampa e il secondo dal Corriere; tanto che nel 1960 dovetti affrontare da solo per il Corriere d’Informazione «i fatti di luglio» e la crisi del Governo Tambroni. Avevo la tessera di giornalista parlamentare che consente l’accesso al Parlamento.
Fu così che introdussi Tobagi nel mondo politico, gli feci conoscere i maggiori esponenti, lo aiutai nelle sue inchieste. Di lui mi resta impresso un ricordo: seduto nella sua scrivania a un paio di metri di distanza da me, parlava al telefono con informatori o esponenti politici con voce talmente bassa che non riuscivo a capire una parola. Trascorso quel periodo e tornato stabilmente a Milano, Tobagi conosceva ormai bene le «maniglie» che aprivano la porta dei retroscena della classe politica. Ci perdemmo di vista, perché nel 1976 lasciai il Corriere d’Informazione per dedicarmi, su richiesta del nuovo direttore Piero Ottone, al lancio delle pagine romane del Corriere della Sera: operazione che in pochi mesi portò le copie vendute a Roma da 15 mila dei giorni feriali e 17 mila dei festivi, ad oltre 42 mila.
Anche Tobagi aveva modificato il campo di azione: si era impegnato nell’attività sindacale che lo portò presto al vertice dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti. Una strada pericolosa non in sé, ma per l’impegno politico che contemporaneamente egli assunse nell’ambito del Partito Socialista Italiano. Anche io ebbi offerte da Bettino Craxi: quando era vicesegretario di quel partito - divenne segretario nel luglio del 1976 -, mi telefonava spesso da Milano dal momento che giornalmente redigevo la nota politica per il Corriere d’Informazione; ma io rimasi indipendente.
Un giorno, nei primi mesi del 1980, ricevetti da Walter un’imprevista telefonata: mi chiedeva di aiutarlo, di operare nella redazione romana e tra i politici romani per ottenergli consensi e solidarietà. Non mi spiegò i motivi né glieli chiesi, sapevo che si era imbarcato in un’avventura politico-sindacale fortemente contestata anche nell’ambito della nostra categoria. Quando il 28 maggio 1980 appresi la sua penosa fine, quasi mi pentii di avergli aperto le porte del «Palazzo»; ma vi sarebbe arrivato da solo: era troppo bravo e troppo onesto; ma per un romano come me, era forse anche troppo ingenuo.
(V.C.)
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