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Corsera Story. Paghiamo pure il giornale per leggere notizie non notizie?

L'opinione del Corrierista

C' è un giornale abbastanza diffuso a Roma che pubblica quotidianamente un commento a qualche «fatto del giorno», un commento lungo al massimo una decina o dozzina di righe. I pretesti sono banali ed ancor più i commenti. Che cosa può contenere infatti di nuovo, di intelligente, di informativo e di educativo, un pensierino scritto da una «firma» su un fatto che, se lo sceglie lui e lo tratta così facilmente e brevemente, significa che è avvenuto e che ne è stata data notizia da tutti o da quasi tutti i giornali quanto meno il giorno prima, o addirittura qualche settimana prima? Ovviamente non può dire o aggiungere nulla. Ciononostante, la rubrichetta continua ad essere pubblicata giorno dopo giorno, per mesi, per anni, per decenni.
Chi è l’autore? Una «firma» abbastanza adusa a familiarizzare con politici di qualunque colore, poteri forti, organizzazioni occulte. O comunque lo è stata. Ma chiunque nella vita abbia frequentato certe stanze dei bottoni, difficilmente si rassegna a staccarsene, continuerà a servirsene. E tra i poteri forti figurano, frequentemente, i proprietari della stampa, gli editori, che possono essere imprenditori privati, o leader politici, o partiti o organizzazioni varie.
In Italia la Costituzione sancisce la libertà di stampa, tutti hanno il diritto di esprimere e di scrivere liberamente il proprio pensiero. Ma bisogna avere i mezzi finanziari per farlo. Un antico proverbio popolare diceva: «Se non ce l’hai del tuo qualche ducato, levartelo non puoi l’appetito». Tornando alla stampa, se non si hanno mezzi finanziari adeguati, la libertà resta teorica, sancita certamente dalla prima Legge dello Stato, ma di fatto impraticabile. Chi ha la possibilità non soltanto di pagare la pubblicazione di un giornale, ma anche di diffonderlo? Nel codice penale figura addirittura un articolo che vieta di scrivere sui muri altrui se il proprietario non vuole; norma che però non vale per i cosiddetti grafitari, quando vengono esaltati come grandi artisti da amministratori pubblici cui fa comodo spendere comunque fondi pubblici: da una parte per accattivarsi questi pseudo artisti e quanti da loro sono rimasti imbrattati, dall’altra per eliminare certi capolavori spartendo risorse finanziarie tra pseudo creativi e furbi amministratori.
Ma se parliamo di editori, dobbiamo riconoscere che, se finanziano effettivamente i propri giornali, hanno anche il diritto di pubblicare quello che vogliono, nel rispetto delle prescrizioni  delle leggi e dei diritti altrui. E se proprio vogliono pubblicare quello che vogliono, anche gli strafalcioni di amici, di raccomandati, di ignoranti e di  illetterati, possono farlo ma devono osservare le regole sulle attività di vendita. Le quali, infatti, sono giuridicamente disciplinate, soggette a vari obblighi, a cominciare da quello della correttezza e dell’onestà. Nel commercio non sono ammessi inganni, raggiri, truffe. Quando ricorrono questi casi? E che cosa comporta questo per il mondo dell’editoria e del giornalismo?
Ricorrono quando, ad esempio, la merce acquistata non corrisponde a quella venduta; quando al posto di un prodotto promesso, o stabilito, o concordato ne viene consegnato un altro. Il giornale è come una qualunque scatola di prodotti alimentari, tecnologici o di altra natura: il lettore non deve trovarvi dentro spazi vuoti, proprio come avviene in quei mini commenti di 10 righe che non commentano nulla, non dicono nulla. E questo soprattutto perché il lettore ha pagato il giornale; quanto invece alla linea politica da quest’ultimo seguita, il lettore l’ha scelta acquistandolo; se non la condivide, può non comprarlo più.
Ma diverso è il caso in cui, per assicurare un ruolo, un benefit, un guadagno ingiustificato ad una «firma» consunta, liscia od ormai sgualcita, si toglie spazio ad altri commenti, o semplicemente ad altre vere notizie giornalistiche. Sarebbe più dignitoso e coraggioso per un giornale, per il suo direttore e per il suo editore, lasciare quello spazio bianco; non si prenderebbero in giro i lettori fingendo di offrire loro un distillato in 10 righe di saggezza, di scienza o di letteratura, somministrandogli invece il nulla, il vuoto.
Qualcuno si chiederà di chi io stia parlando; ma tutte le mattine il lettore si imbatte in quelle 10 righe di vuoto pneumatico, e nel vantato nome del suo autore. E si chiede: «Ma questo giornalista o scrittore, che cosa sta dicendo, che cosa intende dire? Quale profonda lezione crede di starci impartendo?».
Comunque, questo descritto non è certamente un caso grave, e soprattutto non è il più grave. Ma ciò che io sto rimproverando a qualche «firma» autoreferenziale e a qualche editore e direttore distratto assume dimensioni smisurate nelle televisioni, i cui prodotti ossia le cui trasmissioni sono appesantite e aggravate dalla loro ineludibilità, dall’impossibilità,  almeno per la massa, di sottrarsi ad esse, di sfuggire. Un duplice caso i cui effetti, accavallandosi, si sono moltiplicati e non semplicemente raddoppiati, appunto in quanto duplice, si è verificato qualche settimana fa, con il risultato di creare uno tsunami di sciocchezze e melensaggini, alle quali milioni di italiani sono stati costretti ad assistere.
Precisamente i dibattiti, le disquisizioni, i commenti tra «esperti» del Festival di San Remo; e subito dopo, le interpretazioni, le analisi politiche, le previsioni, i retroscena e le strategie sull’incarico di formare il nuovo Governo conferito dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano a Matteo Renzi. Anziché ad una riflessione seria sulla situazione e sull’impegno profuso da quanti sono stati e sono tuttora incaricati da Napolitano di cercare di risolvere i problemi del Paese, a cosa si è assistito? Da parte di certa stampa a un cicaleccio inconsistente, sia pure alimentato dall’atteggiamento ovviamente maldestro, dalla goffagine, dall’inesperienza di alcuni nuovi protagonisti e protagoniste dell’incipiente novella era.
Si è sfiorato il ridicolo quando alcune giornaliste televisive hanno pensato   di compiere scrupolosamente il loro dovere di croniste descrivendo abbinamenti di colori e tessuti degli abiti dei neoministri donne, e soprattutto l’altezza in centimetri dei loro tacchi. E tanti altri particolari non certo risolutori di una crisi di Governo e di un’ancor più grave crisi economica che coinvolge non i 20 mila abitatori privilegiati dei vari Palazzi ma, chi più chi meno, tutti indistintamente gli italiani.
         Victor Ciuffa

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