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CORSERA STORY. SVENDITE: REGINA E CANCELLIERA APRONO LE DANZE MA STAVOLTA IL CORRIERE NON BALLA

L’opinione del Corrierista

A conclusione di un editoriale ispirato alla saggezza antica del giornale che dirige, alla propria e a quella della maggioranza degli italiani, sul quotidiano da lui diretto cioè il Corriere della Sera domenica 10 giugno scorso - 72esimo anniversario della più funesta avventura dei governanti italiani, la guerra -, Ferruccio de Bortoli ha espresso un giudizio sulle privatizzazioni nazionali. Più che un articolo, ha scolpito una pietra miliare in tempi di crisi economica, dissennatezza, sfiducia, incoscienza dei politici, incertezza su tutto e su tutti.
L’argomento era enunciato nell’occhiello «Classe dirigente e futuro del Paese», e completato nel titolo «I leggendari poteri forti». Leggendari? Io avrei usato altri aggettivi, più appropriati, per esempio «inafferrabili, inidentificabili, misteriosi, evanescenti, imperscrutabili, criptici». Ma è lo stesso, sappiamo benissimo di chi si parla, cioè di poteri che esistono realmente, operano, comandano o comunque influiscono pesantemente su chi comanda. Ma questo è un altro discorso.
Condivido la stima espressa da de Bortoli per le «élites di grande livello» cui l’attuale Governo «ha fatto abbondante ricorso in questi giorni» ossia le migliori Università e la Banca d’Italia; con qualche defaillance, preciso io, dovuta ad influenze televisive che forse de Bortoli ha incluso in quelle che ha definito «pallide eredità, epigoni incapaci di assicurare stabili governance alle loro società, figuriamoci se in grado di suggerire metodi di Governo generale».
Tempo fa lodai un altro articolo nel quale de Bortoli ebbe il coraggio di attaccare la Fiat o meglio l’impero degli Agnelli; non mi era mai capitato di assistere a un caso del genere in tutti i 36 anni in cui ho lavorato nel Corriere della Sera, semmai ho assistito al contrario da quando gli Agnelli divennero diretti o indiretti azionisti del Corriere della Sera. Ma nell’editoriale di de Bortoli del 10 giugno ho letto molto di più: un’accusa esplicita alla Confindustria, che egli ha definito «appesantita dalle proprie contraddizioni».
Ha spiegato, ad esempio, che «chiede di tagliare la spesa pubblica e di eliminare le Province e non riesce neppure a ridurre i propri costi di struttura». Una critica forse dovuta più che a una «contraddizione», a un forte contrasto interno alla stessa Confederazione, tra i «poteri forti» che questa rappresenta? O ad un regolamento di conti in atto, a una ridefinizione dei ruoli? L’ipotesi che si aspiri a una gestione più sobria e cauta, o addirittura più decisa ed energica, delle risorse finanziarie del mondo imprenditoriale, e ovviamente degli azionisti del Corriere della Sera, è rafforzata dall’incertezza sulle prospettive di sbocco della crisi economica e finanziaria in atto.
Mi illudo se in tutto ciò vedo anche il desiderio di un ritorno alle antiche abitudini di prudenza, previdenza, risparmio, morigeratezza del Corriere della Sera di una volta? Una presa di coscienza e un’avvisaglia di rivolta contro un andazzo che negli ultimi trent’anni ha contagiato il mondo «corrierista»? Andazzo cominciato con la decisione di liquidare, anziché rafforzare, La Domenica del Corriere, e proseguito con operazioni avventate, avventure editoriali fallimentari, sprechi, dilapidazioni, emulazione di enti politicizzati, lottizzati, dissestati e parassitari come la Rai-Tv.
Ci fu un periodo in cui la gestione del Gruppo da parte di Cesare Romiti sembrò recuperare vacillanti valori di previdenza e risparmio, tanto che fu creato il termine «romitismo». Ma era solo apparenza. Nei primi anni 80, in funzione della mia indipendenza politica e coscienza aziendalistica, calcolai che nella redazione romana per i soli collaboratori esterni si spendevano 10 miliardi di lire l’anno, mentre si lasciavano disoccupati una decina di validi redattori interni; non ne fu tenuto conto, per cui io creai lo slogan: «Romitismo sta scritto di fuori».
Proprio in quell’epoca la direzione del Corriere inviò Massimo Gaggi, valente redattore del settore economico, a compiere un reportage, dopo il ciclone di Tangentopoli, sul meeting organizzato dalla regina Elisabetta d’Inghilterra sul panfilo Britannia, giunto appositamente nelle acque di Civitavecchia. Tema del meeting: le privatizzazioni italiane, ossia la prospettata liquidazione delle partecipazioni statali attraverso la loro vendita o svendita a privati.
E qui de Bortoli diventa un Grande: confessa infatti che «ci eravamo illusi che il privato, con le sue virtù, cambiasse il pubblico. Dobbiamo constatare che, molto più frequentemente, i difetti del pubblico hanno contagiato il privato. Eravamo convinti che le privatizzazioni in Italia avrebbero esaltato i comportamenti virtuosi e isolato le pratiche peggiori. Hanno premiato, salvo pochi casi, le consorterie opache e diffuso la convinzione perniciosa che una relazione conti più di un risultato, che l’amicizia prevalga sul merito».
Caro Ferruccio, io non mi ero affatto illuso sulle privatizzazioni fatte in Italia, le ho sempre combattute, sono rimasto un isolato. Fui attaccato da alcuni colleghi-stuolini della proprietà i quali poi, anche per questo, diventarono direttori di giornali padronali. Minacciosamente uno mi avvisò: «Combatti una battaglia di retroguardia». Il mensile da me fondato e diretto, Specchio Economico, rimase solo, per anni, a battersi contro le privatizzazioni selvagge, le svendite, i regali ai privati rampanti dell’epoca, i «tecnici» che si sono venduta perfino la lira in cambio di lauti posti in Europa e di benefici personali.
Ho raccolto i miei editoriali su Specchio Economico, dal 1982 in poi. Basta qualche titolo: Una rapina gigantesca; Privati e pirati; Giornalisti o sensali; Corsera, il depliant di Standa; Dismissioni, bella favola dal triste finale ecc. Ora siamo di nuovo alle svendite delle migliori aziende, dei migliori complessi immobiliari. Ma poiché queste «esigenze» si ripetono sempre più spesso a memoria di uomo, viene qualche sospetto: le privatizzazioni sono il risultato o la causa di una crisi economica? Non è che una crisi così vasta sia stata creata apposta per indurre lo Stato, o meglio alcuni Stati, con lo spauracchio del debito, del baratro, del precipizio ecc., a svendere o regalare i loro gioielli a un parterre stavolta mondiale di beneficati? Nel 1992 aprì le danze la regina Elisabetta, quest’anno la cancelliera Angela Merkel. Ma il Corriere stavolta non balla.

Victor Ciuffa

Tags: Corsera story Victor Ciuffa Corriere della Sera Corrierista giornalisti Fiat Luglio - Agosto 2012

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