CORRIERE STORY. QUANDO A DIRIGERE C'ERA IL DIRETTORE
L’opinione del Corrierista
Chi si va a rileggere i giornali di cent’anni fa? Forse solo gli studenti di giornalismo. Ogni tanto però, in occasione di qualche grande anniversario, ad esempio il centenario della fondazione, viene inserita in qualche giornale la copia del suo primo numero. Solo così la massa dei lettori può capire come erano fatti allora i quotidiani: niente foto, titoli piccoli, intere colonne di piombo ovvero di testo composto con il vecchio sistema della linotype, basato sulla fusione in piombo di caratteri e righe. Si trattava di giornali densi di notizie, servizi, reportages, con pochi articoli di commento. Visivamente erano pagine che oggi, se non proprio illeggibili, sarebbero certamente ostiche; ma erano più che funzionali ai tempi in cui La Domenica del Corriere illustrava i servizi con le tavole a colori prima di Achille Beltrame, poi di Walter Molino.
Oggi certamente non può più essere così, sia per l’immensa produzione e l’istantanea trasmissione di immagini rese possibili dai progressi tecnici e scientifici, sia per l’ausilio fornito dalla foto al giornalista nella descrizione di un avvenimento, sia per l’esigenza del lettore di apprendere rapidamente, sinteticamente e visivamente quello che è successo. E sia, infine e soprattutto, per l’abitudine, diffusa ormai anche eccessivamente dalla televisione, di apprendere le notizie quasi esclusivamente attraverso le immagini, per di più in movimento e a colori, i cosiddetti «video». Ma da questo a quanto si sta verificando in alcuni grandi quotidiani, tra cui il Corriere della Sera, la differenza è abissale. E va tutta a scapito dell’informazione, ossia del vero giornalismo.
Recentemente proprio il Corriere della Sera, ma non solo questo, ha registrato un’escalation travolgente, smodata, eccessiva, dell’immagine in sostituzione, e non più solo a corredo, dei testi. Si è assistito, ad esempio, alla pubblicazione, a cavallo di due pagine come la seconda e la terza, dedicate entrambe a un avvenimento di grandissima attualità, di un’immensa fotografia dalle dimensioni quasi di un’intera pagina; il che significa che di fatto, anziché due pagine, a quell’argomento ne è stata dedicata solo una; e senza che lo smisurato ingrandimento della foto aggiungesse alcunché alle notizie contenute in quelle due pagine. E questo schema si ripete in varie occasioni.
In alcuni giornali si assiste, in sostanza, a una crescente prevalenza, sul giornalismo, di pure esercitazioni accademiche, a tentativi di presentare una veste grafica apparentemente più accattivante e moderna ricorrendo, però, non all’arricchimento e all’approfondimento dei contenuti, ma a semplici e banali espedienti visivi, non giustificati dai servizi cui si riferiscono e del tutto gratuiti in quanto gli stessi effetti possono essere raggiunti da immagini di minori dimensioni, tanto più che è cominciata ed è in crescita anche nei quotidiani l’introduzione della stampa a colori.
Si tratta pertanto di esercitazioni non solo velleitarie e inutili, ma dannose per vari motivi, principalmente perché riducono lo spazio destinato ai testi relativi sia allo stesso argomento sia ad eventuali altri argomenti, che potrebbero invece arricchire maggiormente il giornale. Spesso, per di più, le foto sono accompagnate da altri artifici grafici come tabelle, diagrammi, schemetti, riassuntini.
Ma come si giunge a queste macroscopiche sproporzioni tra scritti e foto, a questo impoverimento dei testi senza una corrispondente e proporzionata validità delle immagini? Una risposta a questa domanda può trovarsi nel ruolo acquisito negli ultimi decenni dai grafici e nel loro maggiore peso anche sindacale. Proprio nel Corriere della Sera c’è stato, tra gli altri, un caso clamoroso, quello di un grafico riuscito prima a farsi eleggere nel comitato di redazione e poi a farsi nominare vicecaporedattore senza aver mai scritto un articolo.
Il problema, va chiarito subito, non è quello di saper scrivere o disegnare; ho conosciuto bravissimi giornalisti che non hanno mai scritto un articolo eppure hanno realizzato scoop clamorosi. Uno di essi, in servizio alla Questura di Roma, nel primissimo pomeriggio del 17 dicembre 1973 mi telefonò in anteprima la notizia dell’attentato contro l’aereo della Pan Am nell’aeroporto di Fiumicino che provocò 32 morti e 15 feriti, consentendomi di comunicarla alla direzione del Corriere della Sera prima di tutte le agenzie. E vi sono stati esempi di illustri colleghi come Gaetano Afeltra il quale, dirigendo il glorioso Corriere d’Informazione, anziché scrivere preferiva suggerire dettagliatamente, ottenendone articoli superlativi, la «scaletta» a firme autorevolissime come Dino Buzzati, Orio Vergani, Virgilio Lilli e Indro Montanelli, da seguire nei servizi che gli commissionava.
Non sono solo le immagini ingiustificatamente smisurate a ridurre i contenuti giornalistici. Un altro espediente è costituito dai testi sbandierati a destra, artificio grafico usato per allungare pezzi brevi ed eliminare il fastidio di riempire gli spazi vuoti. Un terzo è la predisposizione al mattino, da parte dei grafici, di una «gabbia» in cui inserire gli argomenti previsti, cercando, per pigrizia, osservanza di orari sindacali, o esigenze editoriali, di modificarla e adeguarla il meno possibile agli imprevisti del giorno, con squilibri valutativi e minore freschezza dei servizi. Un tempo si sostituivano pagine intere a tarda ora della notte, ma oggi dopo le 20 è difficile trovare qualcuno nelle redazioni.
In questa situazione qual è il compito dei direttori? Seguire, controllare, vigilare, spronare la redazione a migliorare sempre i contenuti giornalistici, a evitare di riempire le pagine come il cestino della carta. Possono farlo ancora? In teoria sì, ma nella pratica li si vede più impegnati nei rapporti con i politici e con i potentati economico-finanziari che nella confezione dei giornali, lasciata in mano agli art director.
Il Corrierista
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