CORSERA STORY. EDITORIA: PADRONA MA ESTRANEA ALLA VERA INFORMAZIONE
Vorrei raccontare o ricordare all’ex direttore del Corriere della Sera Piero Ostellino un episodio avvenuto negli anni 80, all’incirca nel periodo in cui egli lo dirigeva e comunque quando il giornale era di proprietà assoluta degli Agnelli. La cronaca di Roma del Corriere pubblicò, come tutti i quotidiani, la notizia di un incidente occorso a un autobus Inbus uscito di strada per cause non accertate. Si poteva ipotizzare un guasto meccanico, un bicchiere in più dell’autista, la necessità di salvare un pedone o di evitare un veicolo contromano. Il Corriere non approfondì, ma diede al fatto uno spazio triplo rispetto agli altri giornali, e soprattutto un grande titolo a varie colonne. Perché?
L’Inbus era costruito da un consorzio guidato da un’azienda pubblica, la Breda Costruzioni Ferroviarie, preferita negli acquisti di autobus dalle aziende di trasporto di Roma, Milano e altre città. La sua concorrente più accanita era l’Iveco della Fiat, ossia degli Agnelli come il Corriere della Sera. Sicuramente né dallo stato maggiore torinese della fabbrica né dalla direzione milanese del giornale furono impartite direttive alla redazione romana. Perché allora quel risalto e quel titolo che insinuavano nei passeggeri inquietanti dubbi sulla sicurezza degli Inbus? Per il semplice motivo che molti giornalisti sono più realisti del re. Per mettersi in luce, per ingraziarsi i padroni, per ottenere avanzamenti retributivi e di carriera.
Più di una volta ho sentito autorevoli direttori e articolisti assicurare: «Non ho mai ricevuto una telefonata dall’editore o dal direttore». C’è solo da ridere. E da rispondere: «Perché, c’era bisogno?». Certi giornalisti studiano da direttori quando ancora indossano i calzoni corti, nel senso che individuano subito strade e sistemi che portano al potere; e li seguono senza alcuna dignità e a costo di qualsiasi umiliazione. Si «iscrivono» a un «centro di potere» economico e finanziario, oltreché a qualche partito, e si dedicano ai più bassi servizi: ho visto colleghi far la spesa alla consorte del direttore, affittare la villa per le vacanze a fianco di quella dell’editore, degradare la propria moglie a dama di compagnia o cortigiana della «padrona» ecc. Mi astengo del fare i nomi per carità di categoria.
Però tutti costoro hanno fatto carriera, sono diventati direttori di giornali e di televisioni, amministratori delegati, deputati, senatori, sottosegretari e ministri. Racconto questo per dare insieme ragione e torto a Ostellino per quanto ha scritto in un «fondo» sul Corriere del 6 febbraio scorso a proposito dell’ordinanza di arresto domiciliare emesso, in un inchiesta sulla sanità, da un Gip a carico del proprietario di cliniche e di giornali Giampaolo Angelucci, ordinanza pochi giorni dopo revocata. Nel provvedimento il Gip aveva scritto che gli Angelucci, possedendo i quotidiani Libero e Il Riformista, «dimostrano di essere consapevoli di poter superare qualunque ostacolo potendo orientare l’informazione ai loro fini».
In proposito Ostellino ha osservato: «Non penso che fra i compiti di un giornale vi sia quello di fare il lobbista per gli interessi extra-editoriali del proprio editore». Io vado più in là: non penso solo, ma sostengo che il giornale non deve fare il lobbista ecc. ecc. Però dobbiamo chiederci, allora perché industriali, banchieri, petrolieri, costruttori, appaltatori, immobiliaristi, bottegai, sarti, molti dei quali ignorano non solo il giornalismo e la cultura ma anche la grammatica italiana, continuino a gareggiare nell’accaparrarsi i giornali; e non uno solo, ma intere catene.
E perché vi pubblicano con grande risalto i risultati sempre positivi delle loro aziende, delle quali spesso i lettori non conoscono neppure la proprietà. Per non parlare poi della pubblicità occulta dei loro prodotti e delle loro attività, delle lodi o delle critiche rivolte ai pubblici amministratori, del condizionamento che di fatto impongono al potere legislativo, alle persone e agli organi eletti dal popolo.
Ostellino attribuisce alla magistratura che indaga su eventuali reati la convinzione che la proprietà di giornali da parte di operatori impegnati in altri settori sia un’aggravante nel caso in cui questi ultimi compiano illeciti. «Siamo alla teoria in chiave giudiziaria–è l’osservazione critica di Ostellino–, del primato dell’editore puro, senza altri interessi che quello di produrre il medium; all’idea che, fra i compiti della magistratura, non ci sia solo quello di applicare la legge, ma anche di migliorare il Paese».
Da giornalista che ha cominciato la carriera proprio nella cronaca giudiziaria e nell’assidua frequentazione dei Palazzi di Giustizia, non solo non condivido questa critica ma mi rallegro nel constatare che esiste ancora qualcuno in grado di dire liberamente che l’informazione deve essere libera; che i lettori devono essere messi in grado di conoscere il più possibile e di giudicare liberamente. Aggiungo che un industriale può produrre auto o telefonini o entrambi; che un banchiere può gestire il credito o le polizze assicurative o entrambi; che un costruttore può fabbricare appartamenti, opere pubbliche, perfino trattori per l’agricoltura e così via.
Ma che, per il settore editoria e informazione, tutti costoro, insieme ai partiti, non debbono eliminare completamente dal mercato l’informazione indipendente, quella prodotta da editori puri, i cui bilanci non devono essere ripianati dai proventi di altre attività, talvolta neppure chiare, oneste e legittime come dimostrano molti procedimenti giudiziari. Nel settore della circolazione stradale, nel quale il numero delle auto crea un disordine spaventoso e una sopraffazione continua da parte dei più indisciplinati, i Comuni sono tenuti a creare parcheggi secondo una regola tassativa: tanti posti-auto in concessione ad enti o privati, altrettanti posti-auto liberi per tutti.
Almeno un analogo criterio dovrebbe valere per i mezzi di informazione: tanti di proprietà privata, altrettanti, ma dello stesso peso e con lo stesso numero di lettori, gestiti da editori puri. Un’ultima annotazione: fui assunto dal Corriere della Sera 14 anni prima di Ostellino e, a differenza di lui, non ricordo di aver mai avuto in esso - e che vi siano stati fino ad oggi -, editori «puri». L’unico che vi entrò in tale veste finì presto in mano a banche e a organizzazioni segrete che l’estromisero, gli tolsero il giornale, lo mandarono in galera e solo dopo 14 anni è stato riabilitato. E ho visto invece decine di giornalisti che, per avere preteso indipendenza, professionalità e avversione alle lobbies editoriali, non sono stati licenziati ma «soltanto» appannati, neutralizzati, emarginati.
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