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CORSERA STORY. TV: LICENZIARE I TROMBONI, ASSUMERE I CRONISTI

L'opinione del Corrierista

Esiste a Roma un’associazione sui generis che si fa chiamare «sindacato» ma che un sindacato non è. È costituita da circa 400 persone, e non è neppure una consorteria. Opera nella massima chiarezza e trasparenza, è presente in ogni avvenimento della vita cittadina, dal più allegro al più triste; costituisce e fornisce una miniera di informazioni e di scoperte per i lettori di giornali. Si chiama Sindacato Cronisti Romani. Tra le varie specializzazioni esistenti all’interno della grande categoria dei giornalisti, quello di «cronisti» è un termine apparentemente riduttivo. Ma in realtà i cronisti sono il cuore, il motore del giornalismo.
In base alla mia lunghissima esperienza professionale posso paradossalmente, ma con altrettanta sicurezza, affermare che non si è giornalisti se non si è stati cronisti. Per il vero, grande giornalismo, quello con la G maiuscola, la cronaca è infatti come l’analisi logica e il latino per la lingua italiana: la chiave per scoprire e per comprendere prima e meglio degli altri la realtà, e per spiegarla alla massa. Quando quest’ultima stenta a comprendere i testi di pur celebrati articolisti, il più delle volte dipende dal fatto che questi non sono passati attraverso la cronaca.
Ho avuto occasione di lavorare in redazioni insieme a giornalisti laureati perfino in filosofia; pur riconoscendone la preparazione in determinati campi, non potevo non constatarne lacune non tanto nella conoscenza di casi di cronaca, bianca, nera o rosa che fosse, ma nei metodi usati e nell’abilità acquisita nella scoperta e nell’approfondimento di notizie e di aspetti essenziali per la comprensione dei fenomeni in atto nella società. Ho altresì conosciuto, e a fondo, cronisti che nella loro lunga attività professionale non hanno scritto un rigo o quasi, limitandosi a scoprire e accertare fatti e a fornire notizie alla redazione; qualcuno era munito addirittura della sola licenza elementare, eppure nel giornalismo di cronaca erano veramente imbattibili: nessun confronto è possibile con troppi laureati di oggi.
Inutile ricordare le loro frequentazioni dei posti più tristi come gli ospedali, spesso luoghi di dolore; o addirittura gli obitori e i rapporti con i relativi addetti, i cosiddetti «preparatori»; vi attingevano notizie essenziali e di prima mano per le cronache dei giornali, senza però indulgenze e compiacenze nella descrizione del macabro destino di esseri umani travolti dalla sciagura, e con il massimo rispetto per i loro congiunti. Questa rievocazione della professione e dell’attività del cronista di altri tempi - comunque sempre attuale -, sembra opportuna assistendo oggi ad una sua rappresentazione esasperata, falsata, operata in modo particolare dal cinema ma soprattutto dalla televisione.
Basta assistere una sera qualunque, ma anche in altre ore del giorno, magari proprio durante il pranzo quando anche i bambini sono a tavola, a film, filmati, fiction, reality ed altri «contenuti» televisivi, come oggi vengono chiamate questi lavori. Nella cruda realtà della strada, e quindi della cronaca, dinanzi alla morte di una persona si manifesta sempre un sentimento di pietà verso lo scomparso, anche se sconosciuto: il suo corpo viene subito pietosamente coperto da un lenzuolo o da un telo di fortuna.
Ebbene in questi «contenuti» televisivi propinati a tutti, grandi e piccoli, famiglie e singoli, oggi non manca mai la visione del morto. Ovviamente si tratta di morti finti, perché non c’è quasi nulla ormai in televisione che non sia finto, falso, costruito a tavolino; anche episodi animatissimi di scontri in strada o in tribunale sono inventati, ricostruiti, il più delle volte interpretati da personaggi di strada sì, ma lautamente pagati.
Tutto deve fare spettacolo in tv, per cui, se si verificano il delittaccio vero, il fattaccio, l’avvenimento clamoroso e meglio ancora se un po’ misterioso, su di essi vengono realizzate decine di trasmissioni, repliche, dibattiti, usi in ogni salsa e in ogni menù; se non si verificano, si ricostruisce, si inventa, si interpreta, si recita. Tanto i telespettatori non se ne accorgono, credono si tratti di diverbi veri, di risse veraci. Che ci permettono, però, di misurare la distanza infinita che intercorre tra queste ricostruzioni a base di cadaveri finti ma comunque raccapriccianti, propinati sempre più frequentemente a folti pubblici di grandi e piccini, e quelle dei cronisti impegnati a descrivere asciuttamente e misuratamente i fatti di «nera», e non per divertimento, passatempo, audience e guadagno, ma per fornire una doverosa, utile informazione alla società.
La moda in espansione dei morti in tv segue a quella cominciata alcuni anni prima e tuttora in auge: di malati, ospedali, cliniche, degenti, lettighe e parenti angosciati. Storie tutte simili, lacrimose, emozionanti; forse tra i telespettatori e telespettatrici suscitano veramente interesse, solidarietà, compassione. Ma sono frutto della scarsa fantasia e inventiva dei moderni autori. Nel dopoguerra, dinanzi a un’industria cinematografica di dimensioni mondiali come quella hollywoodiana, dopo l’alluvione in tutto il mondo e in particolare in Italia dei grandi film e delle grandi star americane, il cinematografico genio italico riuscì a campare e a prosperare reagendo a tale supremazia con la satira e l’intelligenza, ossia con i «filoni»; tra i più sfruttati quelli su Ercole, Maciste, Dracula, spaghetti western ed altro.
All’epoca sembravano filmetti scemi, ideati e realizzati in gran fretta per sfruttare il successo di quelli stranieri. Dinanzi all’odierna produzione televisiva sembrano capolavori epocali, irripetibili. Vari soggettisti e sceneggiatori italiani dell’epoca avevano cominciato a lavorare nelle cronache dei quotidiani. Per questo i loro film restarono ancorati alla realtà e lo stesso divismo delle star non assunse mai punte esagerate e ridicole.
Ad una cronaca del dopoguerra basata prima sui più truci fattacci di nera, poi sui grandi processi giudiziari, e via via sulla dolce vita, sul movimento studentesco del ‘68, sull’autunno caldo sindacale del ‘69, sul terrorismo degli anni di piombo, corrispose una tv a misura di uomo, di spettatore medio, di famiglia, di italiano. È in questi ultimi decenni che essa ha perduto la misura, ha sconfinato nella banalità, nella maleducazione, nella sconcezza, nella trivialità, nell’analfabetismo. Eliminati i tromboni, avrebbe bisogno di cronisti.

Victor Ciuffa

Tags: sindacato cinema televisione Corsera story Victor Ciuffa Corriere della Sera Corrierista marzo 2012

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