Corsera Story. Talk show per politici, per conduttori o per gli elettori?
L'opinione del Corrierista
Li hanno definiti «territorio di confine tra intrattenimento e informazione», tali perfino da indurre spettatori sopra i 30 e addirittura sopra i 40 anni a «ritornare davanti alla tv con il telecomando in una mano e lo smartphone dall’altra». Parliamo dei talk show che, secondo alcuni, costituirebbero ormai un fenomeno non più solo politico, ma sociale, degno di studi sociologici oltreché antropologici, e presto forse anche filosofici, economici, artistici; e comunque costituente una nuova forma di spettacolo, di «prodotto» televisivo.
Prodotto quindi originale, di successo inaspettato, capace di risuscitare l’interesse di una massa stanca, sazia, nauseata dalla televisione corrente. I sostenitori di tutto ciò evitano però di rispondere a una domanda, di approfondire sociologicamente la risposta. La domanda è questa: non sarà che la montante allergia verso la televisione in generale, viene alimentata, stimolata, diffusa proprio da questo specifico tipo di trasmissione televisiva, dal nome d’importazione, per molti misterioso, per altri attraente, per altri ancora incomprensibile, e per non pochi detestabile?
Che sia così non è proprio da escludere soprattutto se si seleziona e seziona il pubblico dei telespettatori in fasce di età, come appunto qualcuno ha già provato a fare. Se si esaminano le fasce di età molto più avanzate, ad esempio quelle di chi 20 o 30 anni li aveva quando, invece che alla tv, si assisteva al «comizio» per chiarirsi le idee, conoscere i programmi elettorali, votare per l’uno o l’altro simbolo o candidato, si scopre che in una mano possono pure avere un telefonino, e nell’altra hanno certamente un telecomando, ma per eliminare fisicamente dal televisore proprio questi talk show.
Non dissimilmente si comportano le fasce di età inferiore, composte tutte da telespettatori smaliziati, profondi conoscitori non solo dei problemi reali che si vivono nel Paese, ma anche della raffinata, funambolica ma ingenua abilità con la quale i partecipanti a tali trasmissioni si muovono. Per questi telespettatori tutto il contenuto del talk show è scontato, povero, squallido, a cominciare dalle scenografie e dalle coreografie.
Scontato e soprattutto banale. Pensiamo infatti anche ai più giovani, a quelli dai 15 anni in su - oggi si vota a 18 anni - abituati ad assistere a concerti megagalattici di star internazionali che si muovono in vulcaniche eruzioni di luci, colori, suoni, voci, applausi veri e non comandati, in decine di migliaia, altro che quel pubblico finto, muto, inespressivo, composto da qualche decina di segretarie precettate o di casalinghe allucinate, dallo sguardo spento, rivolto a chissà quali problemi reali della loro vita quotidiana, che è poi quella di tutti.
Pensiamo a come violentemente insorgerebbero i componenti, ed ancor più le componenti di associazioni animaliste se per un paio di ore in un circo si costringessero cani, gatti scimmie, pecore, cavalli, elefanti ecc. a stare fermi, immobili, senza un latrato, un miagolio, un nitrito o un barrito. E per di più ad ascoltare sempre le stesse cose, sempre dalle stesse persone. Non voglio essere, però, troppo severo, perché qualche volta anche quel circo televisivo si anima; vere o finte che siano, scoppiano vivaci polemiche, fulminei battibecchi tra esponenti di partiti diversi, molto spesso tra le rappresentanti del gentil sesso, locuzione questa spesso ampiamente obliterata in tali occasioni.
Paragonare certi talk show a spettacoli circensi non è esagerato, dal momento che alcuni conduttori si muovono talvolta, in quell’arena di compensato e di cartapesta, con movenze non solo di domatori di tigri, ma di spietati, truci gladiatori. E poi non bisogna dimenticare le «finte», ossia le simulazioni di situazioni reali, come ad esempio quando, a talk show inoltrato, improvvisamente tutto si ferma, a cominciare dal conduttore, per far entrare in scena un altro partecipante, inesorabilmente applaudito a comando: inverosimilmente come se arrivasse proprio in quell’istante, mentre più verosimilmente lo si immagina ad attendere dietro le quinte il momento opportuno, forse per consentire al conduttore di rianimare l’interesse non solo di spettatori assenti, ma degli stessi coatti della trasmissione.
Ma veniamo ai «discussant», cioè ai partecipanti a queste trasmissioni, che possono essere rappresentanti politici, giornalisti, imprenditori, sindacalisti. Come i conduttori, i discussant possono essere padroni dell’argomento in programma, ossia averne un’ottima conoscenza, quindi possono intervenire pacatamente, serenamente, sicuri delle loro tesi e affermazioni. Ma è sempre così? È facile constatare che raramente è così. Anche sprovveduti spettatori si accorgono, infatti, quando gli interventi sono frutto di varie lezioni cui hanno avuto occasione di assistere nel loro partito o gruppo politico.
Spesso esibiscono un bagaglio non di cultura ma di tesi preconcette, di episodi e di avvenimenti appresi da fonti di terza mano. I più preparati non sempre possono dimostrare la loro preparazione, e approfondire razionalmente un argomento; spesso vengono interrotti da altri discussant in una sovrapposizione incomprensibile di voci, frasi, battute, spesso insistenti e volutamente provocatorie anche a fini esibitori oltreché elettorali. Il risultato è che i telespettatori non riescono mai ad avere un quadro esatto, veritiero, obiettivo di una posizione o di una situazione politica o economica.
Un raffronto tra questi finti «comizi» televisivi di oggi e quelli popolari e tradizionali di ieri? Si può fare. La conclusione potrebbe sembrare questa: malgrado i miracolosi progressi scientifici e tecnologici compiuti, quelli del passato erano notevolmente più veri, genuini, convincenti, esaurienti. E per vincere le perplessità, i dubbi, le disparità di pareri, comunque esistenti, del pubblico presente, si ricorreva al cosiddetto «contraddittorio». Nei comizi semplici parlava uno o più oratori di un unico partito; o uno per partito in presenza di una coalizione ufficiale elettorale. Nei contraddittori si affrontavano invece due rappresentanti di due partiti avversari o comunque di diversa estrazione e tendenza. E la gente ascoltava all’aperto, in piazza, per ore, anche con il freddo intenso. E tornava a casa e poi alle urne, più serena, soddisfatta, sicura e fiduciosa nei propri rappresentanti. Oggi pure è così?
Victor Ciuffa
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