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Corsera Story - Ma che fanno i giornalisti per salvare i giornali?

L'opinione del Corrierista

Giornali in agonia? 58 aziende editoriali nel 2012 hanno dichiarato lo stato di crisi e almeno 1.139 giornalisti sono stati colpiti da provvedimenti diretti a ridurre i costi. Tuttora tagli e ristrutturazioni colpiscono pesantemente il settore. Nel 2013 si prospetta il bis, anzi di più. La crisi più clamorosa appare quella del Gruppo Rcs, ossia Rizzoli-Corriere della Sera. Annunciando il piano elaborato per fronteggiarla, l’amministratore delegato Pietro Scott Jovane ha premesso che in questa congiuntura il management deve mostrare agli azionisti di essere capace di salvare le attività strategiche e di eliminare quelle superflue: «Dobbiamo fare il massimo sforzo possibile, per poi chiedere il minimo indispensabile a soci e banche».
Ha annunciato pertanto: riduzione dei costi per 100 milioni di euro; cessione o chiusura di 10 testate periodiche, ossia tutte meno Oggi e Il Mondo; licenziamento di 640 giornalisti in Italia di cui 100 del Corriere della Sera, e di 160 in Spagna; vendita della mitica sede milanese del Corriere di Via Solferino 28, in cui hanno lavorato per oltre un secolo le più grandi firme del giornalismo italiano; trasferimento a Crescenzago; riduzione del 10 per cento dello stipendio dei vertici; aumento di capitale tramite conferimento da parte dei soci di 400 milioni di euro.
Cioè poco più della perdita di 380 milioni di euro registrata nel solo anno 2012, che ha portato l’esposizione del Gruppo a circa un miliardo di euro. Ma, soprattutto, un ulteriore snaturamento del Corriere della Sera attraverso un drastico dirottamento di attività giornalistiche verso il sistema digitale, destinato a ridurre automaticamente e ulteriormente la produzione, la diffusione, la vendita e gli incassi pubblicitari della carta stampata.
Snaturamento che è già visibile nel sito on line del Corriere della Sera, www.corriere.it, ricco di attrazioni costituite da servizi, foto e video, se non erotici, decisamente sexy e che, restando in linea per vari giorni, trasformano lo stesso sito in un prodotto ibrido, tra il quotidiano, il settimanale e per alcuni argomenti addirittura il mensile. E snaturato per di più dalla lettura resa difficile dalla necessità di agire non solo con gli occhi, ma anche con le mani, manovrando il mouse alla ricerca degli argomenti preferiti. Un sito, quindi, contenitore di foto e di video da guardare, più che di notizie e di pensieri da cui imparare.
Rivendicato, per il Corriere della Sera, un ruolo di leader nel mondo editoriale digitale, l’amministratore delegato della Rcs ha ammesso la difficoltà di utilizzare in varie «piattaforme», ossia in vari modi diversi dalla carta, i «contenuti informativi, culturali, di intrattenimento e di documentazione che questa azienda produce in quantità e qualità considerevoli». Ha smentito di  aver detto che per il Gruppo «il digitale è l’unica cosa che conta», però ha precisato: «Dobbiamo focalizzarci su questo tema, pensare a un futuro in cui il digitale sarà il nostro pane quotidiano; per ogni problema sulla carta, c’è una soluzione sul digitale».
Un «pane quotidiano» sufficiente per sfamare non solo giornalisti e poligrafici dei due settori - on line e carta stampata -, ma anche la massa di lettori che preferiscono conoscere, riflettere e imparare, come si è sempre fatto, dalla carta stampata, quotidianamente, settimanalmente o mensilmente, gli avvenimenti del mondo e quanto questi significano e comportano? E ai quali lettori poco interessa se il gettito pubblicitario derivante alla Rcs dal web e dalla digital edition, pari lo scorso anno a 220 milioni di euro, ha rappresentato circa il 14 per cento dei 1.600 milioni di euro del fatturato previsto dal Gruppo, il quale punta a portarlo nel 2015 a 400 milioni, ossia al 25 per cento del fatturato totale.
Situazione e prospettive sulle quali sono intervenuti immediatamente i sindacati dei giornalisti con le solite litanie e liturgie, anziché con una reale presa di coscienza del contributo che anche loro possono, anzi devono dare per superare questa epocale crisi del settore. Questi gli slogan degli addetti ai lavori: «La gravità della crisi è senza precedenti», «Indispensabile procedere con la massima accortezza», «Basta furberie e minacce degli editori», «I giornalisti non sono rottami», «Un attacco inaudito e inaccettabile».
Ma, oltre all’annuncio di 10 giorni di sciopero, quali le soluzioni proposte dai sindacati? «C’è bisogno di corresponsabilità di editori e giornalisti, di solidarietà e non di egoismi, di scelte industriali ed editoriali credibili, di piena assunzione dei doveri del rischio di impresa e della consapevolezza della speciale funzione di quella editoriale». Ed ancora: «Gli azionisti principali della Rcs, in particolare quelli raccolti nel patto di sindacato, sono chiamati a garantire la sottoscrizione di un aumento di capitale adeguato al rilancio indispensabile del Gruppo e al mantenimento della leadership». Insomma devono guarire il malato gli azionisti del Gruppo, che «negli ultimi cinque esercizi 2007-2011, già segnati dall’inizio della crisi, si sono spartiti dividendi pari a 108 milioni di euro».
Ma i sindacati cosa propongono da parte dei giornalisti? Dalle cronache emerge una timida confessione: «Critiche a bilanci e gestioni sono armi sindacali spuntate, e la voglia dei rappresentanti dei giornalisti di scendere in trincea e di esporsi latita». Non è una novità, la storicizzò Ponzio Pilato. Lavarsene le mani. Ma slogan, appelli a un’ingiustificata bontà degli azionisti, scioperi minacciati ma poi diluiti, non risolvono crisi così serie, in buona parte aggravate proprio dai giornalisti.
Negli anni 80, quando numero Uno del Corriere della Sera in rappresentanza di Gianni Agnelli era Cesare Romiti, si coniò il termine «romitismo» per indicare i suoi oculati, prudenti metodi di gestione. Io compilai un rapporto calcolando in 10 miliardi di lire l’anno le spese veramente inutili della redazione romana, che contava allora una sessantina di giornalisti. Il sindacato mi boicottò, perché si trattava di spese rispondenti non a reali necessità del servizio, ma a veri e consistenti regali  a collaboratori esterni, giornalisti e fotografi politicizzati, incaricati di articoli e servizi che avrebbero dovuto svolgere i redattori interni. I quali venivano tenuti inattivi contro la loro volontà, ma per i diktat dei sindacati. In alcuni periodi si era formata una ben pasciuta redazione-ombra. Allora creai uno slogan che sembra valere tuttora: «Romitismo sta scritto di fuori».   

Victor Ciuffa

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